mercoledì 30 aprile 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

LA DIPARTITA DEL BOSCO

I bambini che vivono nella foresta sono tre: Maggan, lo Sbirro e Trim. Magicamente, le loro volontà coincidono con i moti silenziosi della foresta e del cielo. Del resto, sono loro a decidere. Circondati dagli alberi, con i piedi a mollo nelle pozze d’acqua, sono loro che fanno piovere, loro a stabilire il vento e la nuvolosità variabile. Concedono alle foglie la possibilità di ingiallire e agli aghi di pino di cadere; grazie a loro il sole splende, e i legnetti si dispongono di traverso sui sentieri.  


Un bel giorno però, dai tronchi spuntano minuscole gambine e tra le chiome si vocifera di una vacanza, a quanto pare su un’isola, in mezzo al lago. Senza troppe spiegazioni, dopo un frettoloso saluto, betulle e pini se ne vanno, e pure i pioppi tremuli spariscono, spaventati a morte da un malevolo cespuglio di rovo. A nulla valgono le decisioni dei tre abitanti: il loro chiedere a gran voce di restare rimane sospeso a mezz’aria, senza più nessuno ad accoglierlo. 


Negli albi di Eva Lindström le grandi questioni esistenziali prendono posto con naturalezza nella quotidianità dei protagonisti. L’ingenuità e lo stupore con cui essi le maneggiano non sono però presentate come manifestazioni di debolezza o ostacolo per una comprensione razionale delle cose. Anzi, nel racconto l’atto stesso di capire viene depotenziato, e gli viene preferita appunto la capacità di restare in ascolto, di soffermarsi di fronte al mistero, per quanto disorientante possa sembrare. 


Si dice che al momento dell’ideazione di questo albo Lindström fosse mossa dalla necessità di catturare e restituire l’emozione che si prova di fronte alle cose che scompaiono inaspettatamente. Uno sgomento che si impara a gestire nei primi anni di vita, quando sperimentiamo che le cose continuano a esistere anche se non sono davanti ai nostri occhi. Uno sgomento che però non perde il suo potere perturbante, poiché se è vero e lampante che un bambino che si nasconde è pur sempre vivo e vegeto dietro a un divano o che la mamma che esce dalla porta lo fa per andare a lavorare e tornerà a sera, qualcosa dell’antico sconcerto rimane e risuona in noi più forte di qualsiasi normalità appresa. 


Con la dipartita del bosco e l’uscita degli alberi dalla rassicurante cornice della pagina, Lindström decreta l’esistenza di un desiderabile altrove, invisibile sì, ma non per questo inesistente, e porta questa alterità direttamente in dialogo con chi nella pagina è rimasto. Con la dipartita del bosco si allenta tutta la costruzione di senso che Trim, lo Sbirro e Maggan chiamano, con una certa protervia, casa. Scomparsi gli alberi, a Maggan, lo Sbirro e Trim non rimane che continuare il gioco con quello che hanno, ma nonostante questo darsi da fare si accorgono che tra loro e il paesaggio che li contiene qualcosa dell’antica, magica – e forse un po’ forzata- corrispondenza si è inceppato. Guarda un po’, il freddo arriva senza essere stato evocato, e pure le nuvole e il vento, insensibili a qualsiasi comando, si rivelano per quello che sono: entità distinte, indipendenti, a volte contrarie. 


Per tirare avanti, Trim, lo Sbirro e Maggan bruciano gli scarti nel fusto di legno in cortile, fanno amicizia con una piccola uccellina che non ha fatto in tempo a raggiungere lo stormo, sistemano il terreno, aggiustano quello che deve essere aggiustato, rastrellano, si danno da fare con i legnetti. Trovano insomma uno spazio di azione per abitare quello speciale silenzio che sembra essere calato su di loro da che gli alberi si sono dileguati. E quando finalmente arriva una nuova stagione, quella in cui, una mattina presto, pini e betulle ritornano e tutto sembra tornare al suo posto, devono fare i conti con una nuova assenza: non solo mancano i pioppi, i delicati pioppi tremuli e dorati, ma mancano anche le parole per nominare. Per entrambe le cose, pare non esserci nulla di meglio che disporsi in fiduciosa attesa.


Se questo albo sembra voler raccontare il rapporto di interdipendenza tra uomo e natura, lo fa involontariamente. Certo, le assonanze con l’attuale crisi climatica sono fortissime: la natura si palesa come un vero e proprio personaggio della storia e reclama qualcosa per sé, ed emblematiche sono sia l’impotenza dei protagonisti al cospetto degli elementi meteorologici sia la presenza dell’edificio sempre sullo sfondo, con porte e finestre aperte, a evocare che la terra è la nostra unica casa… Eppure, la posta in gioco è forse più coraggiosa e profonda: raccontare come si entra in dialogo con quello che non vediamo e non sappiamo, quello che non è in nostro controllo, quello che sta fuori dalla cornice di dominio del tangibile, quello per cui non abbiamo (ancora) parole ma che non per questo non esiste. Mettere momentaneamente da parte la razionalità in favore di un diverso tipo di relazione. 


Se nella prima parte del racconto i protagonisti stabiliscono una primitiva, istintiva relazione di causa effetto tra quello che accade e la loro volontà, nella dimensione dell’attesa, quando gli alberi non ci sono (o meglio: ora che gli alberi sono altrove…) tocca loro compensare utilizzando sensibilità e immaginazione. Non accade quasi nulla, nelle tavole iridescenti che Lindström dedica a questa attonita e inestimabile resa: soffia il vento e Maggan, lo Sbirro e Trim aspettano, aspettano fino a quando il vento decide di calare, aspettano fino a quando gli alberi decidono di tornare, fino a quando la volontà di capire e spiegare si placa. Allora forse non aspettano più. Semplicemente stanno, dandoci le spalle, per osservare con noi. 


Solo allora tornano i pioppi, i tremuli pioppi dorati, dalle foglie cangianti come cangiante e ineffabile è il significato. I bambini che vivono nella foresta sono tre. Non sono loro a decidere, ma l’uccellina dice che è arrivata l’estate, e loro, che hanno imparato ad ascoltare, non hanno nulla di meglio da aggiungere. 


Giorgia 

“La foresta”, Eva Lindström, (trad. Laura Cangemi) Camelozampa, 2025

lunedì 28 aprile 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

UNA BELLA FESTA, INSIEME

Oggi la parola è meraviglia
, Chiara Carminati, Vittoria Facchini, 
Bernard Friot, Susie Morgenstern 
Pension Lepic 2025 

POESIA 

"CORRISPONDENZE POETICHE Quando qualcosa diventa un'abitudine, spesso ci si dimentica com'è nata. Da parte mia, posso solo dire che c'è un rito che sancisce l'inizio di ogni giornata: scrivere una poesia e mandarla a Susie. O ricevere una poesia da Susie e risponderle. Per noi è anche un gioco: chi sarà il più poeticamente mattiniero? E come sarà interpretata la parola del giorno, proposta di volta in volta dall'uno o dall'altra? È un'abitudine, ma è anche molto di più: è uno spazio di libertà, un laboratorio di ricerca. C'è libertà perché sappiamo che il giudizio dell'altro sarà benevolo e perché le regole importano poco... e in fondo importa poco anche la poesia: ognuno va dove lo portano le parole, i suoni, le immagini, i ritmi o l'emozione. Ma si tratta anche di un laboratorio: che sia corta o lunga, con o senza struttura, più o meno seria, la poesia si inventa continuamente forme nuove. Certamente non tutti gli esperimenti riescono bene. Ma tutti sono poesia, perché tutti nascono dalla volontà di esplorare lo straordinario potere delle parole, che uniscono e disfano, collegano e oppongono , feriscono e confortano. Corrispondenza poetica, così chiamiamo il rito che inaugura ogni nostra giornata. Ma in verità ha un altro nome, che ogni nostro scambio cerca di reinventare: amicizia. 
E un'amicizia è ancora più forte quando sa aprirsi agli ospiti, come una bella festa da condividere..." 

