mercoledì 30 ottobre 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

LA MESSA IN SCENA DI VOLPE E LEPRE 


“Questo è Volpe
Questa è Lepre
Volpe è grasso. 
'No!' 
'Si! Volpe, mangi troppo.' 
'Lo so, purtroppo.'
E mangia ancora di più. 
Ecco cosa mangia: 
una fetta di formaggio, un piatto di pappa d'avena, 
una coppetta di panna, 
un bel pezzo di pesce 
e una noce 
e una pera 
con un sacco di succo.”


Volpe e Lepre sono inseparabili amici, vivono nel bosco sotto lo stesso tetto, Gufo è il loro vicino, uccello a dir il vero un po' tonto che vive con un gallo (prima pulcino) chiamato Pio. 
L'incipit della storia ci presenta immediatamente i personaggi come fossero su un palco, neanche il tempo di conoscere il loro nome che l'autrice ci propone subito un dialogo su una questione che scopriremo essere molto frequente nella loro vita: la grande quantità di cibo che Volpe riesce a ingurgitare! 
Volpe è grasso nella stessa misura in cui Lepre è snella, veloce, e controlla la salute dell'amico. 
Il racconto della vita dei due animali si dipana per capitoli brevi, talvolta brevissimi, in cui al centro ci sono questioni di comune sopravvivenza: procurarsi il cibo, ripararsi dal freddo, relazionarsi con il vicino e con le persone estranee. Tutto narrato senza che mai si perda di vista la specie animale dei protagonisti, e non solo perché i loro nomi propri sono esattamente quelli della specie di appartenenza, ma soprattutto perché le loro tipiche caratteristiche riemergono alle volte come dei guizzi improvvisi che si dovrebbe tenere a bada. E quindi può accadere che Volpe si ricordi di essere appunto una volpe e venga improvvisamente investito da un irresistibile desiderio di divorare una lepre prima, un gallo dopo. Ma come se si trattasse di qualcosa di ingiusto, al pari di una marachella, Lepre prontamente interviene per farlo rinsavire. 


Un piano un po' meno evidente su cui si gioca il rapporto non concluso tra specie animale e caratteristica umana è quello del genere e dei ruoli sociali solitamente assegnati. 


Al lettore adulto non sfuggiranno probabilmente alcune situazioni in cui il ruolo femminile di Lepre sembra essere quello tradizionale di cura e di accudimento. Volpe oltretutto le chiede di cucinare, mangia grandi quantità di cibo, necessità di essere riportato in riga. Ma la Vanden Heede è ben attenta a non scivolare in certi tranelli e sembra alle volte lanciare un'esca per poi ridere se il lettore abbocca. Perché è pronta subito a smentire qualsiasi insinuazione e a ribaltare ognuna di quelle occasioni nelle quali si potrebbe riconoscere una intenzione esplicita di fornire contenuti moraleggianti. L’equilibrio fra le parti è sempre ricostruito non tanto allo scopo di mostrare quanto certi stereotipi siano fuori luogo in questa storia come nella vita che ci auguriamo di condurre, ma soprattutto per dichiararsi lontana da qualsiasi volontà didascalica. 
E così capiterà che sia Volpe a prendersi cura di Lepre quando si ammalerà e che i due si scambino in più di un'occasione le mansioni domestiche. 
Volpe e Lepre, e al pari Gufo e Pio, sono personaggi dotati di personalità precise, hanno caratteristiche che il giovane lettore riesce a comporre pian piano procedendo nella lettura del racconto. La freschezza di questa narrazione, che ha capitoli brevi e soprattutto uno stile paratattico con a capo frequenti, fa uso estremamente parco di parole, per cui tutto quello che occorre sapere si evince dalla lettura delle vicende narrate, nessuna descrizione che possa aggiungere altro a quello che ogni lettore avrà il piacere di scoprire, un passo alla volta. 


Il ruolo delle immagini di Thé Tjong-Khing è decisamente centrale: disegni piccoli, per lo più su fondo bianco, in perfetto armonioso rapporto con il testo. Non solo ne rispecchiano il contenuto, moltiplicando spesso la componente comica, ma soprattutto si inseriscono in quelle ampie porzioni di spazio che rimangono nella pagina grazie ai frequenti a capo, la cui scelta si dimostra doppiamente utile: consente una maggiore facilità di lettura, anche per chi è alle prime esperienze, e permettere alle illustrazioni di posizionarsi tra una frase e l'altra. 
L'incipit del libro è già illuminante in proposito e dimostra quanto la sintonia tra i due autori sia completa e quanto questo sia una nota aggiunta e preziosa del valore complessivo del testo che in questo modo si rivela oltretutto piacevolissimo allo sguardo. 
Questo volume recentemente riproposto in Italia da Rizzoli, in Belgio è il primo di una serie più lunga con gli stessi protagonisti. Sinceramente ci auguriamo che anche gli altri volumi possano raggiungere i giovani lettori italiani, dai sei anni in su, ma anche da prima, se fortunati ad avere chi leggerà per loro.

Teodosia 

"Volpe e Lepre", Sylvia Vanden Heede, Thé Tjong-Khing (trad. Laura Pignatti), Rizzoli 2024.

lunedì 28 ottobre 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

SUPERIORE 

Cavalca la tigre, Davide Calì, Guridi 
Kite edizioni, 2024 


ILLUSTRATI
 
 "C’è un grande campo. Pieno di gente. 
A un certo punto una gran voce dice: 
Ora scegliete: a piedi o a cavallo? 
Alcuni scelgono a piedi. Altri a cavallo. 
Solo un tizio sceglie: cavalcare la tigre!" 

