mercoledì 2 gennaio 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


'LIFE IS BEAUTIFUL'

Farfariel, Il libro di Micù, Pietro Albì
Uovonero 2018


NARRATIVA PER GRANDI (dai 12 anni)

"La luna di colpo si spostò, o forse si spostò la finestra colpita da uno spiffero di vento, e Micù vide una figura nel vetro sporco; desiderò per un lungo istante che quella cosa non fosse l'immagine riflessa di sé stesso: c'era un bambino lì dentro, con gli occhi pieni di lacrime.
Un bambino che assomigliava a un ragnetto."

Ha 'gli occhi neri e molli come quelli di un agnello' e tutti lo chiamano Micù ma nel registro della chiesa di Canzano, al 2 luglio 1928, giorno della sua nascita, è segnato come Domenico. A tre anni l'ha beccato la polio che non gli ha mangiato il cervello, ma gli ha fatto la gamba destra sottile e fiacca.
Zoppica, non può correre e saltare. Ma è attaccato alla vita con forza.
Adesso di anni ne ha quasi dieci e continua a essere gracile e molto basso di statura, il più piccolo di tutti. Il suo corpo non cresce, ma la sua testa, invece, funziona a meraviglia: è il primo della classe, nonostante tutti lo prendano in giro chiamandolo Bagonghi.
Quando non è sui compiti, il resto del tempo lo passa dietro al nonno Tatà, un omone che parla lamericano, perché lui in Lamerica c'è stato veramente. Quel ragnetto guarda con ammirazione e timore il padre, Pietro che, al contrario di lui, è un altro gigante infaticabile nei campi del padrone, Don Ottavio. Nella nonna e nella madre Micù cerca rifugio quando è in fuga dai suoi incubi e dalla Spiritosa, la strega più temuta di tutta Canzano.
Il libro di Micù racconta la sua storia, che si intreccia con quella del suo paese e dei suoi paesani. Come quasi tutte le storie è fatta di realtà e di sogno, di vero e immaginato. E a raccontarla ci sono due voci: quella di Pietro Albì e quella di Farfariel, 'diavolo comico', probabile discendente della stirpe del Farfarello dantesco.

Robusto e denso, questo libro di Micù.
Consistente nella forma: è alto quasi tre dita, mancano poche pagine per arrivare a trecento e di buon peso perché la carta è di pregio, come di pregio è l'allestimento e la cura tipografica e iconografica, compresi alcuni vezzi formali.
Se l'intento era quello di apparire come un libro segnato dal tempo, l'obiettivo è stato raggiunto.
Consistente nelle immagini: un prologo e trentasei capitoli con trentasei titoli che si aprono su trentasei foto cartolina, quasi tutte di un'Italia contadina e periferica -l'Abruzzo- negli anni del fascismo imperante, il 1938. 


Una carrellata di scenari desueti eppure evocativi.
Solido nella trama, che si costruisce attraverso lo sguardo di Micù su una intera comunità, la famiglia, la scuola, il paese, la campagna intorno.
Le relazioni, le storie che tengono insieme i singoli personaggi sono il contesto in cui Micù vive la sua infanzia e che in qualche misura determinano il suo modo di stare al mondo.
Si tratta di un racconto corale: un periodo storico, una terra di povera gente e di signorotti, una società piena di conflitti e di ingiustizie e un gruppo di personaggi magnifici e indimenticabili.


Densa è la scrittura: perché a una voce principale, quella di Albì in verde, si aggiungono chiose, cancellature e richiami in inchiostro rosso, che sono la voce di Farfariel.
Mentre la voce di Farfariel è comica, sempre in falsetto, e gioca con il lettore, quella di Albì ha registri molto diversi.
Sa essere diretta nel rigore della descrizione di molte crudezze raccontate nel dettaglio. A un passo dal raggelante.


Sa essere profonda e spesso severa. Di quel microcosmo, seppure lontano nel tempo e nello spazio, racconta la quotidianità e, attraversandola, fa luce sul Bene e sul Male che c'è nell'umanità, senza avere mai uno sguardo pietoso o giudicante. 
Canzano nel 1938 diventa così patrimonio che riguarda tutti.


Ma sa essere anche lieve e ironica, nell'uso di una lingua pastosa quanto originale, frutto di un intreccio di dialetto (la lingua dei padri), inglese (imparato in Lamerica e sdoganato in Abruzzo) e italiano (la lingua di tutti).
Un lessico molto interessante che offre spunto per riflessioni ulteriori sul senso del comunicazione in termini anche più generali: sto pensando, per esempio, alla costante 'interpretazione' di Micù del lamericano del nonno. Geniale.
E ancora.
Questa densità e profondità mi pare percepibile anche emotivamente, nella narrazione di infanzie e vite difficili.
In primo luogo quella di Micù, mite sognatore, che piano piano scopre il mondo e la sua durezza. Quel ragnetto che nonostante tutto non vuole arrendersi alla sorte, pur rimanendo sempre indietro di qualche passo,  alla fine trova la forza di opporsi a un destino cui il padre contadino sembra volerlo legare. 'La vita è bellissima, Tatà!'
Denso nel racconto della realtà di un singolo che, nella sua potenza, sconfina nell'universalità: sto pensando alla durezza del capitolo dedicato a Bagonghi che, sebbene ancorato saldamente a un'epoca e a un contesto, è di agghiacciante attualità per molti ragazzini e ragazzine, sopra il metro e cinquanta.


Pastoso e di grande impatto 'visivo', pur rimanendo su carta, il racconto del lato immaginato, ovvero i sogni, ovvero gli incubi che si creano nella testa di Micù.
Le pagine dedicate all'orrore, cioè il racconto più strettamente connesso al Libro - la luce che si fa nero e buio, il sogno che si trasforma in incubo, la superficie che diventa sotterraneo - quelle pagine, in cui tutto può accadere e puntualmente accade, sono preziose per i cultori del genere.
Imputo ai miei quasi sessant'anni l'essermi smarrita un paio volte in detti passaggi. Mi sono data però un orientamento di massima nel pensare che il Libro, intorno a cui molto del racconto ruota e che è oggetto di perenne ricerca e ambito trofeo per alcuni, costituisca una sorta di bussola in grado di orientare e quindi determinare il percorso di molti destini. 
Se le cose però non dovessero essere proprio così, sia noto a tutti che vivo serenamente nell'illusione che lo siano.
Un peccato non leggerlo.

Carla




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