Ecco, una bella festa da condividere. 
In fondo, fare un libro è un po' anche questo: costruire qualcosa di bello assieme e, se ci si riesce, festeggiare tutti, lettori compresi. 
Partiamo da qui. 
Da questa frase che si legge - quasi in conclusione - nelle righe che Bernard Friot ha scritto per spiegare la nascita di Oggi la parola è meraviglia
Friot ci dice anche che, alla corrispondenza tra lui e Susie Morgenstern, si è aggiunta "in corsa" anche Chiara Carminati, con nuove parole e nuovi versi, da sommare a quelli che viaggiavano dalla mail di Susie a quella di Bernard e viceversa. 
Come regalo da offrire a quella loro festa ancora "privata", oltre alle parole e ai versi, Chiara Carminati porta in dono l'idea geniale di non prevedere nessuna traduzione. In tal modo si sarebbe conservato intatto l'equilibrio perfetto fra le voci di ciascuno di loro. 


Come accade sempre alle feste, o quando si fa un libro assieme, più si è più cresce la possibilità che venga bello e che il divertimento aumenti. 
Così, alle voci di Susie Morgenstern e di Bernard Friot, e in un secondo momento quella di Chiara Carminati, si aggiunge quella di un editore, Pension Lepic, che dà il suo fondamentale contributo in quattro mosse: decide di pubblicare un libro del genere, lo dà da illustrare a Vittoria Facchini, lo dà a Daniele Fior di Locomoctavia audiolibri perché ne curi l'aspetto sonoro, ossia renda possibile al lettore l'ascolto delle voci dei tre autori, e ne affida il progetto grafico a Fausta Orecchio di orecchio acerbo, che prende molto sul serio l'idea di costruire qualcosa di bello con tutti loro. E lo fa. 


Il risultato, la bella festa da condividere anche con i lettori, è un libro piccolo, pieno di blu, in cui in 125 pagine si alternano trenta parole diverse, ognuna delle quali declinata in tre lingue da tre poeti in tre direzioni tra loro anche molto lontane. Tre voci che leggono novanta poesie e per ciascuna parola, almeno una tavola - a matita, penna e pennello intinto nel blu. A tenere tutto assieme, il lavoro della grafica che silenziosamente sceglie colori, forme, formati, corpi, font e restituisce un oggetto in cui al pregio si aggiunge pregio. Ma, tra tutto questo, lei decide di insinuare anche un divertente e divertito gioco visuale. Vedere per capire. D'altronde se festa deve essere, tutti devono contribuire alla buona riuscita e al piacere di festeggiare assieme. 
Parliamo delle poesie. È sempre molto frustrante parlare di poesia. Andrebbe letta e basta. Tuttavia forse ha senso segnalare un paio di cose interessanti. 


La prima: la grande differenza tra i toni e quindi i ritmi dei tre. 
Il lungo respiro di Friot, il ritmo battente di Morgenstern e il gioco imprevedibile di Carminati. 
La seconda: parlando dei versi di Chiara Carminati (mi sembra di poterla capire meglio degli altri due), accade ancora una volta che lei giochi non solo con il senso delle parole, ma con il loro suono, per esempio usando i diversi significati di una stessa parola, per creare senso ulteriore e meraviglia, stupore aggiuntivo: 
INSIEME 
non amo le poesie fatte da soli 
che splendono potenti nella notte. 
Preferisco quelle delle stelle 
che nel buio indicano le rotte. 

Oppure: 
RIPETERE 
stagnola stagnola stagnola stagnola 
se ripeti molte volte una parola 
fobia fobia fobia fobia fobia fobia 
la sua anima di senso vola via 
e ti resta vivo in bocca come un grillo 
spillo spillo spillo spillo spillo spillo... 

E qui non posso non notare che tutti e tre si divertono spesso e volentieri a tamburellare su un medesimo suono, a elaborare liste, elenchi... 
Appunto, leggere per credere alla parola Repeat di Susie Morgenstern e Répétér di Bernard Friot. 
E ancora in Between di Susie Morgenstern il suo battere regolare su questa parola e altrettanto il suo esatto volare tra due contrari, ci consegna, alla fine del gioco, senza parere, una grande verità. BETWEEN 
Between black and white, there's all that grey 
In this murky grey we find our way 
Between truth and lies 
Between doubt and tries 
Between despair and hope 
Between yes and nope.... 


Per quel che può valere, le mie tre preferite per ciascuno dei tre:
Peut-êtreJournal, Caché; Girare, Meraviglia, Vicini; Frame, Notebook, Between
A libro letto, tutti e cinque, mi sentirei di aggiungere anche Facchini e Orecchio con le forme - delle parole dette e scritte, delle immagini e dei segni -  hanno messo in essere un grande e magnifico gioco. 
E adesso, a giocarci, tocca a noi! 

Carla

Noterella al margine. Un gioco nel loro grande gioco delle parole potrebbe essere: trovare quella lettera che, mutatasi - gaglioffa - in un'altra, ha fatto sì che un'apertura si trasformasse in una primavera... 
Per trovarla è necessario avere il libro e passare per un QRcode. Il mistero si infittisce.

venerdì 25 aprile 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA MEMORIA VIVA, VIVA LA MEMORIA

Il falco e la stella, Fabrizio Altieri 
Equilibri 2025 


NARRATIVA PER GRANDI (dagli 11 anni) 

"In quel momento l'uomo si risvegliò e prese per il bavero Falco. I suoi occhi erano vivissimi, come solo gli occhi di chi sta per morire possono esserlo. 
'Livio Boschi!' esclamò. 
Falco per la sorpresa stava per cadere all'indietro, ma l'inglese lo trattenne. Rivo era balzato in piedi e l'uomo, vedendogli il coltello in mano, capì quali intenzioni avesse. Accennò al paracadute: 'Potete prenderlo, ma in cambio dovete fare una cosa'. Parlava bene l'italiano, con solo un lieve accento inglese. Senza lasciare il bavero di Falco, con la mano libera prese un cilindro di acciaio che aveva legato al fianco. 
'Portatelo a Boschi', disse, e lo porse a Falco. Lui lo prese senza quasi rendersi conto e lo guardò. 
'Cos'è?' chiese Rivo, ma l'inglese cadde all'indietro trascinandosi Falco. Era morto con la mano ancora aggrappata al bavero del ragazzo."Falco. Era molto con la mano ancora aggrappata al bavero del ragazzo." 