La cosa che succede dopo è che chi aveva scelto di andare a cavallo viene tritato, con tutto il cavallo. Era la scelta sbagliata. Quelli che avevano preferito andare a piedi si salvano. 
La grande voce torna a tuonare su un'altra scelta da fare: tra il giallo e il nero. 


Coloro che hanno scelto il giallo si arricchiscono, mentre gli altri restano poveri. 
E il tizio che cavalca la tigre è sempre lì che la cavalca. 
I bivi di fronte a cui la voce mette i suoi ascoltatori sono sempre più drammatici. Questa volta dal suo schermo scuro tuona la seguente possibilità verso cui propendere: uccidere o essere uccisi. 
In entrambi i casi la scelta è al limite della sopportabilità. Ma anche in questo caso bisogna prendere una delle due strade e così accade che chi ha scelto di uccidere ucciderà coloro che hanno scelto di essere uccisi. E per questo un po' si dispiacerà. 
A questo punto, quelli che hanno ancora le mani sporche di sangue si interrogano sull'uomo che cavalca la tigre: lui è ancora là. 
Come mai? 

La percezione di aver detto: accidenti che libro! è ancora molto chiara, a distanza di più di sei mesi dalla prima volta che l'ho letto. 


Ha la potenza di una freccia che sibila nell'aria, per un niente, il tempo di leggere il pochissimo testo, e poi si infila nel corpo solido del lettore, chiunque egli sia, e non si toglie più. 
Credo che la sua forza stia proprio nella questione che pone e nell'essere privo di ogni orpello superfluo. 
Se vuoi fendere l'aria e arrivare devi essere dritto e leggero. 
Partiamo dal testo, perché viene da pensare che sia quella la cellula originaria, su cui poi Guridi ha lavorato. Magnifico, come sempre. 
Se contate, il testo si dispone su venticinque righe in totale. A contarle, le battute sono meno di mille. Ha la forma e l'impatto di una poesia, anche a guardarla così. 
Ci sono pochi aggettivi, lo stretto necessario. Così come sono pochi i colori. Il nero e l'arancio e il giallo, necessariamente. E l'ocra per il tritacarne. Il tritacarne deve essere enorme, la voce deve essere grande, ricchissimi contro poveri... E poco altro.
 

Eppure è gigantesco...
Un'unica fuga in direzione di un giudizio da parte della voce fuori campo, a proposito dell'uccidere e dell'essere uccisi. 
Altrettanto indefiniti, dai contorni incerti, sono i personaggi: un tizio, quello della tigre. E poi da una parte gli uni e dall'altra parte gli altri. Tanta indefinitezza delle parole significa tanto spazio per il lettore e tanto sfumato per le pennellate di Guridi. Nessun primo piano, solo corpi descritti con pochi segni. L'unica precisione, esatta al millimetro, sono le loro posture. Studiate come se fossero coreagrafie di corpi che debbono agire su un palcoscenico. Come se fossero a teatro. Tavola dopo tavola, scenario dopo scenario, quello che l'occhio coglie è il gesto di quello che il testo dice. 


A teatro, almeno in quello che prevede un palcoscenico, la gestualità è tutto. E qui sembra essere lo stesso. Nel teatro a quella distanza è necessario far arrivare il senso di un movimento, attraverso il grande gesto, non esagerato, non parodia di se stesso, ma piuttosto pura amplificazione. E Guridi non perde occasione di studiarlo in questa prospettiva e di inserirlo nel perimetro della pagina. Le poche e vaghe parole di Calì glielo permettono. 
Gli uni e gli altri sembrano davvero usare lo spazio sulla pagina come uno spazio scenico, come ballerini sulle assi di un palco. Che marciano, che si pongono schiena contro schiena, come duellanti. Che escono di scena, piangendo. 
E poi c'è la grande voce che Guridi decide abbia quella forma, così allusiva... 
E poi c'è sempre il tizio che cavalca la tigre. Lui e lei sono corpi armonici, sebbene diversi per misura e colore; risultano così vicini da essere l'uno l'estensione dell'altra. 
Dove finisce la prima comincia il secondo. Uno nero e una arancio. 
Più di ogni altra immagine tigre e tizio sono di fatto un unico oggetto scenico e rappresentano, anche nel testo, l'icona di un'unica cosa... 
Il senso di tutto il discorso non sarò io a dirvelo.
 

In tutt'altro contesto, era capitato di notare quanto Davide Calì fosse stato bravo nel tacere, per dare agio a chi disegna si infilarsi nel racconto attraverso l'immagine. Qui, non solo accade di nuovo, ma addirittura questa materia letteraria è talmente ridotta da diventare spazio puro in cui poter agire. 
Uno spazio interpretabile secondo letture diverse, immagini diverse, percorsi interpretativi diversi. 
Poi tutto si coagula: tutti i singoli e volanti fili narrativi vengono raccolti in una stretta finale che diventa quella, e nessun'altra. Come in un pugno chiuso, un unico finale. 
Non conosco tutto quello che Calì ha scritto, e Guridi disegnato, ma è un fatto che entrambi sappiano essere molte cose diverse, da autori. 
Però ci sono alcuni loro libri che sono proprio diversi. Superiori. 
Cavalcare la tigre è uno di questi. 

