LA VOCE FUORICAMPO
Camelozampa 2024
ILLUSTRATI PER PICCOLI
"Ti svelo una cosa...
ti osservo sempre
sin dall'inizio
sei unico..."
Una voce fuoricampo si rivolge presumibilmente a un bambino e, in una sorta di forma poetica, una pagina un verso, gli racconta le cose così come si snocciolano nella sua vita: custodire sogni che aspettano di diventare realtà, il cammino si svolge in equilibrio, anche se talvolta si può cadere, ma ci sarà qualcuno da cui andare in cerca di conforto. Poi si cambia e si riparte anche se adesso è più chiaro che la caduta potrebbe essere dietro ogni angolo e ci si potrebbe far male ancora una volta...
ma tu sei come me. E così il cerchio si chiude. O quasi.
Questo è un libro fotografico che, con la regolarità di un metronomo, mette accanto a uno scatto della natura - che fosse sua la voce fuoricampo? - una foto di bambini o umani diversi, immortalati in contesti ogni volta molto differenti.
Il gioco, tutto visivo, è il seguente: la somiglianza, il richiamo di una forma con l'altra. Come a dire, appunto, io e te siamo uguali.
Si comincia con una bignonia sbocciata accanto alla bocca socchiusa di una bambina. Così per incanto i suoi denti bianchi trovano un corrispettivo nello stame giallino del fiore in cui rosso richiama quello delle labbra. Così come un germoglio di lenticchia è accanto a un fotogramma di una ecografia e i cerchi di un tronco segato sono vicini ai cerchi non esattamente concentrici di un polpastrello. E via andare.
In alcuni casi il confronto fra la fotografia di sinistra - animale o vegetale che sia - fa più fatica a trovare un suo corrispettivo perfetto dal punto di vista puramente formale, e per questo il loro senso di essere affiancate sta piuttosto nelle poche parole di accompagno.
Ecco. Le parole. Sono loro quelle che creano la grande perplessità di un libro del genere.
Sebbene i libri di fotografia, forse anche per il fatto che in Italia sono sempre troppo pochi, accendano il mio immediato interesse, qui c'è qualcosa di troppo e qualcosa di mancante.
Cerco di spiegarmi.
Il troppo sono le parole che, come spesso accade, sono ben al di sopra di ogni testa, e quindi orecchio, di bambino possibile. Sono rivolte all'infanzia tutta, ma la voce che le dice parla una lingua tutta adulta per adulti. E anche un po' retorica.
L'altro inceppamento che creano, loro malgrado, è che sembrano a tutti costi voler rubare la scena alle fotografie.
In qualche modo si avverte che sono loro la spina dorsale. Costituiscono un testo che ha una sua precisa tesi da dimostrare e quindi tutto sembra piegarsi, sottomettersi a questo.
E qui arriva la cosa che mi pare mancante: lo stupore che richiederebbe intorno a sé una fotografia.
Ancora di più lo richiederebbe se l'immagine vuole essere allusiva.
Io credo che il merito del fotografo, di quello che ha la capacità di vedere cose diverse da quelle che sono, di vedere oltre, il fotografo che segue il magnifico istinto dato dalla pereidolia, lo debba assecondare questo istinto, senza chiedere nulla in cambio, senza voler dimostrare qualcosa.
Solo così sarà efficace il suo scatto e solo così il lettore, come il fotografo nel momento della scoperta, si stupirà di vedere qualcosa che va al di là del soggetto fotografato in sé.
Credo che il gioco sia questo: guardare un pavimento e vederci un mare, guardare una narice e vederci un igloo, guardare un picciolo di banana e vederci un delfino o nelle dita di un guanto vederci le orecchie di un lupo. E ancora saper cogliere l'attimo in cui la luna è dentro una lanterna o quella screpolatura sul muro che è anche un bel picchio. E lasciare lì il tutto a decantare negli sguardi che verranno dopo: quelli dei lettori.
Ecco, cose così.
Accanto ai libri di Tappari, appunto, dove l'occhio passa da uno stupore a una meraviglia a ogni giro di pagina, penso a libri in cui alla fotografia si aggiunge il guizzo del segno o la costruzione a tre dimensioni: da Miramuri ai libri di Voltz fino ai più recenti di Balducci.
Di tutti questi ne conservo un ricordo indelebile perché mi hanno stupito, fatto ridere ed emozionato.
In nessuno di questi si coglie il desiderio da parte degli autori di prendere per mano il lettore: dirgli come funziona, spiegargli.
Ci si sente liberi di entrare nel loro gioco un po' folle.
E credo che, nei suoi laboratori con i bambini, anche Carolina Zanier abbia lo stesso intento: mostrare loro una foto di una zolla arida e chiedere cosa d'altro fa loro venire in mente, oppure il tracciato di un battito cardiaco a cosa potrebbe assimilarsi? E poi fare silenzio e lasciarli liberi di meravigliarsi e di giocare con le proprie immaginazioni.
Qui in Come me, come te, a partire dalla copertina e dal titolo scritto confidenzialmente a mano, fino all'ultima pagina si avverte invece una presenza che non vede l'ora di dire cose e di mettere tutti al corrente di tutto.
Ogni cosa è spiegata, fin nel minimo dettaglio: dall'agave blu alla guttazione
E io così però non riesco proprio a stupirmi, tranne in un pugnetto di occasioni, e men che meno a giocare e divertirmi.
Carla
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