Un ufficiale inglese che si è paracadutato sulle colline dell'Appennino emiliano per consegnare un importante messaggio al capo della brigata partigiana di quelle parti. Il paracadute non si apre come dovrebbe e lui precipita, ma prima di morire, raggiunto dai due ragazzi che hanno assistito alla scena, lo consegna a uno di loro. 
Comincia così, un po' per caso, con il desiderio di raggiungere quel paracadute per poi rivenderlo a borsa nera come seta per abiti, l'avventura partigiana di Falco e Rivo. Fino a quel giorno per loro la guerra era intorno, ma finora non li aveva coinvolti in prima persona. Li aveva lasciati stare. 
Ma l'entrare in contatto con altri ragazzi loro coetanei, vedere dove e come vivono in clandestinità le loro giornate, la loro guerra, conoscere insomma i partigiani di Livio Boschi, nome di battaglia Gordon, cambia la loro esistenza. E diventa Resistenza. 
Falco - e dietro di lui anche il disincantato Rivo, figlio di Dante il comunista - smettono di stare ai margini della Storia e fanno la loro prima e autentica scelta di campo. 
Questa è la loro storia personale (un po' presa dal vero e un po' no), avventure, prove di coraggio, primi amori, lutti in famiglia, musica, tanta musica, che si intreccia con la Storia (vera), ossia quella che racconta di come nel '45 l'esercito britannico combatté al fianco della Resistenza per liberare l'Italia dal nazifascismo.
Ne Il Falco e la Stella ci sono uomini e donne che si sono trovati a combattere, fianco a fianco, in una unica lotta per la liberazione. 

La chiave di questa storia sta proprio in quel "fianco a fianco", ossia nella grande prova di reciproca fiducia che ha tenuto assieme un 'esercito' molto eterogeneo ma coeso nel nome di un valore superiore a qualsiasi altro obiettivo politico che muove nazioni ed eserciti: l'umanità delle persone. Il sentirsi compagni, fratelli e sorelle. 
Son meno di tre pagine, a libro finito, in cui Fabrizio Altieri riprende la parola e racconta, con parole importanti e pesate, l'origine del libro e le radici autentiche, accurate nei confronti delle fonti, e quelle letterarie di questa bella storia. Appartenere a quella generazione che la guerra, ma ancora di più la Resistenza, se la è sentita raccontare da chi, ragazzo o ragazza in quegli anni, l'ha vissuta o se l'è vista passare davanti agli occhi, aiuta. 
Anche a chi abbia più di cinquant'anni, storie del genere risultano interessanti e importanti: anche per loro, è naturale riconoscerne e quindi percepirne lo spessore e la complessità. Molti tra loro temono il rischio reale che essa sia trascurata o non capita, o peggio, dimenticata. 
Ma se di anni ne hai una decina o poco più? Se non hai a disposizione un bisnonno che ti racconta e ti chiama dentro fatti realmente accaduti? 
Ecco, in quel caso entrano in gioco scrittori capaci che della materia dei fatti sappiano impadronirsene e sappiano restituirla in forma di buon romanzo. 
Questo è quello che è successo qui. 
Ingredienti imprescindibili, a mio avviso, sono: la buona scrittura; la sapiente capacità di costruire una buona storia (qui intorno a un fatto realmente successo), ossia una trama credibile che sia nel contempo onesta e avvincente; il calibrato dosaggio di elementi, diciamo così, universali che siano in grado di toccare le anime di lettori di età diverse. 
Partiamo dalla buona scrittura. 
In tutta onestà la cosa che mi ha soprattutto colpito, generando in me di volta in volta nuova aspettativa, è la puntualità con cui, a ogni fine di capitolo, con relativo cambio di scenario, Fabrizio Altieri si presenta sempre preparato a un exploit, anche semplici frasi ma di sicura presa ed effetto, che puntuali stanno lì pronte a stupirti e a tenerti attaccato alla pagina. 
Un infallibile incentivo ad andare avanti. 
La capacità di costruire una trama avvincente e onesta intellettualmente è segno - non solo di buon mestiere - ma anche di talento autentico. 
Se si leggono le note finali in cui si è sentita l'esigenza da parte dell'autore di passare al setaccio l'intera storia per distinguere il vero dall'inventato, si può ricostruire a posteriori il grande lavoro di incastro dei vari pezzi che tengono su con onore l'intera struttura, fatta di Storia e di storia. Quella stessa capacità immaginativa che un buon architetto, o un buon regista, deve avere nel progettare un corpo che nel tempo e nello spazio abbia un suo senso, una sua armonia, una sua bellezza. 
A ogni capitolo cambiano le prospettive, i personaggi si avvicendano nel loro sparire dalla scena o rientrarci, proprio come a teatro. 
E infine, gli elementi universali. 
Rispetto a questi, mi verrebbe istintivo tacere, perché ognuno possa trovare i propri, senza essere guidato da una lettura che è, al contrario, molto personale. 
L'unica cosa che mi sentirei di sottolineare è questa: in ogni buona storia, ci sono. 
E questa decisamente lo è.

 Carla

mercoledì 23 aprile 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

NESSUNA STREGONERIA, SOLO LETTERE E PAROLE. 

“Consegnò tali ricordi alla febbre. Offrì in dono l’oblio per avere in cambio una via d’uscita, una via per sopravvivere. 
E quando la febbre scese, quando alla fine si risvegliò nel mondo reale, portò con sé un’unica cosa: il suo nome. 
Beatrice.” 
 

Una bambina viene ritrovata raggomitolata da Fratello Edik, accanto alla capra Answelica nel fienile di un monastero. 
La capra in questione non è una qualunque, è temuta infatti da tutti i monaci dell’Ordine delle Cronache del Cordoglio per le sue violente testate e non viene abbattuta solo per il sospetto che il suo fantasma possa essere più pericoloso dell’animale in carne e ossa. Lo stupore di Fratello Edik è quindi grande quando si accorge che la capra protegge quella bambina che si rivela subito in pessime condizioni. Il suo nome è Beatrice e, a parte questo, non ricorda niente altro. 


Fratello Edik decide di accogliere la bambina e di camuffarla da monaco rasandole i capelli e coprendola con un saio. La verità sulla bambina si svelerà progressivamente e, a lui come a tutti i monaci timorosi, risulterà chiaro che potrebbe trattarsi di quella bambina che, secondo una profezia contenuta nelle Cronache del Cordoglio e che si è rivelata allo stesso monaco, sarà l’artefice di un grande cambiamento che porterà allo spodestamento dell’attuale re. 
Un racconto ambientato in un medioevo non precisato, in un periodo di tempo lontano in cui alle bambine era proibito imparare a leggere e a scrivere (invece Beatrice stranamente dimostra di possedere queste competenze) e in cui alle profezie veniva accordata grande importanza. 
Al centro di questo romanzo ci sono soprattutto due elementi: la parola e l’amore. A loro volta poi fortemente correlati. 
Le parole sono quelle lapidarie di una profezia che per quanto si voglia contestare e giudicare inattendibile, creano una tensione sottile ma resistente che si dipana lungo tutta la storia. Quelle parole affiancano anche quelle di un’altra storia, quella che Beatrice racconta al brigante e poi al re, la storia di una sirena con la coda ingioiellata, la stessa storia che ritorna come una promessa fatta a Fratello Edik e rimasta in sospeso. E ancora, quel racconto che ha i toni di una fiaba è poi incarnato dalla voce della bambina che in questo modo riesce a ritrovare la madre, il cui destino era rimasto sconosciuto.
La parola (l’incanto della storia) viene proposta come antidoto a un mondo che si è piegato alla barbarie e all’ignoranza. Beatrice rappresenta la vita che si rivela pian piano e solo grazie all’amore, quello di una capra a dir poco singolare, di un monaco sensibile alla bellezza e poco considerato dal resto dell’Ordine, di un ragazzino destinato a una vita di stenti e di un re che ha rinunciato alla propria corona.
I personaggi di questo romanzo costituiscono un gruppo assortito di reietti (per destino o per scelta) che hanno però intravisto in Beatrice una grande luce e per questo sono disposti ad accompagnarla nel viaggio che dovrebbe riportarla a casa, che si rivela molto complesso perché deve passare per prima cosa proprio dal luogo dal quale si fugge: ossia il castello di quel re che la insegue e che vorrebbe vederla morta. 
Beatrice non sa cosa potrà ricavare da questo incontro, ma sa bene che deve incrociare lo sguardo di quell’uomo che ha ucciso i suoi fratelli, non è la profezia a muovere i suoi passi, ma un destino che la chiama e che ha a che fare più con la sua dimensione umana e morale. 
Beatrice avrebbe voluto dire a quell’uomo: 
“Avete ucciso i miei fratelli. Avete cercato di ammazzarmi, ma avete fallito. 
Ora sono dinnanzi a voi. Avete fallito.” 
Ma non lo disse. Invece Beatrice aprì la bocca e disse soltanto: “C’era una volta”. 
C’era una volta.” 
Come affrontare a mani nude un uomo che si è fatto artefice di morte? Beatrice non lo sa, ma quando arriva quel momento non sa fare altro che raccontare. 


