Cavalca la tigre, Davide Calì, Guridi
Kite edizioni, 2024
ILLUSTRATI
"C’è un grande campo. Pieno di gente.
A un certo punto una gran voce dice:
Ora scegliete: a piedi o a cavallo?
Alcuni scelgono a piedi. Altri a cavallo.
Solo un tizio sceglie: cavalcare la tigre!"
La cosa che succede dopo è che chi aveva scelto di andare a cavallo viene tritato, con tutto il cavallo. Era la scelta sbagliata. Quelli che avevano preferito andare a piedi si salvano.
La grande voce torna a tuonare su un'altra scelta da fare: tra il giallo e il nero.
Coloro che hanno scelto il giallo si arricchiscono, mentre gli altri restano poveri.
E il tizio che cavalca la tigre è sempre lì che la cavalca.
I bivi di fronte a cui la voce mette i suoi ascoltatori sono sempre più drammatici. Questa volta dal suo schermo scuro tuona la seguente possibilità verso cui propendere: uccidere o essere uccisi.
In entrambi i casi la scelta è al limite della sopportabilità. Ma anche in questo caso bisogna prendere una delle due strade e così accade che chi ha scelto di uccidere ucciderà coloro che hanno scelto di essere uccisi. E per questo un po' si dispiacerà.
A questo punto, quelli che hanno ancora le mani sporche di sangue si interrogano sull'uomo che cavalca la tigre: lui è ancora là.
Come mai?
La percezione di aver detto: accidenti che libro! è ancora molto chiara, a distanza di più di sei mesi dalla prima volta che l'ho letto.
Ha la potenza di una freccia che sibila nell'aria, per un niente, il tempo di leggere il pochissimo testo, e poi si infila nel corpo solido del lettore, chiunque egli sia, e non si toglie più.
Credo che la sua forza stia proprio nella questione che pone e nell'essere privo di ogni orpello superfluo.
Se vuoi fendere l'aria e arrivare devi essere dritto e leggero.
Partiamo dal testo, perché viene da pensare che sia quella la cellula originaria, su cui poi Guridi ha lavorato. Magnifico, come sempre.
Se contate, il testo si dispone su venticinque righe in totale. A contarle, le battute sono meno di mille. Ha la forma e l'impatto di una poesia, anche a guardarla così.
Ci sono pochi aggettivi, lo stretto necessario. Così come sono pochi i colori. Il nero e l'arancio e il giallo, necessariamente. E l'ocra per il tritacarne. Il tritacarne deve essere enorme, la voce deve essere grande, ricchissimi contro poveri... E poco altro.
Eppure è gigantesco...
Un'unica fuga in direzione di un giudizio da parte della voce fuori campo, a proposito dell'uccidere e dell'essere uccisi.
Altrettanto indefiniti, dai contorni incerti, sono i personaggi: un tizio, quello della tigre. E poi da una parte gli uni e dall'altra parte gli altri. Tanta indefinitezza delle parole significa tanto spazio per il lettore e tanto sfumato per le pennellate di Guridi. Nessun primo piano, solo corpi descritti con pochi segni. L'unica precisione, esatta al millimetro, sono le loro posture. Studiate come se fossero coreagrafie di corpi che debbono agire su un palcoscenico. Come se fossero a teatro.
Tavola dopo tavola, scenario dopo scenario, quello che l'occhio coglie è il gesto di quello che il testo dice.
A teatro, almeno in quello che prevede un palcoscenico, la gestualità è tutto. E qui sembra essere lo stesso. Nel teatro a quella distanza è necessario far arrivare il senso di un movimento, attraverso il grande gesto, non esagerato, non parodia di se stesso, ma piuttosto pura amplificazione.
E Guridi non perde occasione di studiarlo in questa prospettiva e di inserirlo nel perimetro della pagina. Le poche e vaghe parole di Calì glielo permettono.
Gli uni e gli altri sembrano davvero usare lo spazio sulla pagina come uno spazio scenico, come ballerini sulle assi di un palco. Che marciano, che si pongono schiena contro schiena, come duellanti. Che escono di scena, piangendo.
E poi c'è la grande voce che Guridi decide abbia quella forma, così allusiva...
E poi c'è sempre il tizio che cavalca la tigre. Lui e lei sono corpi armonici, sebbene diversi per misura e colore; risultano così vicini da essere l'uno l'estensione dell'altra.
Dove finisce la prima comincia il secondo. Uno nero e una arancio.
Più di ogni altra immagine tigre e tizio sono di fatto un unico oggetto scenico e rappresentano, anche nel testo, l'icona di un'unica cosa...
Il senso di tutto il discorso non sarò io a dirvelo.
In tutt'altro contesto, era capitato di notare quanto Davide Calì fosse stato bravo nel tacere, per dare agio a chi disegna si infilarsi nel racconto attraverso l'immagine.
Qui, non solo accade di nuovo, ma addirittura questa materia letteraria è talmente ridotta da diventare spazio puro in cui poter agire.
Uno spazio interpretabile secondo letture diverse, immagini diverse, percorsi interpretativi diversi.
Poi tutto si coagula: tutti i singoli e volanti fili narrativi vengono raccolti in una stretta finale che diventa quella, e nessun'altra. Come in un pugno chiuso, un unico finale.
Non conosco tutto quello che Calì ha scritto, e Guridi disegnato, ma è un fatto che entrambi sappiano essere molte cose diverse, da autori.
Però ci sono alcuni loro libri che sono proprio diversi. Superiori.
Cavalcare la tigre è uno di questi.
Carla
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