Carla

venerdì 25 ottobre 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

ANCORA"SHOW, DON'T TELL". E SAUNDERS

Nonnamatta e la caccia ai mostri, Moni Nilsson, Anna Fiske 
(trad. Laura Cangemi) 
Iperborea 2024 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dai 7 anni) 

"Vado in punta di piedi nella mia camera per chiamare Nonnamatta con l'iPad. Dopo il papà, è la migliore che ci sia, perché è bravissima a giocare e a parlare e non si tira mai indietro davanti a nulla.
Nonnamatta è mia nonna e il suo vero nome è Marta, ma quando mio cugino Tarzan era piccolo diceva 'Matta' e da allora si chiama Nonnamatta per tutti. La chiamano così anche i suoi amici, cioè Fatima e quel musone di Ohlsson. Loro però sono barbosissimi, almeno a sentire lei. Dice che non hanno mai voglia di fare cose divertenti o spericolate. Preferiscono stare sempre in cortile a parlare di malattie, acciacchi e altre cose che li preoccupano. Nonnamatta ha paura di una sola cosa: di diventare noiosa e fifona come loro." 

Frasse non ha ancora sei anni e di paure, invece, ne ha parecchie. Quella che lo inchioda ogni notte è il terrore dei mostri. Si sveglia ogni volta urlando in faccia al suo papà che gli dorme accanto che un mostro lo insegue per farlo fuori... E come se non bastasse anche a scuola circola, nelle mani dei suoi più acerrimi nemici/amici, un librone in cui in ogni pagina c'è un mostro in bella mostra. 
E poi c'è la questione della festa da Pollicione: tipo pigiama-party, si dorme tutti da lui, ma come riuscirci con quel problema dei mostri nel sonno? Come può farcela il povero Frasse che dorme solo accanto al suo papà? L'unica soluzione è non andarci. Però è un vero peccato, no? 
Fortunatamente, però, nella vita di Frasse, c'è il giovedì, il giorno in cui Nonnamatta lo va a prendere (sempre un po') prima all'asilo per passare con lui il resto della giornata. 


Anche questo giovedì compare a scuola, ma questa volta non c'è un tranquillo pomeriggio di partitelle a carte e merende sulla coperta nel prato. Ascoltate le confessioni del nipote atterrito dai mostri, decide addirittura di fare con lui un viaggio di un paio di giorni per andare a visitare questo famoso bosco mostruoso, dove ogni creatura tremenda alberga. Davanti a Frasse si prospetta terrore e avventura in pari misura. 
Fatto lo zaino, si parte in treno, in cuccetta, e si arriva il mattino dopo in un luogo sconosciuto con un bosco bello fitto, al di là del quale... 

Nulla è mai fermo in questa storia. Tutto si muove e accade senza troppe spiegazioni. 
Già solo il fatto che sia diviso in capitoli che hanno, di due in due, scenari molto diversi tra loro crea questa costante sensazione di essere sempre un po' spostati di qua e di là. 


Poi come accade nella buona letteratura tutto si va a ricomporre in un unico quadro e altrettanto improvvisamente si esce dall'osservazione dei singoli fatti e si comprende il senso più profondo di tutto quello che è accaduto fin lì. 
In letteratura il motto anglosassone "Show, don't tell" trova un sacco di sostenitori, me compresa. Soprattutto quando mi interrogo su quali possano essere buoni ganci perché la lettura di un libro da parte dei più piccoli non sia vista come una delle peggiori condanne che vengono loro inflitte dai più grandi. Questa tendenza teatrale, ma forse meglio dire cinematografica, e aggiungerei poetica, applicata alla letteratura, funziona, soprattutto nei confronti dei primi lettori. Chissà che, in qualche misura, serva ad attutire il passaggio da quell'oggetto multiforme e multiparlante che è il libro illustrato, dove "il vedere" è previsto di default? George Saunders a proposito del tip "show, don't tell", scrive diverse cose molto sensate - tra le tante bellissime che ha scritto, scrive e scriverà. 
La prima: attenzione a non farne un dogma che ti prende la mano e si trasforma in un pilota automatico! 
La seconda: il "far vedere" - lo showing - ha il merito di tener lontano i concetti e le intenzioni palesi. Se facciamo accadere le cose senza troppe spiegazioni, stiamo per forza prendendo le distanze dai risultati overdetermined, sovradeterminati. 


Se non capisco male, questo modo di raccontare tiene lontano, guardando di fatto altrove, la didascalia sotto la figura, il messaggio. Che non viene escluso, ben inteso, ma allontanato almeno per un po'. 
Si confronti quanto detto all'inizio. 
Terza cosa: Saunders, che di sponda cita John Mcgahern, concorda su questo: "Penso che tutta la cattiva scrittura sia un giudizio e un’affermazione e che tutta la buona scrittura, in un modo o nell’altro , sia invece un suggerimento. Perché lasci da soli i personaggi e, attraverso le suggestioni e le immagini, metti nella mente del lettore la loro vita completa... e di conseguenza, ci sono tante versioni del romanzo quanti sono i lettori." (molto vicino a quanto detto a proposito del libro "L'occhio della montagna", o no?). 
Quarta cosa, che poi è un rilancio. Saunders suggerisce che per lui la soluzione che rende una scrittura interessante, stia piuttosto nella specificità. Quindi sia nel telling, quanto nello showing la tensione deve essere verso la specificity. 
E qui, in Nonnamatta, la si trova? Secondo me sì: in un nodo principalmente. Anzi, due. 
Prego riavvolgere il nastro ancora una volta fino alla frase di inizio. 
Dunque. Il primo riguarda la paura che diventa 'specifica' quando si declina - accanto a quella principale di Frasse per i mostri - con quella sotterranea della nonna, una paura che dopo i sessanta anni è abbastanza universale. Paura che arriva, bum, in un vagone o in cima alla scala, e che peraltro continua per molto tempo su altre scale, fino alla sua catarsi. 
E non direi una parola in più. 
Il secondo nodo ha a che fare con il concetto di mutuoaiuto tra un grande e un piccolo. 
Questione questa che nella letteratura del Nord, di norma, si dipana partendo da una visione assolutamente paritaria tra grandi e piccoli. Un adulto e un bambino valgono lo stesso, pesano lo stesso, se messi sui due piatti della medesima bilancia. La differenza tra loro è data dai ruoli. Uno fa il grande e custodisce e cura e mette cerotti, uno fa il piccolo e si sbuccia esplorando. 