La profezia come parola nutrita di una sostanza che non può che essere l’amore, come dire che le storie se non affondano nell’animo di chi le genera e racconta sono destinate a essere lettera morta. Quelle stesse lettere, invece possono rivelare una grandissima potenza se sono sostanziate da uno slancio autentico che muove la stessa vita. Beatrice ha imparato le lettere e le parole, le ha a sua volta insegnate al giovane Jack Dory per il quale sono diventate la chiave di accesso al mondo, rispetto al quale era avido di conoscenza. 
Di questo romanzo è difficile non amare la scrittura, prima ancora che la storia, quello stile narrativo caratterizzato a parole sempre molto misurate, periodo brevi come incisi, spesso anche ripetuti a sottolineare la pregnanza di quelle singole parole e la necessità di sceglierne senza abusarne. Anche i capitoli sono brevi e, sebbene quella narrata sia un’avventura che comporta spostamenti, viaggi, cambi di compagnia e di scenario, il ritmo non è mai concitato e la scrittura ha sempre un respiro ampio e disteso. 
Questo modo di scrivere permette di assistere allo spiegamento della storia come se fosse in un grande quadro, come se si disponesse in ampiezza più che nella linearità di un percorso. In questo grande affresco, le avventure raccontate hanno il sapore di un racconto incastonato in un’epoca sospesa e non collocabile cronologicamente. Qui, come in altri scritti di Kate DiCamillo, il contesto storico è solamente evocato nei suoi aspetti noti che contribuiscono a comporre un immaginario funzionale alla storia. La conclusione dichiara apertamente che la vicenda potrebbe essere ambientata anche in un tempo che deve ancora venire, potremmo addirittura parlare allora di un romanzo distopico, più che vagamente storico. Le iniziali miniate di ogni capitolo rimandano alle scritture realizzate dai monaci amanuensi, ma la scelta di utilizzarle sembra rimandare ancora una volta al valore delle lettere come forma di conoscenza e al contempo di contemplazione e godimento del bello. Non a caso è Fratello Edik ad avere il compito di realizzarle, quell’uomo dotato di un occhio ballerino che gli conferisce forse la capacità di vedere la bellezza ovunque. Meritano una menzione le illustrazioni che, sebbene in bianco e nero, arricchiscono ulteriormente il piacere della lettura. Sono di Sophie Blackall, autrice di fama internazionale e vincitrice per ben due volte della prestigiosa Caldecott Medal. Il suo tratto elegante e morbido restituisce luoghi silvestri dal sapore magico che non mancano però mai di sobrietà, così come gli elementi decorativi all’inizio di ogni capitolo impreziosiscono le pagine senza risultare mai stucchevoli. 
Un romanzo che saprà deliziare bambine e bambini a partire dai 10 anni. 

Teodosia

"La profezia di Beatrice", Kate DiCamillo, illustrazioni di Sophie Blackall, traduzione di Anna Patrucco Becchi, San Paolo 2024 


martedì 22 aprile 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

VARCARE LA PORTA

Max e Nigel
, Antonio Manzini
Sellerio 2025 


NARRATIVA PER GRANDI (dai 10 anni) 

"Non ho seguito una parola della lezione di matematica, e neanche quella dopo di inglese. La ricreazione la passiamo seduti al banco controllati da Italia, che è la collaboratrice scolastica del piano. Cinque settimane così e diventiamo pazzi. A malapena si può chiacchierare col vicino di banco. Me lo sogno di scambiare due parole con Roberto Tardioli o Wheng Chen che stanno due file dopo di me. Di guardare Tiziana, Lorella e sperare...ma sperare che? Se solo provano a parlarmi divento rosso e non riesco più a spiccicare parola. È già successo e hanno riso di me. Guardo Cecere e Marinelli. Cecere scarabocchia fogli. Marinelli fa il duro, ha un coltellino e ci incide il piano del banco. Solo perché ha un fratello di 14 anni. Altrimenti varrebbe poco o niente." 

Breve antefatto. 
In quella I media è appena successa una cosa: sul lato posteriore della lavagna qualcuno ha disegnato un maiale e sotto ha aggiunto Corini maiale. Corini Anna, colpevole di avere un naso schiacciato, diventa per questo bersaglio dei peggiori. La prof si arrabbia, chiama il preside e lui chiede al colpevole di uscire allo scoperto: silenzio in aula. Sentenza emessa: 5 settimane senza ricreazione.
Fine dell'antefatto. 
A raccontare è Max Pagani, di nonno irlandese, amico per la pelle di Nigel, keniota, con la testa piena di dred. 
La famiglia di Max è piccolissima: vive con sua madre, che fa la segretaria e si ammazza di lavoro. C'è saltuariamente anche un padre, separato, che si affaccia ogni 2 o 3 settimane. Non è proprio la sua passione, al momento. 
La famiglia di Nigel al contrario è numerosissima: 5 fratelli e 2 sorelle più madre e padre: tutti arrivano dal Kenya. 
Loro due sono inseparabili, cosa che gli fa vincere il soprannome di Maxibon. 
Con loro, in tutte le loro chiacchiere e spesso anche nelle loro uscite, ci sono anche Roberto e Wheng, cosa che gli fa vincere un altro soprannome: i 4 desperados. In perenne adorazione delle ragazzine della classe e non solo, perennemente respinti, questi quattro fanno squadra di fronte alle durezze di quell'età. E soprattutto passano parecchio tempo assieme, perché il resto del mondo pare ignorarli o, peggio, prenderli di mira. 
Queste le loro avventure, talune investigative, almeno un paio, e altre con fini diversi. 
Un pugnetto di undicenni in azione. 

