venerdì 31 gennaio 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

IL GIOCO DI VISIONE

Tutto è meraviglia, Micha Archer (trad. Loredana Baldinucci) 
Il Castoro 2024 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Il sole è la lampadina del cielo? 
La nebbia è la coperta del fiume? 
Le montagne hanno le ossa? 
Le foreste sono la pelliccia delle montagne?" 

Una grande finestra incornicia i visi di una ragazzina e di un ragazzino - sorellona e fratellino. Davanti a quella vetrata che li separa dal fuori prendono lei ha una grande proposta e lui non può non accettare: andare ad esplorare quel fuori! 
E così, una volta in piena aria, guardando il cielo col sole lei si chiede se quella sfera luminosa non possa essere la lampadina del pianeta. Oppure, passeggiando sulle rive del fiume, vedendo la nebbiolina a pelo d'acqua il fratellino si interroghi se non possa essere quella la copertina del fiume. E davanti alla corona di monti che li circondano viene spontaneo chiedersi se anche loro stiano in piedi perché hanno uno scheletro che le sostiene. E se fosse davvero così non potrebbero essere le foreste, la pelliccia delle montagne stesse? 
Sono quindici domande che quei due si pongono a turno. E lo fanno passeggiando nei dintorni di casa: in un bosco e poi sulla spiaggia. Attraversano quegli spazi aperti e attraversano anche le ore della giornata e quando è l'imbrunire e il sole è appena tramontato all'orizzonte, loro dalla veranda di casa, in pigiama e camicia da notte hanno una ultima domanda per quel giorno...


Il titolo di questo albo orizzontale, Caldecott Honor nel 2022, potrebbe insospettire: se la parola meraviglia arriva fin in copertina... Magari dalla prima pagina fino all'ultima si potrebbe innalzare un inno alla bellezza del mondo, un ripetuto sospirare di fronte "alla meraviglia" della natura: animali, alberi, uccellini. Banalità del genere. Le braccia rivolte al cielo in atto di osanna della sorella parrebbe confermarlo. 
E invece no. 


Quello che succede qui - pagina dopo pagina - è un interessante gioco di visione. 
Spesso i bambini, soprattutto se piccoli, lo fanno con assoluta naturalezza.
Si intuisce fin da subito: per ciascun elemento della natura - dal sole alla luna, passando per fiumi e laghi - ne viene ipotizzata non tanto una funzione diversa da quella che obiettivamente ha (il sole davvero illumina il pianeta e lo scalda, per quanto possa scaldare una lampadina e la nebbia ricopre il pelo dell'acqua mantenendone la temperatura protetta), quanto piuttosto viene assimilato a un oggetto della vita quotidiana di quei due, oppure ben più spesso a una parte del corpo di umani o animali... 
Insomma per ogni elemento naturale se ne coglie la forma, talvolta la funzione e la si ribalta in un immaginario tutto personale, piuttosto corporeo: piedi, ossa, pellicce, gambe, braccia, bocca, vene. 
Però però. La bellezza, e mi verrebbe da azzardare anche la poesia, sta proprio in questo scatto che nella testa accende l'immagine inaspettata. 
Penso ai tronchi d'albero - calzoni di legno con le tane nelle tasche qui uno scoiattolo con una spanna di coda... - nella poesia Se fossi albero dentro E sulle case il cielo di Giusi Quarenghi. Ma se ne potrebbero citare migliaia. 
La poesia fa questo, di mestiere.


Dunque è la prospettiva, il punto di osservazione che i due ragazzini hanno che mi pare interessante e molto condivisibile e che da una parte apre scenari e visioni suggestive e dall'altro offre un metodo di lettura del mondo che si può appunto replicare all'infinito. 
E sarebbe bello farlo con dei ragazzini per vedere l'effetto che produce. 
Ecco. Il metodo, ossia la regola del loro gioco, può moltiplicarsi e da quelle che sono le 15 domande iniziali se ne possono produrre centinaia, migliaia. 
I prati sono i capelli della terra? (ogni tanto vanno tagliati, per dare loro forza...). Tanto per aggiungere la sedicesima. 
Il gioco di vedere una cosa in un'altra sembra guidare anche l'arte di chi questo libro lo ha illustrato, oltre che scritto: Micha Archer. 


