venerdì 13 gennaio 2012

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


LA GRANITICA CERTEZZA

L'ORSO CHE NON LO ERA, Frank Tashlin
Donzelli, 2011
 
ILLUSTRATI PER MEDI (dai 7 anni)


"C'era una volta, in effetti era un martedì, l'Orso che se ne stava sul ciglio di una grande foresta a fissare il cielo. In alto, lassù, vide passare uno stormo di oche dirette a sud. Allora si mise a fissare gli alberi della foresta. Le foglie si erano fatte tutte gialle e marroni e cadevano giù dai rami. Lui sapeva che quando le oche volavano a sud e le foglie cadevano dagli alberi, presto sarebbe arrivato l'inverno e la neve avrebbe ricoperto a foresta. Era tempo di andare a svernare in una caverna. E così fece."

Questo orso nella vita, come molti altri orsi ma non tutti, ha poche ma granitiche certezze. La prima è che quando le anatre vanno a sud e le foglie cadono vuol dire che arriva l'inverno. La seconda è che quando è inverno si va a dormire. La terza è che lui è un orso e nient'altro. Come dargli torto? Eppure per tutta questa storia il povero Orso, al quale hanno appena costruito sulla testa un'enorme fabbrica, non fa altro che ribadire la sua appartenenza alla specie dei Plantigradi. Il problema è nato al suo risveglio primaverile, quando uscendo dalla caverna si trova catapultato dritto dritto all'interno di uno stabilimento di quella fabbrica. Se a lui sembra tutto un terribile incubo, altrettanto improbabile viene giudicata la sua presenza lì da un caporeparto di passaggio. Così, preso per un operaio scansafatiche, viene spedito dal direttore e poi dallo stesso presidente. Caparbiamente nessuno crede all'evidenza. Tutti si ostinano a vedere in lui un babbeo scansafatiche con il cappotto e la barba da fare. Persino gli orsi dello zoo, dietro le sbarre, o quelli del circo, con il cappellino in testa, non riconoscono in lui un loro simile: d'altronde lui non è in gabbia come gli orsi e non porta nessun ridicolo abitino da circo come gli orsi. Così allo sventurato non resta altro che demolire la sua terza granitica certezza e credere a quanto tutti gli continuano a dire: lui non è un orso, bensì un operaio e, come tale, deve mettersi a lavorare alla catena di montaggio. E così fa fino al giorno in cui la fabbrica chiuse i battenti. Così l'orso che non lo era vaga nella neve in cerca di identità. Imbattersi nuovamente nella caverna da cui tutto aveva avuto inizio gli fa riprovare la gioia di essere stesso: un orso e nient'altro.

 Ho una predilezione istintiva per gli orsi e per le storie che li raccontano. Tanto per intenderci, sappiate che sul mio tavolo dondola davanti al mio naso un disegno bellissimo di Heidelbach in cui compare il testone di un orso con in bocca i 'resti' di un imperatore, ovvero la corona.
E tra le storie che parlano di orsi prediligo quelle in cui sono 'fuori contesto'. La piccola storia di Tashlin è una di queste. Tutto ruota intorno al grande equivoco che tutti , a parte l'orso in questione, si rifiutano di riconoscere. Un orso, nero e peloso, alla catena di montaggio tra operai ritratti tutti uguali, di schiena in un gesto seriale, stona e fa ridere per questo. Fa ridere anche un orso perplesso, appoggiato alla grande scrivania nell'ufficio del cocciuto presidente. Fa ridere la serenità interiore che l'orso dimostra quando tutti si ostinano a non credergli e a considerarlo un operaio scansafatiche. Ma la cosa che fa ridere di più è il contrasto che si snoda per tutto il racconto tra certa bonomia, data dalla calma interiore dell'orso (che perdura anche nell'accettare alla fine il suo destino), e certa convulsa agitazione che caratterizza tutti i personaggi umani della storia, dal capo reparto sempre urlante al presidente contornato da ben cinque segretarie. Tutti gli uomini si affannano, mentre l'orso si guarda intorno con un perenne sguardo perplesso non vedendo la ragione di tanta agitazione.


Non a caso, la storia il prodigioso cartoonist Tashlin la scrisse nel 1946, alla fine della guerra, quando quasi tutta l'umanità si stava affannando a ricostruire ciò che aveva appena distrutto. E non a caso l'ambientazione di Tashlin allude al film Tempi moderni, di un decennio precedente.

Ma questo libro non fa solo ridere. Mette il lettore in condizioni di riflettere su diverse questioni interessanti. La prima: quali danni può fare l'incapacità di vedere le cose come sono veramente e di esercitare un proprio individuale giudizio critico? Basta che un caporeparto un po' ottuso 'fraintenda' ciò che ha davanti agli occhi, che tutti gli altri a seguire, come un sol uomo, gli vanno dietro. In tal modo, e siamo alla seconda questione, un pregiudizio dettato da una isitintiva sfiducia nell'altro (l'orso viene accusato di essere un operaio pelandrone) dilaga fino ad arrivare a generare l'assurdo. La terza questione ruota intorno all'atteggiamento degli orsi allo zoo e degli orsi al circo che sono incapaci di vedere ciò che esce dai loro canoni di normalità: da una parte le sbarre, dall'altra il cappellino. Pregiudizio, sfiducia nell'altro, e non riconoscimento del diverso sono purtroppo tre mali ancora molto attuali da quali sembra difficile guarire. In questo senso, il piccolo libro di Tashlin, è importantissimo che finisca nelle mani dei bambini che sono 'terreno fertile' dove far attecchire la buona pianta.
Carla


Noterelle a margine: a me piacciono i libri di piccolo formato, ma penso che in questo caso Donzelli, che peraltro utilizza anche formati XL, abbia esagerato. Sebbene siano in b/n, i bei disegni di Tashlin, soprattutto, se diretti anche ai bambini, avrebbero meritato più spazio. Soffrono nell'essere compressi e soffre anche l'occhio nel leggere un carattere tipografico così piccolo.
Seconda noterella: a proposito di storie assurde di orsi non posso non ricordare il bel libro Il discorso dell'orso (Kalandraka, 2009), tratto da un racconto di Julio Cortázar, genio dell'assurdo, in cui un orso passa le sue notti a passeggiare entro le tubature dei palazzi, per tenerle in ordine e per ascoltare, non visto, discorsi, gioie e dolori degli ignari inquilini.

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