Il bello che accade qui è, appunto, la reciprocità nel venirsi incontro a darsi un mano, ossia anche qui, come già molti altri fulgidi esempi di autori/trici nordeuropei, un piccolo può essere decisivo nel superamento di un ostacolo da parte di un grande, perché ha anche lui le sue personali fragilità e limiti.


E, bum, li ammette. 

Carla 

Noterella al margine. Sulla traduzione. Che io mi fidi e apprezzi Laura Cangemi, è roba nota. Dipende in larga misura dalla scorrevolezza che mette, dalla capacità di beccare i registri - e ne bazzica parecchi - ma anche, ed è qui il caso: carampana (nell'acc. 2 della Treccani), nell'uso di parole che sono nel mio lessico famigliare e che, sbagliando evidentemente, sento solo mie. 
Questi incontri mi stupiscono sempre, ma mi fanno subito sentire la Cangemi come una di famiglia. 

Noterella al margine². Sull'illustrazione. Dopo questo postone (post/pippone) non c'è stato il cuore di scrivere neanche una riga sul lavoro pazzesco di Anna Fiske. Ma lo avrebbe meritato. Magari, spero, non mancherà altra occasione...

mercoledì 23 ottobre 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


MA ALLORA OLIVIA ESISTE!

«Non sottovalutarli. I bambini lo capirebbero; comprendere il mondo è ciò che sanno fare meglio». Ian Falconer risponde alla domanda: qual è il segreto di un buon libro per bambini.


Nel 1996, Ian Falconer ha 37 anni e in famiglia scorrazza una piccola nipote con un nasino schiacciato da maialino. Ian lavora da pochi mesi come illustratore del New Yorker, il suo vero lavoro però è a teatro come scenografo. Per il Natale del ’96 decide di regalare alla piccoletta di tre anni, un libro scritto e illustrato da lui: nasce Olivia.
Sul perché disegnare una maialina, Ian citerà il famoso nasino schiacciato, ma anche dirà: "I maialini sembrano avere la forma adatta per i bambini piccoli perché le loro teste sono troppo grandi rispetto al corpo. Tutto è sovradimensionato".
Olivia ha un successo immediato: vende in poco tempo due milioni di copie. A oggi siamo a dieci milioni di copie vendute della serie. 


Olivia è disegnata a matita, in bianco e nero. L’unico colore concesso nel primo volume è un rosso acceso che raffigura accessori, vestiti e piccoli oggetti.
Nelle 32 pagine che Nord-Sud finalmente ripubblica, ci sono però anche citazioni coltissime: la riproduzione di un Pollock, di un Degas e delle rappresentazioni iconiche di Maria Callas.
La storia è la descrizione di una giornata di Olivia, maialina di sei anni, che ammira quadri maestosi, sposta il gatto a casaccio, prova diciassette diversi abbigliamenti prima di uscire, che cerca di riprodurre un Pollock sul muro di casa, fa il bagno, fa leggere una pila di libri alla mamma prima di cadere addormentata sognando di essere una cantante d’opera.


Ian Falconer ha avuto una lunga relazione sentimentale (e artistica) con David Hockney il quale nella quarta di copertina dell’edizione americana del libro scrive: "La capacità di Olivia di comprendere la composizione astratta è straordinaria per una bambina di 6 anni".


Il libro esce nel 2000. Nel 2001 vince la Caldecott Honor per Olivia, un prestigiosissimo premio statunitense per autori di libri per ragazzi. In un articolo Ian Falconer racconta del messaggio che aveva trovato in segreteria, appena uscito il libro: "Ciao, Ian. Sono, uh... Maurice Sendak. Ehm, sono in campagna in questo momento. Puoi chiamarmi qui. Puoi lasciarmi un messaggio sulla mia segreteria telefonica. Se non sono qui, probabilmente sarò in giardino e, ehm, a tagliarmi i polsi o qualcosa del genere." Sendak aveva amato tantissimo il libro e desiderava dirlo personalmente a Ian. Cosa rende questo libro così bello? Me lo sono chiesta spesso durante tutti questi anni. E non è facile fare ordine tra i tratti eccellenti di questo albo. Si può partire dalla perfezione del disegno a matita, sfumato, minimalista, con poco testo, a volte - come accade all’inizio del libro – con un solo oggetto raffigurato: un walkman rosso e nella pagina successiva Olivia in bianco e nero che canta e il testo che recita:
Questa è Olivia.
Sa fare un sacco di cose”.


Ed è vero. Olivia sa fare un sacco di cose: cucina, si trucca, trucca suo fratello, si traveste, si veste, costruisce splendidi grattacieli di sabbia, canta, danza, riproduce un Pollock. Tanto più Olivia sa fare cose, tante meno sono le cose rappresentate sulla pagina. Falconer non ha paura del bianco e ferma Olivia nell’atto di fare (o in brevi atti veloci, come quando prova diciassette vestiti) lasciando spazio al lettore per riempire i contorni. Questo paradosso di pulizia e sobrietà del disegno, si schianta contro la sovversiva ed esplosiva personalità della maialina, lasciando chiunque a bocca aperta.