La cosa strana dentro cui mi è capitato di inciampare alla fiera di Bologna è stata questa: con una mia amica non riuscivamo a trovarci nel grande padiglione 29, così alzo lo sguardo e le dico: sono davanti allo stand di Sellerio, 1 B/4. Lì per lì non ci penso e poi mi dico: che cosa ci fa Sellerio alla BCBF? 
La risposta è questo libro, numero uno di una nuova collana (il numero 2 è di Andrea Camilleri: Guardie e ladri, ma non l'ho letto), che si intitola La memoria dei ragazzi
Anche Sellerio, il magnifico Sellerio, sente la necessità di entrare nel rutilante mondo dell'editoria per ragazzi. 
La porta è sempre aperta, o forse sarebbe più giusto dire, spalancata, vista l'espansione del settore... 
E l'accesso attraverso quella porta, non lo si nega a nessuno. Men che meno a un editore così tanto interessante, così tanto raffinato, così tanto... tanto. 
In perfetto stile Sellerio escono piccoli libri - il formato è identico ai piccoli Sellerio blu, che costituiscono l'immaginario di ciascuno di noi, quando sentiamo il nome Sellerio, e occupano interi ripiani di librerie. Persino la carta ha la medesima qualità dei libri che appartengono a genitori e nonni. 
La grafica non cambia di molto, ma si movimenta e colora, tenendo conto che si rivolge appunto ai figli e ai nipoti di quelli che hanno comprato e letto i magnifici libri blu. Dei piccoli disegni in bianco e nero qui e lì, che non spostano nulla, ma stanno lì a dimostrare che non si sta tenendo in mano un Sellerio da grandi. 
L'altra costante sembrerebbero essere gli autori, almeno le prime due uscite pescano nel loro catalogo: Manzini e Camilleri. 
Il nome della collana, La memoria dei ragazzi, anch'essa si congiunge in modo diretto con il nome della collana dei libri blu, La memoria
Ecco. Ed è proprio questa parola "ragazzi" che mi fa riflettere. 
Scrivere per ragazzi. Scrivere per adulti. 
Col tempo e la militanza e con l'aiuto di altre belle teste che hanno scritto libri illuminanti in proposito, sono arrivata a concludere che scrivere buone storie per bambini non sia diverso, e men che meno più facile, che scrivere buone storie per adulti. 
Non è detto che se hai scritto buone storie da grandi, tu sappia farlo con eguale efficacia, scrivendo per bambini. 
Senza lungaggini, rimanderei ai 10 punti + 1 che emergono dalla lettura di un libro che di questo si occupa, La porta segreta
Tuttavia, in estrema sintesi, mi sentirei di ribadire che l'impegno e lo sforzo, la cura, l'onestà, il rispetto dell'intelligenza di chi ci legge dovranno essere spesi in egual misura. 
E qui, nella fattispecie, tali impegno e sforzo ecc ecc. andrebbero pretesi per la collana Memoria, tanto quanto per quella Memoria dei ragazzi
Anzi, possibilmente, lo sforzo dovrebbe essere maggiore perché un grande che scrive per un grande sa a chi si rivolge, mentre un grande che si rivolge a un piccolo, non può saperlo. 
Almeno non fino in fondo. 
E poi arrivano le domande sull'adulto che scrive per ragazzi: sarà capace, nel farlo, di silenziarsi e, in quanto adulto, astenersi dal dare ai suoi piccoli lettori buoni consigli sulla vita e su come viverla? 
Sarà capace di scegliere di mettere nelle sue storie quegli argomenti, quelle questioni che sono di fatto universali, e lo sono a tal punto da non lasciarci mai, neanche da grandi o da vecchi? 
Sarà capace di non cadere negli stereotipi o in una sua idea preconcetta di cosa sia essere piccoli in crescita? 
Sarà capace di non scimmiottare infanzie e adolescenze solo per blandire i propri lettori? 
O altrimenti, sarà capace di scriverne con cognizione di causa, ovvero premurandosi di verificare la propria onestà nell'attingere alla propria di infanzia/adolescenza e quindi volerne raccontare un po'? 
Ecco. Sarà capace? 
E dunque: è condizione sufficiente essere scrittore di fama per intraprendere, così come ha fatto con i grandi, una serie di racconti per ragazzi, che abbiano un vago gusto di quello che tanto era piaciuto alle madri e ai padri di detti ragazzi? 
No, non lo è. 

Carla

venerdì 18 aprile 2025

FAMMI UNA DOMANDA!

UNA COSA SOLA 


"Per i bambini e le bambine moken, il silenzio è un segno di rispetto e un modo per comunicare con gli animali. Il destino degli inuit è legato a doppio filo a quello dell’oceano Artico. Popoli come gli ngāti hau, gli anangu o gli mbuti hanno lottato per decenni affinché i loro luoghi sacri – fiumi, montagne, boschi – venissero rispettati. La vita collettiva di questi popoli si basa sul principio della reciprocità, ovvero sulla solidarietà e sul mutuo aiuto, sulla moderazione e sulla gratitudine per quel che si ha. 

Le comunità indigene si prendono cura della natura perché la percepiscono come un essere vivente in cui vivono e che vive in loro, che è parte di loro stessi: è famiglia, madre, sorella, antenata." 

Questo si legge nella introduzione a questo libro, dal titolo così ricco di significati. 
La parola origine racchiude tanto la complessità del pianeta su cui viviamo e nello stesso tempo allude al fatto che ogni creatura che lo abita parte da un medesimo ingrediente condiviso, la polvere delle stelle. Una sola origine per tanti popoli differenti. 
Se si riflette su questo, accade che contemporaneamente siamo di fronte a tante diversità, eppure, davanti a un punto di inizio che è unico. 
Ah, se i più potesse tenere a mente questo pensiero... forse sarebbe tutto più semplice. 
Ma. 
Nel grande libro Origine, pubblicato per la prima volta da una delle più significative case editrici di lingua spagnola, Libros del Zorro Rojo, il ragionamento e lo studio decennale fatto da Nat Cardozo, magnifica illustratrice che lavora in Uruguay, su questo concetto così importante e complesso ha come esito questa magnifica galleria di ventidue diversi volti di bambini o bambine.


Ognuno di questi diventa ritratto di una appartenenza a un territorio, a una cultura. 
Ventidue popoli, detti originari, ossia che si sa abbiano abitato il luogo in cui vivono ancora oggi, fin dal principio, fin dall'origine appunto. 
Una selezione durissima e dolorosa deve essere stata per Nat Cardozo, visto che, gli studi di antropologia, attestano che a oggi le popolazioni originarie sono più cinquemila. 
Da piccole comunità di poche migliaia di individui, fino a più di un milione, tutti loro sono tenuti insieme non solo dalla comune radice "stellare", ma anche e soprattutto dal senso di rispetto e gratitudine nei confronti della natura che li circonda. E, purtroppo, nell'essere tutti tenuti socialmente ai margini da parte delle società più forti, nell'essere stati oggetto di allontanamento dalla loro terra, di imposizioni di credo religiosi diversi dai loro, di lingue che non sono quella originaria. 
Leggere per credere. 