Il suo punto di partenza è la carta, che colleziona e conserva e che rilavora ogni volta in modo differente per costruire i suoi magnifici disegni a collage. 
Lei stessa dichiara in un video che è davvero molto raro che usi nelle sue composizioni carte che non abbia rilavorato secondo texture diverse, con pattern ottenuti in modo originale, passando i pastelli a cera sulla retina delle arance, per esempio. 
Questa continua rielaborazione ha lo scopo di arrivare a dare la necessaria profondità e l'illusione di un volume (che sul foglio non esiste) ai suoi magnifici paesaggi. Nel suo studio, come accadeva anche in quello di Eric Carle inarrivabile costruttore di immagini a collage, stazionano enormi cassettiere dove, colore per colore, Micha Archer conserva migliaia di pezzettini di carta, tutti diversi: timbrati, dipinti, con mille pattern differenti. E lungo una barra magnetica in alto, sono 'incollate' almeno una ventina di forbici. Per non parlare dei tantissimi timbri. Anche quelli self made, naturalmente. 
Nella sua testa, nei suoi paesaggi disegnati, in quei cassetti pieni di carte, nel suo studio invaso dai tubetti di acrilico e dalle chine di ogni sfumatura, dalle centinaia di pennelli sparsi, lì dentro - facile pensarlo - è tutto meraviglia, davvero! 

Carla

mercoledì 29 gennaio 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

MUOVERSI LUNGO GLI ASSI CARTESIANI


“La nonna abita molto lontano. La campagna è quasi in capo al mondo. 
Quando ci si sposta da un punto all'altro del mondo, si fa un viaggio” 

Una bambina viene accompagnata dalla madre a prendere il treno. Il lungo viaggio che segue la porterà a casa della nonna. 
Una storia tanto semplice quanto può essere tracciare una linea da un punto di partenza a uno di arrivo, quella stessa linea che in effetti percorre interamente le pagine del libro, sempre da destra a sinistra, sempre a segnare il percorso sulle rotaie, compiuto da un treno a bordo del quale l'unico viso che compare è quello della piccola protagonista. 


Lo spazio e il tempo sono gli assi cartesiani che definiscono il procedere in generale di un'intera esistenza e sono ovviamente la cornice entro la quale si sviluppa anche questo come tutti i racconti. Eppure in questo caso la loro importanza risulta maggiore, tanto che questo albo può essere di fatto considerato una riflessione più ampia di come lo spazio e il tempo possano essere percepiti e vissuti, a seconda dell'età e della situazione contingente attraversata. 
Il formato orizzontale (cm 31 x 18,6) di questo libro è inusuale, viene normalmente scelto nel caso in cui possa fornire un importante supporto alla “narrazione” (esempi celebri sono L'onda e Ombra di Suzy Lee) e in questo caso lo fa sicuramente. La storia si sviluppa lungo il tempo di un percorco ferroviario, al centro della pagina è sempre lo stesso convoglio dalla forma allungata che conferisce all'immagine il senso di uno spostamento veloce, percepito in virtù di un ordine di lettura che va da sinistra a destra e che spinge il lettore a cercare velocemente il seguito nella pagina successiva. 
Viene quasi naturale immaginare le pagine aperte e continue, come in un leporello, che mostri l'intero viaggio dalla bambina, lungo tutti i paesaggi attraversati. La linea dei binari attraversa la pagina sempre in senso orizzontale, perché il punto di vista del lettore è ortogonale alla linea di orizzonte, per cui del treno e dei binari noi abbiamo sempre presente un profilo, mai che ci sia un cambio di prospettiva che consenta per esempio di percepire una curva o lo stesso volume del treno. 
Verrebbe da dire, con linguaggio in uso negli audiovisivi, una sorta di piano sequenza con camera fissa, sempre alla stessa altezza e che si muove proprio alla stessa velocità del mezzo ripreso. Non perdiamo mai di vista il soggetto, mai la sua collocazione precisa e centrale rispetto al contesto, mai ci sfugge il viso della piccola bambina. 


Si parte dai panorami cittadini, affollati, ma nella loro restituzione grafica mai caotici, per passare progressivamente a scenari sempre più distesi. Le tappe sono ben scandite e tracciano con meticolosità i luoghi che solitamente si incontrano nei grandi agglomerati urbani: centro scintillante di vetrine e insegne, periferie man mano meno variegate, ma che nel disegno conservano una nota di ironia sottile (e persino i grandi raccordi autostradali finiscono per assumere l'aspetto di divertenti e tutt'altro che alienanti labirinti).  


Nei luoghi sempre più lontani dal centro ecco che la natura ricompare e la storia scivola in scenari fantastici e il viaggio che la bambina compie non è soltanto verso la casa della nonna, perché per arrivarci deve attraversare dei mondi e incontrare delle creature fantastiche (castelli in bilico su dirupi improbabili, torri di difficile se non impossibile accesso, animali di natura indefinita). 