E qui arriva a mio parere l’elemento davvero incredibile dell’albo: la sua protagonista. Olivia è davvero uno dei pochissimi casi in cui un personaggio migliora di libro in libro, prendendo sempre più spessore, affinando le sue caratteristiche o portandole all’estremo. Nord-Sud decide di ripubblicare tre titoli della serie di Olivia, il primo, appunto, e poi due libri adatti al periodo: Olivia e le principesse e Olivia e il Natale. 


Olivia e le Principesse scardina completamente moltissimi stereotipi femminili (passatempo che Olivia ostinatamente persegue in tutti i libri), descrivendo il pensiero non omologato, originale e profondo che la maialina ha sulla figura della Principessa e per riflesso sulla costruzione dell'immagine di sé. Inoltre, il libro ha un incipit completamente spiazzante, forte e inaspettato che anticipa il tema affrontato da Olivia: 
Olivia è depressa.
«Penso di avere una crisi d’identità» dice ai suoi genitori.”
A Halloween, lamenta Olivia, tutte le bambine si sono vestite da Principesse... Il libro chiude con una carrellata di personaggi in cui Olivia si immedesima: la piccola fiammiferaia, l’infermiera, la spia… fino ad arrivare alla geniale chiusura del libro.


Olivia e il Natale, invece, descrive la vigilia di Natale della famiglia di Olivia, in un’alternanza di momenti altamente intimi e poetici, con episodi disastrosi dove il motore è sempre la maialina. 


Il ritmo da quieto e pacifico diventa sempre più frenetico man mano la giornata passa e i regali vengono scartati e utilizzati chiudendosi magistralmente con l’ultima immagine della famiglia davanti al camino.


Io spero che Nord-Sud continui a pubblicare anche gli altri libri di Ian Falconer, perché Olivia deve essere letta dalla più grande parte possibile degli animali umani sulla terra. 
Olivia è fuori dalle righe, libera, impertinente e bullizza i fratellini. È tenera e sensibile, vuole fare la ballerina alla Scala, fa cadere il campanile di San Marco, alle feste in maschera si veste da facocero invece che da principessa ed è una grande appassionata di arte. Io da grande penso che da bambina avrei voluto essere come Olivia.
Valentina

Noterella al margine. Mio figlio, a quattro anni, davanti a una tela di Pollock al Guggenheim di Venezia, ha esclamato: “Ma allora Olivia esiste!”

"Olivia", Ian Falconer (trad. Marinella Barigazzi), Nord-Sud 2024; "Olivia e le Principesse", Ian Falconer (trad. Barbara Ponti), Nord-Sud 2024; "Olivia e il Natale"Ian Falconer (trad. Barbara Ponti), Nord-Sud 2024






 

lunedì 21 ottobre 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

FACEVA UN FREDDO CANE

L'amico inatteso
, Ivan Canu, Gianni De Conno 
Lapis 2024
 

ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Dentro la tana, tremando nel suo pelo grigio, Lupo socchiuse gli occhi. 
Voleva dormire, ma nella grotta entrò la creatura che Cervo, Pernice, Lepre, Lince, Falco, Puma e anche Lupo temevano di più. 
Cacciatore portava in mano i suoi artigli di osso e pietra ed era coperto di pellicce. Alcune erano di lupo." 

Antefatto: quando un mattino il freddo si fa sentire Lupo si accorge di essere scontento perché è solo. E con la solitudine il freddo è ancora più freddo. Così si incammina e a tutti gli animali che incontra chiede amicizia. Lo fa con Cervo, con Pernice, con Lepre, persino con Lince e Puma e Falco. Nessuno lo asseconda. Tutti, chi per un motivo chi per un altro, gli fanno capire che di lui non si fidano, gli fanno capire che tra loro sono rivali. Allora Lupo capisce che forse deve cercare chi sia più simile a lui. 
E con questo pensiero entra nella sua tana fredda. E cerca di addormentarsi. 
Fine dell'antefatto. 


Cacciatore, la creatura che tutti devono temere, entra nella caverna. Probabilmente anche lui in cerca di riparo dal freddo e dalla neve che adesso cade abbondante. 
Quel che succede dopo è il fuoco che l'uomo accende per cuocere la carne, le radici e le bacche che ha con sé. L'odore che si diffonde è buono. 
Entrambi hanno fame. Si studiano. Il lupo sta a distanza e l'uomo gli tira un pezzo di carne... 
E il resto è il principio di una storia che non è ancora finita. 

La domesticazione del lupo è roba di 15.000 anni fa e, a leggere gli studi sulla questione, non deve essere andata poi troppo diversamente da come la racconta Ivan Canu. 
Comunque, così come la racconta lui è bella. 
Ed è bella perché è piena di sottintesi, di cose non dette o solo evocate, e quindi ha un bel po' di silenzio intorno. 