Il libro, questo prezioso catalogo di facce e paesaggi, nelle sue pagine è così organizzato: in quella di sinistra, un titolo che allude alla popolazione e poco sotto la sua collocazione geografica e qualche dato sul numero di appartenenti alla comunità e la lingua parlata. Poi su due colonne c'è una narrazione che racconta il territorio, l'alimentazione, le abitudini, i rapporti all'interno del gruppo e le relazioni con ciò che li circonda. E ancora più in basso, perfettamente speculare alle quattro righe su geografia, popolazione e lingua, ci sono altre quattro righe in cui si regala al lettore un altra piccola informazione. 
A destra, l'intera pagina è occupata dal volto di bambini e bambine, attraversato ogni volta da un paesaggio differente.
Sfogliandolo si scopre che tra i !Kung vale la regola di non affezionarsi a oggetti o utensili, perché il loro nomadismo attraverso il deserto del Kalahari gli ha insegnato che è meglio "viaggiare leggeri" e si scopre anche che un sopracciglio piò diventare l'ombra di un baobab e le colline in lontananza sono capelli crespi. Si impara che il nomadismo acquatico della ragazzina moken, le fa dire che la barca su cui vive, il kabang, una vera e propria casa galleggiante, se ben curata sarà in grado di portarla dove lei vorrà. Solo in alcuni periodi dell'anno è saggio abbandonarla, ossia quando è più sicuro costruire e abitare piccole capanne sulla terraferma, aspettando che il monsone passi. E i coralli le circondano un orecchio.


Anche il bambino Evenki, nella taiga della Siberia, è nomade perché lui e la sua gente, popolo di pastori, seguono le renne e per le quali cercano i percorsi più sicuri. Dormono in tende e partono che non è ancora l'alba per andare a caccia, non prima di aver chiesto all'anima dell'animale che si vorrebbe catturare di stipulare con il proprio cacciatore un patto di lealtà. Il fiume al disgelo gli attraversa la fronte.
Nel mondo della bambina Cherokee sono sette i punti cardinali per orientarsi e tre i livelli dell'universo. E come darle torto: est ovest nord sud il sopra il sotto e il centro, e poi un mondo superiore, uno inferiore e uno di mezzo, in cui vivere. E due bisonti pascolano sulle sue sopracciglia.
Una meraviglia dietro l'altra, viso dopo viso, luogo dopo luogo. 
Ed è proprio in questo modo di concepire l'immagine che non posso non pensare a tre cose. 
La prima, Tullio Pericoli e ai suoi paesaggi. 


Ma la chiave, geniale, è proprio lì: i volti delle persone sono paesaggi. 
E qui entra la terza grande cosa: noi siamo la nostra storia. 
Io ci credo fermamente, e di questo mi sono convinta leggendo uno dei migliori libri di sempre (ovviamente fuori commercio), Gli ultimi giganti di François Place, pubblicato - sarà un caso? - da L'Ippocampo. 
Tutta la superficie del loro corpo, la loro pelle, era coperta di tatuaggi, che cambiavano nel corso del tempo, raffigurando, di fatto ridisegnando con i loro segni, gli accadimenti vissuti da ciascuno di loro. 
Va da sé che l'uomo troppo curioso che li ha scoperti, ha portato alla loro scomparsa. 
Beh, mi pare che qui il cerchio - quasi - si chiuda. 
Stando a quanto scrive Nat Cardozo, con la supervisione di María José Ferrada, c'è da chiedersi quanto il destino di Inuit, Bribri, Musuo, Ngati Hau e gli altri quasi cinquemila popoli originari sia affine a quello degli ultimi giganti... 

Carla 

"Origine", Nat Cardozo, testi a cura di María José Ferrada L'Ippocampo 2024

mercoledì 16 aprile 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

DEL BENE E DEL MALE 


Martyn, narratore e protagonista di questa storia, ha un cognome che già prima di nascere lo condanna a una vita difficile: si chiama Pig, Martyn Pig ...e vorrei vedere voi! 
Ma al cognome si è ormai abituato, come a tutti i conseguenti sfottò: le risate, i grugniti, gli appellativi (porco, maiale, faccia di lardo, mangia letame…). Pure al resto della sua vita si è abituato: a un quartiere squallido, a una città grigia dove si trascinano esistenze deprivate, alla solitudine, ai cieli grigi, a una madre che se n’è andata già da tempo e a un padre alcolizzato molesto e violento. 
Una esistenza data per scontata, come se in alcun modo sarebbe potuta essere diversa, uno sguardo così lucido da rasentare l’ironia. 
Martyn ha (quasi) 14 anni e ci racconta la sua storia a ritroso, quando tutto è già successo, un anno prima, la settimana che precedeva il Natale: da un mercoledì al mercoledì successivo. 
Tutto è già successo, dunque, e questo "tutto" sta per "tanto", anzi "troppo".  Come sempre, Kevin Brooks ci porta sull’orlo di un baratro dove cerchiamo di restare in equilibrio mentre lui ci scazzotta ben bene all’altezza dello stomaco per vedere quanto siamo disposti ad abitare tra le pagine di periferie aride e adolescenze dolenti, dove se vuoi capirci qualcosa, se vuoi sopravvivere, devi rinegoziare a ogni passo, in ogni pagina, cosa è giusto e cosa non lo è. 
Grigio è il colore di questo racconto, neanche il sangue di chi è morto riesce a colorare la storia, solo grigio, lo stesso grigio delle strade, dei volti anonimi dei vicini, dei passanti, dei negozi. Giusto per dare un’idea provo qui a riportare gli aggettivi con cui Martyn, nello spazio di sei pagine, descrive cose e persone mentre fa un giro in città per recarsi al TuttoSottoCosto: spaventoso, collassato, scheletrico, sgradevole, irritante, orribile, insopportabile, appiccicoso, paralizzante, estraneo, sgraziato, discordante, untuoso, folle, freddo, umido, fradicio, sbronzo, strappato, imbrattato, biancastro
E certamente me ne è sfuggito qualcuno. 
In un paesaggio di tal fatta, umano e urbano, interno ed esterno a Martyn, accade quello che non doveva accadere: nella giornata di quel mercoledì di un anno prima, per evitare l’ira del padre strafatto di alcool come sempre e come sempre violento, Martyn cerca di schivare l’aggressione - una spinta per difendersi - la caduta - la testa sulla pietra del camino. Il padre muore già nel primo capitolo e mi permetto qui di raccontarlo perché è nei capitoli, dunque nei sette giorni, successivi che tutta la storia accade. 
E quello che accadrà sarà determinato da due elementi: la passione per i romanzi noir e polizieschi di Raymond Chandler e Arthur Conan Doyle, e l’amicizia con Alex, la giovane vicina di casa che diventerà coprotagonista degli eventi. Ispirato da Philip Marlowe e da Sherlock Holmes e motivato dall’innamoramento per la bella Alex, Martyn costruirà la sua strategia e il tentativo di riscatto da una situazione senza uscita. “Le cose non succedono così e basta, ci sono delle ragioni. E le ragioni hanno le loro ragioni. E le ragioni delle ragioni hanno una ragione. E poi le cose che succedono fanno succedere altre cose, diventano delle ragioni a loro volta. Niente va dritto per la sua strada, non è mai così semplice.” 
Dentro un determinismo schiacciante Martyn cercherà di inserirsi tra gli eventi costruendo un cinico meccanismo di precisione senza mai svelare in anticipo il suo piano a chi legge. 
Un racconto in prima persona che si sposta dal passato al presente e viceversa, fatto dialoghi in presa diretta che si mischiano a ricordi di infanzia; e mentre si legge si è presi da un flusso continuo di racconto e ci pare di assistere alla scena come se accadesse in quel momento sotto i nostri occhi, poi ogni tanto Martyn si rivolge direttamente a noi, allora ci si ricorda che non si è testimoni di qualcosa che accade nel presente ma che è tutto, tanto, troppo, già accaduto. È solo nell’Epilogo che riusciamo a tornare stabilmente in noi, nel presente di lettori e lettrici chiamati in causa dal narratore. 
Una scrittura magistrale. Un giallo, una detective story, un romanzo sociale, un romanzo di formazione dove ogni svolta del racconto è inaspettata e quello che ti aspetti ti prende allo stomaco: tra illusione e disillusione, ingenuità e strategia, Kevin Brooks ti porta fino all’ultima pagina dove tutto si riapre in un giudizio impossibile, dove bene e male, amicizia e tradimento si ridisegnano come non potevi immaginarti. Ogni adolescenza è impegnata a ridiscutere e ridefinire il bene e il male, a contestarne i luoghi comuni per ricostruirne il senso individuale e collettivo. Questa storia apre uno spazio ampio ed estremo capace di accogliere domande e riflessioni fuori da ogni risposta preconfezionata. 
Per lettori e lettrici con stomaci forti e con una quindicina di anni alle spalle. 