Germano Zullo e Albertine hanno all'attivo moltissimi libri, di lei abbiamo imparato a riconoscere immediatamente il segno morbido e mai spigoloso, come le qualità pittoriche e cromatiche.
In questa storia invece la scelta va a favore di un grafismo pulito e di una bicromia quasi assoluta (nessun colore a eccezione di quei pochi del treno!). Le illustrazioni sono solo disegnate, la linea non è quindi solo quella che definisce e distingue un convoglio da un altro, ma è in questo albo realmente la protagonista, unica, leggera ed elastica, e definisce un movimento (un tempo) e uno spazio che non ha volume. L'impalpabile consistenza di ogni luogo attraversato da una linea che separa il sopra e il sotto ma che non definisce profondità alcuna permette all'autore di svuotare di concretezza effettiva quei luoghi e di trasformarli in sentieri lungo i quali il pensiero si snoda come il filo di un gomitolo. Un pensiero che, neanche a dirlo, si concentra sul tempo e sullo spazio! Lo sguardo fisso in avanti, totalmente aliena a quello che la circonda, nel suo monologo la protagonista riflette sulla distanza che la separa dalla casa della nonna (che insieme alla propria sono i posti che conosce meglio) e sulle distanze assai maggiori che ha voglia di percorrere durante la sua vita. La sua mente vola lontano, lontanissimo, e con l'audacia incosciente dell'infanzia arriva a includere l'ovunque, il qui e là di luogo esistente. A nulla vale la precisazione degli adulti (“Ma la mamma e la nonna dicono che è impossibile viaggiare ovunque”), perché quello del desiderio è il motore più forte e ora, ora che si è bambini, è l'unico che conta, al di là di qualsiasi ragionevole contestazione. 
D'altro canto se arrivare a casa della nonna significa arrivare in capo al mondo e lei riesce a farlo tranquillamente da sola, cosa può esserci di così strano e impossibile da realizzare nel visitare tutto il mondo?
Che lo spazio e il tempo siano valori relativi e non assoluti l'abbiamo ampiamente appreso, concedere all'infanzia il diritto di esprimerlo può aiutarci a ricordarlo. 
Quella della bambina è una riflessione alternata alle risposte della madre e della nonna. Come in un preciso contrappunto, a ogni pensiero connotato come infantile (nel senso dell'infanzia) corrisponde uno opposto e contrario maturato da un adulto. Ma la libertà della bambina è tutta nell'ammettere l'incomprensione di certe affermazioni, che le giungono come moniti, e l'ambizione di mantenere qualcosa di questo presente che si vorrebbe estendere all'infinito, fino a includere un'intera esistenza, che riesca a conservare il ritmo dell'infanzia come privilegio assoluto. Solo in questo modo la bambina potrebbe arrivare a destinazione nello spazio (dalla nonna e nell'ovunque) e nel tempo (l'età adulta) e riaffermare la propria verità: “Vedete! Vedete che è possibile!” E così anche lei, come la ben nota Cappuccetto rosso, compie un viaggio verso la casa della nonna. 
Qui siamo in Giappone, le distanze sono maggiori, i mezzi notevolmente più potenti. Ma anche qui, come in ogni viaggio che si rispetti, si assiste a una evoluzione, anche qui come nella famosa fiaba, la protagonista vive le tappe della propria crescita in una relazione inevitabilmente stretta con il mandato del mondo adulto in qualche modo disatteso. 

Teodosia

"Linea 135", Germano Zullo e Albertine. (Trad. di Francesca Novajra), Il gatto verde edizioni 2024 
 

lunedì 27 gennaio 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LIBRI NECESSARI 

Novella degli scacchi, Stefan Zweig, David Álvarez (trad. Valentina Vignoli) 
#Logosedizioni 2025 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER GRANDI (dai 12 anni) 

"Già McConnor sfiorava il pedone per portarlo sull'ultima casa quando all'improvviso si sentì afferrare per un braccio e qualcuno gli sussurrò, sottovoce ma risoluto: 
'Per l'amor di Dio! No!' 
Ci girammo tutti di scatto. Un signore sui quarantacinque anni, il cui viso sottile e affilato mi aveva colpito sul ponte di passeggiata per lo straordinario pallore quasi marmoreo, doveva essersi avvicinato negli ultimi minuti, mentre eravamo assorti nel nostro problema."  