Proprio quel silenzio di cui Gianni De Conno ha amato avvolgere i suoi scenari sempre un po' velati, nebbiosi. Mai nitidi, così come Leonardo ha teorizzato nel Quattrocento. Una voluta rappresentazione della obiettiva mancanza di nitidezza che si prova nel guardare un paesaggio, ma anche un volto, da una certa distanza. La percezione visiva dell'atmosfera, con la sua umidità sospesa: quella 'nebbiolina' appunto. 
In Gianni De Conno 'lo sfumato leonardesco' sembra alludere anche a un qualcos'altro: a un tempo sospeso, un tempo quasi fermo, che si fa attraversare da pochi fatti e personaggi che lui mette lì ad abitarlo. Più che creature, paiono simboli. 
Ivan Canu e Gianni De Conno, che sono due giganti, hanno condiviso molte cose assieme e sono stati tra loro grandissimi e fedeli amici. Ma di libri fatti assieme, a parte questo, io non ne conosco altri. E trovo magnifico il caso, ma forse non lo è affatto un caso, che proprio su questa storia ci abbiano lavorato assieme, nel 2013 per l'editore francese Casterman che quell'anno lo ha pubblicato con il titolo, Froid de loup (il nostro freddo cane, direi). 
Ora il libro torna in qualche modo a casa, attraverso Lapis che lo pubblica, facendo un'operazione che con il titolo ha una curiosa risonanza: "l'amico inatteso", almeno a me è subito venuto in mente, è proprio De Conno alle figure. 


Fortunatamente, nonostante lui sia sfortunatamente morto nel 2017, i suoi libri circolano ancora, ma vederne di nuovi non capita dal 2018. 
Quindi ora vedere il suo muso di lupo, già quasi di cane, nella nebbiolina, vederlo attraversare mari diversi, foglie, erba, neve, dà esattamente quel brivido di chi incontra un amico che non si aspettava di vedere... 
A parte questa magnifica sorpresa, anche solo sfogliandolo, verrebbe da dire che le qualità di questo libro sono proprio, e ancora una volta, nelle sfumature. 
La stessa delicatezza che c'è nel testo, in questi brevi dialoghi tra il lupo e gli animali che incontra, in cui ogni volta si rinnova il canone del lupo feroce e infido, altrettanta la si ritrova in questo mondo nuovo e quasi vuoto che De Conno crea. 
Lo sfumato di De Conno, e certa ambiguità nel disegnare un lupo per niente vicino al lupo vero, ma invece cucirlo sull'icona che ognuno di noi ha del lupo letterario, corrisponde alla medesima mancanza di nettezza che mette Canu nel descrivere l'esigenza del lupo di avere un compagno con cui affrontare l'inverno - fino alla fine non è detto e non è chiaro se davvero quel lupo lì stia impersonando il suo omologo delle fiabe, o se invece sia davvero in cerca di un amico... 
Beh, De Conno per parte sua salta a piè pari oltre il problema e ancora una volta va diritto all'icona di ciò che vuol rappresentare. Riuscendo in qualche modo già ad anticipare i connotati del cane. 
Altrettanto evanescente sembra essere l'incontro nella caverna tra uomo e lupo. Alcune frasi alludono alla loro affinità che non parrebbe solo di intenti, ma arriva quasi a essere fisica, quegli occhi gialli e quelle zampe e quella pelliccia che indossano entrambi... 


De Conno però se ne impossessa e, sebbene distingua il lupo scuro dal cacciatore chiaro, gioca da solo la sua partita: il gesto di chi comanda è evidente...
Ma, laddove Canu al principio di questo incontro nella caverna scrive "si fissarono con gli stessi occhi gialli", De Conno si inventa invece uno sguardo in tralice che è portatore di significati ancora ulteriori e anche più veritieri. Non ultimo quello che "guardarsi dritto negli occhi" nel mondo animale è forse il gesto di maggiore sfida possibile... 


Ci sta che il mattino dopo quando De Conno li raffigura davvero occhi negli occhi, l'attimo successivo il lupo abbia abbassato i suoi... per farsi cane. 

Carla

venerdì 18 ottobre 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

L'ARCHITETTURA DI UN LIBRO

Il libro azzurro, Germano Zullo, Albertine 
Bompiani 2024 


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 6 anni) 

"'Hai paura Séraphine?' 
'No, certo che no! Con il libro azzurro non c'è da aver paura... Ma è comunque l'ora che le bestioline escono dai loro nascondigli per sgranocchiare.'
'Le senti sgranocchiare?' 
'Credo di sì... E tu, papà le senti?' 
'Non sono sicuro.' 
'Fanno croc croc croc.' 
'Uhm, adesso le sento... croc croc croc.' 
'Meglio non disturbarle troppo: magari si arrabbiano.' 
'Hai ragione, Séraphine... Andiamo avanti!' '
Andiamo verso la città o verso i campi?' 
'Prenderei la strada che passa per i campi, questa volta.' 
'Anch'io papà, per i campi.'" 

Interno sera. Padre e figlia dialogano sul far dell'ora di andare a dormire. 
Il padre, secondo quanto dice sua figlia, ha preso in mano un libro, il libro azzurro, perché lo vuole leggere alla sua bambina. Il libro azzurro, è lei stessa a dichiararlo, è il suo preferito. 
Tutto comincia nel buio della notte che i due scorgono attraverso la porta di casa... Il loro cammino pare dirigersi verso il mare, attraverso una scorciatoia: la scorciatoia di Séraphine che ha il pregio di portare sia al mare sia alla montagna, ma anche alla città e ai paesini. O anche fino alla giungla tropicale. 
Rischiarati dalla luce della luna, forse, si incamminano con l'intento di perdersi... 
Steccato dopo steccato, l'unica strada da fare è dritto verso l'alto, a zig zag. Ed effettivamente è il percorso che funziona perché gli steccati sono dietro e davanti laghetti, serpenti mansueti, foreste e poi un gufo che, appollaiato su un ramo, sta raccontando una storia ai suoi piccoli (lui pure) per addormentarli. 
Un albero grande grande e vecchissimo, "avrà più di duemila anni, Séraphine", li accoglie tra le sue maestose radici ed è bello sdraiarsi insieme lì sotto. E magari schiacciare un pisolino... 
Ma sarà ancora più bello risvegliarsi lì e trovare la mamma e con lei proseguire il viaggio e il racconto... 