Patrizia 

Noterella al margine. La copertina è disegnata Truly Design, un collettivo di artisti torinesi che con una palette ridottissima di colori e con un disegno super geometrico riescono a dare profondità e movimento alla scena. Una pur veloce ricerca in rete mostra la loro capacità di ridisegnare gli spazi creando volumi e profondità illusorie e pur credibili. Il nostro Martyn si è forse imbattuto in uno dei loro murales? 

 “Martyn Pig”, Kevin Brooks, trad. Benedetta Reale, Giralangolo 2025 

 

lunedì 14 aprile 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

SBRENG

La ragazza da odiare, Lee Kkoch-Nim (trad. Sara Bochicchio) 
La Nuova Frontiera 2025 


NARRATIVA PER GRANDI (dai 14 anni) 

"Ji Ju-yeon? Non so molto di lei, a parte che è una tipa vivace, abbastanza brava nello studio e con un bel faccino. Però tutti dicono che lei e Park Seo-eun fossero molto legate. Erano sempre insieme, si dai tempi delle scuole medie. Non riesco a capacitarmi che sia potuta accadere una cosa del genere tra due amiche del cuore. Comunque, questa intervista verrà trasmessa per davvero? A che ora?" 

La voce che sta raccontando quanto è successo è quella di una studentessa di prima superiore. Lei, come moltissimi altri, non ha visto niente, ma frequenta la scuola dove è avvenuta la morte di Park Seo-eun, una liceale di poco più grande di lei. 
Il suo corpo è stato trovato una mattina nello spazio retrostante la scuola. Qualcuno, affacciandosi a una delle grandi finestre della scuola, guardando in basso ha visto Park Seo-eun riversa a terra, senza vita e ha urlato, dando l'allarme generale. 
Accanto al suo corpo, resti di un mattone in frantumi, con ogni probabilità l'oggetto che l'ha colpita e uccisa. Dopo una breve indagine, viene sospettata dell'omicidio (al suicidio si è pensato solo per un attimo, ma sul suo corpo le tracce del colpo ricevuto non lasciavano dubbi) la sua amica del cuore Ji Ju-yeon. 
La ragazza è stata vista correre via dalla scuola intorno all'ora della morte dell'amica, sul suo cellulare ci sono messaggi che alludono a una litigata tra le due, le sue impronte sui frammenti del mattone... E lei che riesce a ricordare poco e niente di quegli attimi fatali. 
Intorno a questi che sono i fatti, pesa la percezione diffusa che tra le due l'amicizia fosse diventata burrascosa e che forse il loro rapporto fosse molto diverso da quello che l'apparenza mostrava. 
Questa è la storia di una ragazza, studiosa, diligente, ricca e di buona famiglia che viene arrestata perché fortemente sospettata di aver ucciso Park-Seo-eun, la sua amica con cui condivideva tutto dai tempi delle medie... 

Quarta e significativa uscita nella collana Oltre, per La nuova Frontiera. 
Sbreng. 
Centonovanta pagine costruite attraverso il racconto di diversi personaggi che ruotano intorno alla morte di una studentessa, per ragioni diverse. La voce di ciascuno fa vita a sé e la si ritrova nei singoli capitoli, il cui titolo ha la sola funzione di informare il lettore su chi stia parlando. 
Attraverso questa sequenza di voci, la situazione si evolve, si chiarifica, si annebbia, prende una direzione, per poi prenderne un'altra esattamente nel modo in cui ciascuno di noi potrebbe ascoltare i racconti di altri, che di un unico fatto danno la loro personale visione, scambiandola inevitabilmente per l'unica realtà possibile. 
Le voci sono quelle dell'avvocata Kim, che non ha mai perso un processo e che il facoltoso padre della sospettata le ha messo a fianco per essere sicuro in tal modo di uscirne illeso, la sua reputazione e i suoi affari, insieme alla figlia e alla moglie. A seguire quella dell'avvocato d'ufficio, quando la prima decide di punto in bianco di rinunciare al mandato. 
I due genitori dell'imputata. 
Il profiler che la polizia convoca, vista la riluttanza dell'imputata a confessare. E la sua confusione mentale sui momenti cruciali del suo alibi. 
Varie compagne di scuola. 
Il proprietario del negozio dove la vittima lavorava part time per aiutare la madre vedova ad arrivare alla fine del mese. 
La madre della vittima. 
Il fidanzato della vittima. 
Il personale scolastico: dalla coordinatrice al custode e alcuni insegnanti del hagwon. 
E nelle ultime vertiginose pagine, la voce di una testimone, finalmente, e di una testimone oculare. Questa è l'ossatura magnifica del racconto, che ricorda in questo originale modo di raccontare una storia un altro libro epocale, Il bambino Oceano, di Jean-Claude Mourlevat. 
Anche lì un forte non detto, che si svela lentamente come accade qui. 
Lasciato da parte l'aspetto stilistico, rimane altrettanto "magnifica" e "raggelante" la storia che si racconta e le questioni che pone. 
Un microcosmo di adolescenti, nella maggioranza ragazze, che competono per trovare il loro posto nel mondo e una loro dimensione affettiva che le appaghi. Ai blocchi di partenza sono in parecchie, una di loro partirà ma al traguardo non arriverà mai, perché "qualcosa" ha fermato la sua corsa. Uno spaccato di società contemporanea che lascia senza fiato per la lucidità di analisi. 
Scomodo, perturbante, doloroso, mette sul tavolo tante di quelle questioni che è davvero difficile non pensarci per giorni e giorni, una volta chiuso il libro. 
Le insicurezze, le fragilità di uomini e donne e di ragazzi e ragazze, la dipendenza assoluta dal giudizio altrui al quale non siamo progettati per sottrarci. Giudizio che, nella contemporaneità, è talmente a portata di mano che permea ogni più piccolo spazio comunicativo e che, così pervasivo e potente, diventa l'unica percezione della verità in cui credere. 
Ecco, la verità. Talmente forte è l'impatto del mondo che ci circonda, che è davvero semplice e più confortevole affidarsi al pensiero mainstream che elaborare una propria conclusione che ci porti alla verità. Costa meno e si vive meglio, al suo riparo. Ma resta da chiedersi: questo che conseguenze porta nella percezione che abbiamo di noi stessi? Fino a che punto siamo disposti a credere e a difendere quella che consideriamo la nostra singola verità, quando tutto quello che ci circonda sembra volerla negare? E quali strumenti abbiamo che ci rendono capaci di discernere il vero dal falso? 
Insomma, domandine così. 