Un piroscafo diretto a Buenos Aires. 
Una scacchiera nella smoking room
Una voce che racconta e che appartiene a uno di quegli scacchisti che del gioco amano il gioco e non altro. Giocare a scacchi per giocare... Lui è un emigrante austriaco, diretto a Buenos Aires. Spetta a lui raccontare che tra i passeggeri c'è Mirko Czentovič, il campione mondiale di scacchi. 

©Stefan Zweig, David Álvarez 
La novella degli scacchi

Un uomo taciturno, scostante, corpulento. Semianalfabeta, fin da bambino ha dimostrato di avere un talento innato per il gioco degli scacchi. Figlio di un battelliere, presto orfano, viene accolto dal parroco del paese, ma fin da subito dimostra di essere assolutamente restio a qualsiasi tipo di apprendimento, la sua è un'ignoranza abissale, ma per gli scacchi invece ha fin da subito una capacità del tutto eccezionale di apprendere. E così apprende e gioca e vince. Comincia il suo percorso di riscatto nei confronti della società che lo aveva sempre tenuto ai margini. Ora sta andando a Buenos Aires per vincere l'ennesimo torneo internazionale. 
Sullo stesso piroscafo sta navigando anche un ricco signore, un petroliere di origini scozzesi, emigrato in America dove ha fatto fortuna, Mr. McConnor. Un uomo massiccio e molto colorito in volto, dai modi spicci, impulsivo e con una innata incapacità ad accettare la sconfitta, di qualsiasi genere. Anche lui amante degli scacchi, ma decisamente senza talento. Ed è con lui che il narratore ha iniziato a giocare per poi attirare a sé l'attenzione del campione e sfidarlo: due o più scacchisti amatoriali contro il silenzioso campione. 

©Stefan Zweig, David Álvarez 
La novella degli scacchi

Ma su quel piroscafo c'è anche un terzo uomo, l'esatto opposto di Mr. McConnor e di Mirko Czentovič: il dottor B. Un uomo schivo, dal profilo affilato, coltissimo, con un approccio agli scacchi decisamente meno spavaldo di quello dell'americano, ma decisamente molto, ma molto più bravo nel gioco... 
Questa è la storia, presente e passata, di questi tre uomini intorno a quell'unica scacchiera... 

Partiamo dal contenitore: la collana La capsula del tempo è un involucro, come dice il nome stesso, atto a contenere oggetti che si vorrebbe attraversassero il tempo. 
A giudicare dagli altri titoli presenti, direi che siamo di fronte a una scelta editoriale impegnativa:
pubblicare racconti lunghi per lettori già avanti, direi lettori forti, anche classici della letteratura, corredandoli di illustrazioni altrettanto impegnative. 
Il gusto di una letteratura e di un'arte di grande qualità, per incuriosire i palati di giovani lettori. Sfidante.
Nella collana ci sono due racconti di Jack London, La forza dei forti e La peste scarlatta, che hanno meritato il meglio per quel che riguarda la traduzione e l'illustrazione: Davide Sapienza e Roger Olmos. In arrivo un racconto di Rafael Pinedo: Plop che parrebbe condividere lo scenario postapocalittico del quarto titolo in catalogo: Kosmos di Matteo Meschiari. Entrambi illustrati da Roger Olmos. 
Tutte storie, alcune arrivano dal passato, che parlano all'oggi perché vivano anche nel domani. 
Adesso, la più recente in ordine di arrivo, una novella di Stefan Zweig, per l'esattezza la sua ultima novella, scritta tra 1941 e il 1942 a Buenos Aires, tappa finale del suo percorso di fuga dal nazismo. Conclusa poco prima del suo suicidio e quindi immediatamente intesa come suo testamento letterario. 
Difficile non pensarlo, leggendola. 
Difficile non convenire sul fatto che nella capsula del tempo un racconto del genere sia necessario. 
Le ragioni che me lo fanno dire. 
La prima, ovvia: è un racconto bellissimo e perfetto. 
La seconda: ha una lunghezza bellissima e perfetta. 
La terza: tocca questioni universali. 
Attraversa ed esplora, per tutta la prima parte, il complicato meccanismo di pensiero che si nasconde dietro ogni sfida. 
Gli scacchi sono un pretesto per indagare come funzioni la mente umana nel momento in cui essa decida di affrontare un avversario. 
E non è un caso che Zweig fosse un grande amico di Freud... 
Bella questione da mettere in mano a dei ragazzi. 
Bella questione da infilare nella capsula del tempo.
Ma c'è di più. Se da un lato l'argomento sono i meccanismi di rivalsa tra i personaggi, dall'altro è anche un avvincente racconto sul susseguirsi di strategie nel gioco. E per questa ragione restiamo attaccati alla pagina con lo stesso interesse e la stessa tensione che proveremmo assistendo dal vivo a una gara appassionante. 