Il libro azzurro, se non capisco male, ha davvero un interessante impianto architettonico che lo tiene su e che è anche difficile descrivere a parole. 
Partiamo da quello che gli occhi vedono: un grande libro rilegato che è, ovviamente, azzurro nella copertina. Se lo sia apre, dopo i risguardi blu c'è la pagina del frontespizio con una scimmia, forse, che Albertine ha disegnato nell'atto di leggere un libro. Nella pagina successiva, nel bianco assoluto della carta, avanzano verso il lettore padre e madre e al centro tra loro, tenendone uno per mano, Séraphine con un libro blu sottobraccio. 


Poi la storia comincia ed è raccontata solo attraverso un dialogo serrato tra padre (e poi madre) e figlia: la figura ritrae giocattoli rossi sparsi su pavimento azzurro. Poi le parole tacciono e vediamo l'una sotto le coperte e l'altro seduto sul bordo del letto. Il libro blu, azzurro nella versione italiana, è tra loro ed entrambi non hanno la postura del relax di quel momento, sono entrambi pronti a uno scatto, e si guardano dritto negli occhi. 
Più che a dormire, sembrano entrambi pronti a partire. 
Che intesa e che fremito tra quei due!


A questo punto il libro prosegue, visivamente parlando, come un albo illustrato molto regolare: testo e tavola singola che preannuncia lo scenario, cui segue la doppia tavola senza testo in cui compaiono i due viandanti... cadenzato, ma nulla di insolito. 
Salvo un piccolo dettaglio, che giustamente gli editori nelle loro sinossi, fanno finta di ignorare per non far girar la testa e confondere i futuri lettori. 
Il testo che compone il libro azzurro che abbiamo in mano, se diamo retta alle parole di padre e figlia, e di madre e figlia dalla metà in poi, si costruisce narrando. La loro passeggiata che prende forma istante dopo istante è il testo del libro reale, ma di certo non lo è del libro azzurro che è protagonista della storia. 
Giustamente gli editori scrivono che questo libro è un omaggio a quel momento della giornata in cui un bambino è con un genitore che ha l'intento (spesso la vana speranza) di accompagnarlo verso il sonno, attraverso la lettura di una storia. 
Ma Il libro azzurro è anche un'altra cosa: è la prova provata che la letteratura, e più in generale il racconto, e quello illustrato ancora di più, ha un potenziale di soluzioni che davvero non ha confini. 
Qui noi leggiamo una storia che solo per finta è scritta così nel libro che abita la storia: Séraphine ci illude a p. 1 e fino alla fine noi le andiamo dietro, facendo finta che...


Ma quello che le nostre orecchie sentono e i nostri occhi vedono è il frutto di una invenzione, di un gioco tra padre (e madre) e figlia, che ogni sera pare rinnovarsi, magicamente solo con l'atto di prendere in mano il libro blu, come se quell'oggetto fosse di per sé un generatore di storie: per il solo fatto di esistere - disegnato - tra padre (e madre) e figlia fa partire il loro condiviso viaggio fantastico. 
Chi vuole, ne tragga una morale. 
Io mi limito a notare: che architettura, accidenti! 
Detto questo, che è la mia medaglia al valore da appuntare sul petto dei due autori, forse vale la pena di dire qualcosa sul contributo dell'uno e dell'altra per la realizzazione del libro nel suo insieme. 
Zullo scrive. Solo dialoghi belli serrati, anche se talvolta un po' retorici. E attraverso questo continuo botta e risposta mi pare si possano conoscere padre, madre e ragazzina. I dialoghi e la sequenza dei fatti cui alludono sono intrisi di assurdo, di fantasticherie. Mi ricorda un po' quel modo di concatenare pensieri che si fa quando si è sul punto di lasciarsi andare al sonno. E non solo quando si è bambini, si intende. 
Detto questo, mi parrebbe di leggere tra tutto quel testo, seppure talvolta sovrabbondanti, un entusiasmo senza se e senza ma del padre e un'intesa di genere tra figlia e madre e sul finale il bisogno della seconda di ricondurre la prima a una qualche forma di ordine, di routine e di sonno notturno e duraturo...  
Forse tutto questo lo vedo solo io, ma mi piace crederci. 


Albertine disegna. Luminosa e anche lei non sempre risolta, comunque davanti a un compito arduo: quello di non poter anticipare nulla con le immagini, nulla di quel tantissimo che viene detto. E dato che il testo è corposo, un po' troppo lungo, ma comunque costruito su continui rilanci, lei con le figure deve aspettare. 
Della soluzione che escogita si è già detto: testo tavola singola con lo scenario, a seguire doppia tavola, appunto. 
Ma, il cambio di passo si verifica quando arriva il sonno di Séraphine, e scende il silenzio. Qui si prende tutto lo spazio necessario per far arrivare le citate giraffe ed elefanti, che finalmente entrano in scena e il padre sparisce da sotto l'albero... Una sorta di gioco-intervallo. Poi una capriola di senso e, girata la pagina, si riparte: sulle radici, la bambina, il libro blu e la madre (per par condicio?) 


Lo spazio del viaggio con papà e lo spazio del viaggio con mamma è calcolato con svizzera precisione: in quel tempo e in quello spazio esatti, ma su percorsi ogni volta differenti, si può partire dalla realtà per poi anche tornare, in quella stessa realtà, o quasi. 
Le belle storie lasciano tracce dietro di loro.


Buona notte, buona notte! 

Carla

mercoledì 16 ottobre 2024

FAMMI UNA DOMANDA!