Carla 

Noterella al margine. C'è un dettaglio che non va ignorato in questa storia tutta coreana, e allo stesso tempo universale. Le ultime righe che l'autrice dedica al lettore, in cui si legge una gentilezza tutta orientale, che sarebbe utile tenere a mente... 
"Ho imparato che uno scrittore ha una certa responsabilità verso i personaggi che popolano i suoi romanzi. Per questo mi sforzo di avvicinarmi a loro in punta di piedi. Tuttavia, per questa storia ho pensato che avrei dovuto iniziare destinando Seo-eun a una morte nefasta. Mi dispiace, e le chiedo scusa."

venerdì 11 aprile 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

PRIMA È, MEGLIO È...

La valle dei Mumin
, Alex Haridi, Cecilia Davidsson, Cecilia Heikkilä 
(trad. Alessandra Scali) 
Iperborea 2025 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER PICCOLI (dai 4 anni) 

"Poi Mamma Mumin si mise a raccontare di quando era piccola, dei tempi in cui i Mumin vivevano nelle case degli esseri umani - preferibilmente dietro le loro stufe di maiolica. 
'Magari qualcuno di noi ci vive ancora' disse 'nelle case che hanno mantenuto le stufe di una volta. I termosifoni non fanno proprio al caso nostro'. 'Ma a quei tempi gli umani lo sapevano che c'eravamo anche noi?' chiese Mumin. 
'Sì, alcuni sì.' rispose Mamma Mumin. A volte se erano da soli e sentivano un brivido sulla nuca, allora capivano che eravamo lì con loro.'" 

Ora la vita dei Mumin è molto diversa. 
Per esempio, adesso come adesso, il piccolo Mumin, per mano a Mamma Mumin sta camminando ormai da giorni nella grande foresta in cerca di un luogo adatto dove costruire una casa che li accolga entrambi per il loro letargo invernale. Con i piedi a mollo per la grande inondazione dovuta alla grande pioggia, avanzano a fatica. 


Loro non sopportano il freddo (per questo le stufe di maiolica), ma fortunatamente Mamma Mumin nella sua borsetta ha sempre quattro cose essenziali: zucchero, caffè, polverina contro il mal di pancia e calzini asciutti. Mentre avanzano a fatica, papà Mumin non è con loro perché è partito per uno dei suoi viaggi ed è scomparso da un bel po', non restano soli a lungo: sul cammino incontrano Sniff, che al loro invito, decide con entusiasmo di seguirli. 


Saranno loro tre a incontrare nella palude il Serpente Gigante, e poi Tabacco che, con la sua musica, ammalia il Serpente. Intorno a fuoco, i quattro girovaghi bevono assieme un bel caffè, ma all'invito a unirsi al piccolo gruppo, Tabacco rifiuta: lui è uno spirito troppo libero per farsi coinvolgere nella ricerca di un posto asciutto e di una casa. Magari si ritroveranno più in là. Magari. 
Il loro viaggio prosegue, tra alti e bassi - è proprio il caso di dirlo. Attraversano giardini in cui il latte scorre e lo zucchero filato è al posto della neve e i fili d'erba sono caramelle, vengono poi sbattuti sulle rive di un fiume impetuoso fino al momento in cui trovano tracce importanti di Papà Mumin, nonché un paio di occhiali persi dal vecchio Marabù che per gratitudine... Basta! 

In questo libro succedono molte cose inaspettate. 
La prima e la più eclatante: sopra il titolo La Valle dei Mumin non compare il nome Tove Jansson come autrice, ma tre cognomi differenti. Due autori del testo e una illustratrice. Il suo nome è "solo" il punto di partenza...
La seconda e altrettanto eclatante: un romanzo dei Mumin si è trasformato in un racconto illustrato.
Breve spiegazione di quello che sta capitando in Svezia: sotto l'occhio vigile e attento degli eredi di Tove Jansson (la sua nipote in testa, che firma una sorta di attestato di affetto nei confronti di Tove e della sua opera, auspicando che tutti i bambini che ci sono e che verranno ne possano godere) tre autori si sono metaforicamente messi sulle spalle la grande mole dei suoi romanzi per bambini (in originale: 9 romanzi) e li hanno trasformati in qualcosa di molto simile a un lungo albo illustrato (il testo è ben più lungo), perché appunto possa accedere quello che Sophia Jansson auspica nella letterina iniziale, A te che stai leggendo...: più Mumin ci sono, meglio è. 


Breve spiegazione di quello che sta succedendo nel versante italiano è diretta conseguenza di quello che accade in Svezia: i romanzi di Tove Jansson stanno in casa Salani, ma questi lunghi racconti illustrati per più piccoli hanno trovato la loro 'stufa di maiolica' a casa Iperborea. 
E in perfetta armonia, come piacerebbe ai Mumin, creaturine gentili per eccellenza, accade che Salani pubblichi proprio ora il romanzo finora inedito in Italia, Il piccolo Troll e la grande pioggia, che è anche il primo che Tove Jansson abbia scritto, e che Iperborea pubblichi il racconto di Haridi, Davidsson, e Heikkilä alle matite, che è di fatto il racconto illustrato del romanzo suddetto, e che, per ovvie ragioni è pensato per lettori più piccoli. 
La terza cosa inaspettata e felicissima è averci pensato e, mi verrebbe da dire, aver osato. Da questa terza cosa scaturiscono tutta una serie di considerazioni più generali. 
La più istintiva, in quanto amante dei Mumin, è valutare che più Mumin ci sono in giro, meglio sarà per l'intera comunità dei lettori. E ancora: prima si entra in contatto con il loro magnifico mondo pieno di gentilezza e pace e armonia meglio sarà per la suddetta comunità. In questo senso, quando si svela l'operazione editoriale che c'è a monte viene proprio da pensare che questi 'alboni' illustrati siano propedeutici ai suoi romanzi. Si comincia a frequentare queste creature fin dalla prima infanzia, ci si affeziona, e poi dopo tre o quattro anni che sono stati lì a sedimentare negli immaginari di ciascuno, li si ritrova in un libro di più di centocinquanta pagine, che racconta per filo e per segno quello che qualcuno ci aveva letto ad alta voce, rannicchiati....(cfr la letterina di Sophia Jansson). Va da sé che anche il romanzo può essere letto ad alta voce, e ascoltato rannicchiati, ma questa è un'altra storia. 
Una ulteriore considerazione che viene da fare riguardo a questi racconti illustrati concerne la loro struttura. In questa loro forma abbreviata, così rispettosa del loro genitore, è possibile cogliere ancora più evidente la capacità di Tove Jansson di costruire, attraverso un continuo gioco di tensione e rilassamento, una piacevolezza e uno spessore emotivo davvero magnifico.


Neanche un briciolo delle caratteristiche proprie dei romanzi dei Mumin qui è andato perduto: c'è lo spirito della scoperta, dell'avventura, c'è il piacere di fare comunità, famiglia, famiglia allargata, c'è il rispetto e la fiducia reciproci, c'è la magia dei luoghi, c'è una natura forte, c'è la dolcezza diffusa e l'accoglienza programmatica nei confronti di chiunque, c'è la gentilezza, c'è il gusto per la libertà sopra ogni vincolo e convenzione; c'è l'ignoto del fuori e la pace delle case, c'è la giusta dose di freddo e di calore. 
 Nulla è rimasto indietro, c'è proprio tutto: anche i calzini asciutti. 
Lunga vita ai Mumin! 

 Carla