©Stefan Zweig, David Álvarez 
La novella degli scacchi

Nella seconda parte, con l'entrata in scena del Dottor B., la questione che Zweig mette sulla pagina continua a riguardare la mente. E il suo doppio. Il suo Bianco e il suo Nero. Vediamo, leggendo, quali possano essere gli esiti che l'isolamento di un uomo produce. Riusciamo a toccare con mano la porta verso la follia.
Il racconto è quello di una delle tante e perverse pratiche di annientamento della persona umana, messe in atto dalla Gestapo nei confronti dei 'prigionieri', quelli considerati di serie A. 
Accanto all'isolamento in una delle famigerate camere del Metropole Hotel, dove il Dottor B. racconta di aver trascorso mesi e mesi, Zweig offre al lettore anche un preciso resoconto di un agghiacciante fatto storico.
 
©Stefan Zweig, David Álvarez 
La novella degli scacchi

Di stringente attualità e quindi monito da non lasciare inascoltato. 
Bella questione da mettere in mano a dei ragazzi. 
Bella questione da infilare nella capsula del tempo.
La quarta: il punto di vista. Lo sguardo di Zweig istintivamente rivolto verso i perdenti. Per loro la felicità si rivela sempre come qualcosa di irraggiungibile. 
Lui stesso ha dichiarato: "Nelle mie novelle è sempre la persona soggetta al destino ad attrarmi..." 
La quinta: il racconto visuale della drammaticità di questo piccolo gioiello letterario. 
Una voluta indefinitezza della grafite che rende struggenti nella loro solitudine e malinconia tutti personaggi di Zweig: queste sono le figure di David Álvarez. 
Solo una prua enorme di piroscafo, che apre la novella e che punta dritto verso lo sguardo del lettore. 

©Stefan Zweig, David Álvarez 
La novella degli scacchi

Poi, solo persone: di fronte, di schiena, di profilo, isolati o a piccoli gruppi, mai vittoriosi, con le spalle basse, gli sguardi solo di rado visibili, ma ciò nonostante fortemente espressivi nelle loro posture. 
Spesso ritratti in modo che possano essere considerati simboli della loro condizione. 
Gioca con questo su piccoli dettagli, sulle dimensioni dei pochi oggetti e sulla espressività del corpo, sul taglio della prospettiva, sulle dimensioni di singoli disegni. Un lavoro di interpretazione del testo davvero maturo. 
Risultato eccellente e quindi necessario infilarlo nella capsula per salvarlo. 

Carla

venerdì 24 gennaio 2025

UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)

IL CORAGGIO DELL'EDITRICE

In qualche modo, almeno visivamente, sono tanto distanti tra loro. 
Eppure. 

Da una parte c'è Ardore di Hye Won Kim: nero come la pece. Sulle sue pagine, dove una donna si muove, dalla prima pagina fino alla penultima brucia un fuoco vivo. 
Cambia in continuazione, si trasforma, come fa il fuoco, si ingigantisce, si divide in mille piste diverse, si fa portare dal vento, ringhia, ma non perde mai di luminosità. La donna lo insegue, lo acchiappa, sembra giocarci, lo stringe, lo tira a sé...
 

Dall'altra parte c'è Piccola lei di Sophie Caironi. Azzurro e rosa come un bel cielo al tramonto. Anche qui c'è una donna che vaga attraverso le pagine cercando qualcosa che ha perduto: cammina tra le montagne, si fa piccola in un bosco, leggera in aria, e poi giù sul sentiero ci appoggia i piedi. Persino nel mare dove nuota tra i coralli giganti in confronto a lei che è minuscola... 
Le cose che tengono insieme questi due libri. 
La prima, ad evidenza, è l'editrice che pubblica entrambe.
La seconda, in qualche modo dalla prima deriva: ossia la scelta coraggiosa di un'editrice di dedicare, a un pubblico che già da tempo è lì che legge, un oggetto - un albo illustrato - che di norma è concepito e pensato invece per primissimi lettori. 
Su questo ci sarebbe molto da dire perché sono davvero pochi gli editori che scommettono sull'opportunità di non sottrarre le immagini a tutti coloro che hanno già dimestichezza con la lettura, anche quella complessa, ma non per questo vogliono vedere l'illustrazione uscire dal loro orizzonte visivo... sacrificata sull'altare della parola scritta. 