QUANTA VITA IN UN CRAC! 


Spesso la vita, per come la percepiamo e per come la raccontiamo, può dare l’impressione di svolgersi come un unico e saldo filo continuo. Il fatto che il vivere accada giorno per giorno ci convince che un passo dopo l’altro si proceda su una linea senza strappi. È più o meno così che la si racconta anche ai bambini e alle bambine, come se l’idea di stabilità, di integrità garantisse maggior pace e serenità. L’idea stessa di ciò che si rompe, di qualcosa che si spezza, è più spesso percepita e tramandata (da questa parte del mondo) come negazione - fine- morte. Il racconto illustrato di Matteo Pompili, Lorenzo Monaco e Luogo Comune, ci induce a guardar bene… ché la vita fa CRAC! E ce lo racconta già la copertina squarciata da una crepa come un lampo che rompe il cielo percorrendola da piede a testa fino a spezzare il titolo: CR-AC. 


Come nei più originari racconti della creazione, gli autori scelgono di partire da un uovo: al 21° giorno fa CRAC ed ecco il pulcino. CRAC fa il sacco amniotico rompendosi. Fanno CRAC le stelle da cui nascono i pianeti e anche le superfici dei pianeti fanno CRAC dando vita a mari e montagne. Le forme di vita che si avvicendano sui pianeti fanno CRAC, alcune scompaiono e/o si trasformano in forme di vita diverse. 


Il mondo che conosci è tutto un masticare, uno spezzettare, un triturare, dentro e fuori di te. 


Così anche l’evoluzione degli animali umani e quella delle loro società sono raccontate attraverso i momenti di discontinuità: la storia di ciascun essere vivente, la storia del cielo, della terra, la storia delle società umane, la storia della scienza e della conoscenza è una sequenza di fratture. “Nel tuo mondo niente è tranquillo”. 


“Questo (libro, ndr) è stato concepito guardando un frutto ammuffito, un’arancia demolita lentamente da un fungo. Tanto è bastato per farci riflettere su degradazioni, fratture, scismi, scissioni. E idee scientifiche che hanno portato a degli strappi con il passato. Per riconoscere che tutte le cose alla fine si rompono: è inevitabile. Certo può essere triste e doloroso, nessun lombrico vorrebbe cedere al becco di un merlo. Ma è anche vero che senza distruggere non si può creare nulla di nuovo. È la verità del germoglio che spunta solo bucando il terreno, della musica che per esistere deve rompere il silenzio e dei nani che nelle fiabe trovano diamanti solo con la forza del piccone. Le cose rotte hanno un loro fascino: preannunciano nuove storie, lasciano spazio a una moltitudine di opportunità e possono promettere, perché no, mondi migliori.” Dunque un albo illustrato di divulgazione scientifica che dalla geologia passa all’antropologia, alla sociologia e infine all’attualità. I testi riescono a mantenere chiarezza pur esprimendosi con estrema sintesi, le illustrazioni sono accattivanti e ricche di dettagli. 
E una pagina finale ti culla beatamente in questo vortice di CRAC. 
Nelle ultime tre doppie pagine il linguaggio cambia per proporre una serie di approfondimenti chiari e concisi sui vari CRAC raccontati in precedenza. Si dà spazio alle nozioni scientifiche, a cenni storici, alle principali problematiche ambientali e a qualche domanda sul futuro. Nei risguardi di chiusura si trova anche una prima bibliografia e un QR code per accedere all’elenco completo delle fonti. Non è la prima volta che questi autori si cimentano con il racconto delle scienze naturali: Pompili e Monaco - entrambi fondatori di Tecnoscienza - hanno già lavorato insieme alla realizzazione di diversi titoli di divulgazione scientifica per Editoriale Scienza e molti altri editori; Luogo Comune, artista poliedrico (dai muri di molte città del mondo alla pagina illustrata), per Topipittori si era già impegnato con la raffigurazione divulgativa della natura nel bellissimo ‘Alfabeti naturali. Piccola guida della creatività dell’Universo’ dove aveva dato prova di abilità con i pennarelli a spirito. 
Il risultato di questa collaborazione può dirsi riuscito nel felice compito di aprire orizzonti di curiosità, stimolare connessioni tra le conoscenze e mettere in relazione la vita propria e quella dell’universo intero. 
Ma in tutta questa vita che si spezza e che continua notiamo subito una grande assente. 
La parola morte non appare mai (nessun lombrico vorrebbe cedere al becco di un merlo, per es.), le immagini raffigurano scheletri di animali estinti e un uccellino giace sul terreno visibilmente senza vita, ma nulla di più. 
Che sia una scelta evidentemente ponderata ce lo conferma, su esplicita domanda, Matteo Pompili: "La nostra intenzione era quella di arrivare anche al concetto di morte, ma senza forzature e con leggerezza. Quando dopo la lettura - a immagini sedimentate - gli insegnanti lavorano coi ragazzi sul libro però ci siamo accorti che emergono proprio questi aspetti: la perdita temporanea o duratura di adulti di riferimento e la volontà di farcela e di diventare autonomi nonostante quanto accaduto. Insomma, CRAC è anche un libro che suggerisce di accettare le perdite e di “danzare” nonostante esse." 
Dunque un racconto articolato capace di fare di una assenza una domanda, una possibilità di riflessione per i giovani lettori e le giovani lettrici, tra i sette e i dieci anni, e per chi con loro sa farsi interrogare da un bel libro. 

Patrizia 

“CRAC”, Matteo Pompili e  Lorenzo Monaco, ill. Luogo Comune, Camelozampa 2024