Il coraggio di questi editori sta nel volersi opporre all'idea che le figure sono roba solo da bambini, o alle lamentele dei librai più convenzionali che non si saprebbero dove collocare con facilità e immediatezza libri del genere. E ancora contro quei genitori che puntano i piedi di fronte ai libri senza parole, a quelle mamma, papà ecc ecc che dicono no grazie ai libri con 'troppe' figure: "mio figlio sa già leggere... e vorrei qualcosa che lo tenesse occupato e in esercizio per più di cinque minuti..." Ah! 


Ecco a tutto questo rimediano quegli editori, qui un'editrice, che pubblicano libri come Ardore e Piccola lei, insieme a tanti altri. 
La terza ragione è di tipo strutturale. 
Entrambi gli albi si costruiscono, pagina dopo pagina, intorno a un mistero, che poi si svela immancabilmente nella penultima pagina. Il fiato si ferma per la sorpresa. Ed entrambi terminano nell'ultima, con il respiro che riprende. E questa è una delle tante opportunità che l'albo illustrato offre, proprio come oggetto fisico, ai suoi autori e autrici. C'è chi la sa utilizzare e chi invece arriva alla fine senza far sobbalzare nessuno. 
Ricordo con molta chiarezza che David Wiesner, da gigante dell'albo qual è, teorizzava la grande importanza che aveva per lui l'ultima pagina del libro: sempre tavola singola a sinistra, che arriva immancabilmente dopo un finale raccontato nella doppia pagina precedente, che ridecolla verso una prospettiva narrativa ancora ulteriore: una sorta di amo tirato verso il futuro.
 

La quarta ragione è invece tutta mia, o meglio è il frutto di un senso generale che mi pare di vedere in entrambe le storie e che io declino secondo il mio personale sentimento. Che poi sia un abbaglio poco importa, perché chi concepisce libri del genere non deve avere mai una unica lettura in tasca. Almeno spero. 
Tanto in Ardore, quanto in Piccola lei, le due protagoniste sono donne. 
Ed entrambe stanno inseguendo qualcosa. Questo 'qualcosa' è piccolo. 
Nel primo libro dietro il fuoco vivo c'è una ricerca, c'è l'impegno, la fatica di stare dietro alla vivacità: tutte cose che bruciano energie, le energie di una giovane donna. La vediamo spesso accucciata, piegata, con le braccia protese. La vediamo anche dormire a terra, tra mille giocattoli, dopo aver riempito due stendipanni, pieni di bucato...


Ebbene, nel primo libro tutto si svela nell'incontro, in un abbraccio magnifico e finale, di questa donna. Nel secondo libro, dietro quell'intricato intreccio di foglie, dietro le montagne, dietro gli sbuffi del vento, dietro i coralli e le attinie c'è di nuovo una donna in cerca. 
Qui le poche parole - che di là mancano del tutto - alludono al suo peregrinare in cerca di una direzione da prendere per poter arrivare a trovare ciò che cerca. 
Anche in Piccola lei c'è un incontro finale, nessun abbraccio ma un guardarsi negli occhi e riconoscersi. 
Se in Ardore l'incontro assume contorni chiari, seppure inaspettati e sorprendenti a posteriori, in Piccola lei l'incontro lascia molte piste aperte: la mia sta tutta in quelle orecchie. 
Grandi, piuttosto grandi e ritte, piuttosto ritte. 
 E non potrei, anche sforzandomi, trovarne una diversa. E' mia e di nessun altro.

Carla 

"Ardore", Hye Won Kim, Kite edizioni 2023 
"Piccola Lei", Sophie Caironi trad. Laura Costa, Kite edizioni 2024

mercoledì 22 gennaio 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

FANTASMI IN REGIA 


La scena del delitto è già in copertina eppure entriamo in questa storia da un’altra porta. 
Più o meno un’ora prima. 
Eliott è un ragazzo stravaccato sul divano. È immerso in una sfida al videogioco quando la madre lo chiama perché si occupi della sorella che vorrebbe uscire. Lui fa poche storie: ama la piccola Thaïs, quattro anni di irresistibile simpatia e ok, la porterà al parco. Una scena talmente insolita tra fratelli di quell’età che la madre stessa si compiace di cotanta intesa. Lo ringrazia e li guarda uscire sorridendo: al loro ritorno saranno pronti i cookies appena sfornati, promesso. Segue la scena del parco, l’armonia tra fratellone e sorellina risuona con la natura tutt’intorno eppure già una impercettibile tensione si fa strada in chi legge: prima lei si arrampica allegramente su un muretto…attenzione che non cada! Non cade. Poi qualche strana intermittenza nei lampioni. Comunque nessuna conseguenza e allora via verso l’altalena. Ancora una mezz’oretta spensierata e si può tornare a casa dove, contro il profumo dei biscotti ancora in forno si infrange questa incantevole serenità. Fin qui il Prologo. 
Il racconto procederà come se a ogni capitolo successivo si entri nella storia da una porta diversa, anzi da una voce diversa: per quanto narrato rigorosamente in terza persona, in ogni capitolo partecipiamo alle vicende attraverso la soggettività di uno degli attori. 
Due i principali: Eliott, che ha appena perso la madre che dicono suicida e Lilas sua coetanea che cerca di convivere con i numerosi episodi di allucinazione che la accompagnano da sempre. 
Saranno loro due i protagonisti di questo racconto che si traveste di “giallo” ma che in realtà racconta di fantasmi, fantasmi in senso stretto e in senso figurato. 
Del resto il titolo originale è proprio Les mots fantomes, Parole fantasma. 
Della trama cercherò di dire ben poco restituendo quello stato di spaesamento che effettivamente accompagna il lettore di questa “Doppia indagine per morte sospetta”. Interessante però è soffermarsi sui fantasmi e sulle loro parole, parole mute, che i vivi non possono sentire ma che pure riescono a tessere il filo dell’indagine in cui sono impegnati i due ragazzi: quella di Eliott che pieno di risentimento non crede al suicidio della madre e vuole dimostrarlo; quella di Lilas che mentre cerca di “guarire” dalle sue allucinazioni si imbatte in un terribile segreto di famiglia. Entrambi sono determinati a stanare la verità e guardarla negli occhi. 
I due si incontrano nel Centro di Psichiatria infantile, che in effetti è il posto dove a volte ci si ritrova quando si ha un conto in sospeso con i propri fantasmi, e lì succederà che le loro indagini si intrecceranno. Complice qualche fantasma di gente morta con un urgente bisogno di comunicare con i vivi. Solo grazie a loro, veri registi della trama, tutti arriveremo a conoscere la verità. 
"Lilas ha improvvisamente l'impressione di non essere sola. L'adrenalina le scorre nelle vene. Scruta ogni angolo della stanza, cercando di squarciare l'oscurità socchiudendo gli occhi. Un maglione steso sulla sedia della scrivania, un cappotto appeso al muro, una borsa mal conservata. Ogni forma indecisa fa sorgere dubbi e accentua la sensazione di essere osservata. Lilas è così fredda che quasi trema. Il suo sguardo cade nell'angolo della stanza. Si staglia un'ombra. Nella strada, si sente il rumore di un motore mentre l'auto passa davanti alla casa, l'alone dei fari che illumina l'angolo da cui Lilas non distoglie lo sguardo. 
Lei è lì. 
Nella sua stanza." 
Dunque c’è brivido come in un horror (ma non troppo), c’è investigazione come in un giallo, c’è mistero come un racconto fantastico, ci sono le difficoltà di infanzie dolenti come in un racconto di attualità. 
David Moitet ci porta su un confine interessante che prova a farci attraversare in più punti: tra i vivi e i morti, tra realtà e allucinazione, tra disagio e salute mentale, tra verità e quieto vivere mostrando come, nel bene o nel male, questo confine sia molto più poroso di quanto adulti e istituzioni siano disposti ad accettare. Allora forse è meglio trovare il modo di ascoltare le voci fantasma prima che diventino del tutto incomprensibili. 
Un romanzo ben costruito, forse verso la fine la comitiva di fantasmi è un tantino troppo affollata ma tant’è, la storia ha retto bene fin lì. In ogni caso, tutti i pezzi del racconto, tutte le voci in campo vanno a ricomporsi, ma solo a patto di credere che quel confine possa essere attraversato. 
Una bella storia per lettori e lettrici adolescenti, dai 12 anni in su. 

Patrizia 

“Doppia indagine per morte sospetta”, David Moitet trad. Elena Riva, 
Pelledoca 2024

lunedì 20 gennaio 2025

FAMMI UNA DOMANDA!

IL GIGANTE TREMULO


"Mi chiamo Pando perché mi spando, 
se c’è spazio me lo prendo. 
Mi piace stare bello largo, mi allungo, 
stendo le gambe e i piedi e le dita dei piedi. 
Finché poi un piede esce dalla coperta. 
Ho sempre un sacco di piedi fuori dalla coperta." 

Il fatto di avere spesso i piedi fuori dalla coperta fa sì che qualcuno di passaggio li rosicchi. Un cervo mulo, per esempio. Fortunatamente un tempo c'erano i lupi che li tenevano lontani da piedi di Pando. Ma adesso i lupi lì non ci sono più... 


Pando è nato piccolino, come tutti.. Mingherlino, addirittura. Ma già a un anno di distanza è raddoppiato di misura. E poi il triplo e poi ancora e ancora... Fino a diventare un gigante. Ma Pando non è solo enorme è anche vecchissimo: ha millemila anni e ci vorrebbe un mese a contare tutte le candeline da accendere per il suo compleanno. Pando pur avendo moltissime gambe, non va mai da nessuna parte: è pigro. O meglio muoversi non è nel suo DNA.
 

Dal posto dove è nato non si è mai mosso e, nonostante il fatto che sia grandissimo sembra difficile vederlo per quel che è. 
Lui, però, al contrario vede te, perché ha un sacco di 'occhi'. Il suo mantello, se così lo vogliamo chiamare, ha tre colori principali. Verde, giallo e rosso, colori che si avvicendano con lo scorrere delle stagioni. La bellezza di questo variopinto mantello è che non sta mai fermo, vibra con l'aria che ci passa in mezzo. 
Pando è bello anche e soprattutto perché, come tante altre creature, forse tutte, bambini compresi, mostra di sé una parte visibile, ma ne ha un'altra che sta nascosta. Ma Pando a cui piace espandersi va in molte direzioni: di sopra e di sotto, di qua e di là. 
E nel suo grande groviglio, quello sotto, qualcuno è stato più bravo e curioso di altri ed è riuscito a trovare l'origine, il seme - unico e piccolissimo - da cui Pando è nato. 
Come molte creature, anche Pando è nato da un seme... 
Pando non è un millantatore e questo nome, che in latino corrisponde alla prima persona singolare del verbo pandere che, nella sua forma riflessiva significa sboccio, mi espando (qualcosa del tipo, mi allargo), se l'è guadagnato sul 'terreno': è davvero l'albero più grande al mondo. Talmente grande che la sua superficie corrisponde a circa una quarantina di ettari, una sessantina di campi da calcio e non è solo il più grande è anche il più vecchio, 80'000 anni dovrebbero avere le sue radici. 
Si tratta di un pioppo tremulo, infatti in America dove si trova (nello Utah) lo chiamano anche Trembling Giant. 
Il pioppo tremulo ha questa caratteristica: cresce, ossia si moltiplica, per polloni, ossia per mettere su famiglia di norma non spedisce semi in giro, ma fa figliolini facendo spuntare dal suo enorme apparato radicale nuovi piccoli steli, polloni, che poi diventano esili tronchi e poi tronchetti robusti e via a crescere se non glieli mangiano i cervi. 


Se gli steli sopravvivono ai loro dentini, il tronco si irrobustisce e la corteccia cresce bella chiara, interrotta solo da grandi occhi che non sono altro che le cicatrici dei rami caduti. Ogni singolo tronco dura al massimo duecento anni, ma sono le radici che sopravvivono e che hanno gli strumenti per generarne uno nuovo... 
Questa storia, tanto vera quanto avvincente, di un unico albero che ha le sembianze di un intero bosco di cinquantamila tronchi è diventata un libro, che Giorgia Conversi ha scritto e Andrea Rivola ha illustrato. Come è successo per questo pioppo tremulo americano, anche per la genesi di questa storia tutto è nato da un semino: una chiacchiera con una sua collega che le ha raccontato la storia di Pando. Per Giorgia Conversi diventa irresistibile e così decide di scriverla. 
Ma come lo fa? Lasciando all'oscuro i propri lettori fino alla fine. Un po' come le radici di Pando che lavorano sotto terra, lei con Andrea Rivola progettano un grande indovinello, pagina dopo pagina che trova la sua soluzione solo nella pagina finale quando del grande pioppo fatto di pioppi si vedono anche le radici. 
Il lavoro di scambio tra le idee e le suggestioni di Conversi e Rivola fa il resto. 
Di Pando la Conversi estrapola un pugnetto di informazioni fondamentali che possono essere comprensibili e interessanti per i bambini, anche piccoli, e le mette in fila, legando ciascuna a uno degli animali che intorno al pioppo gironzolano per ragioni diverse: il cervo mulo e le alci che ne sbocconcellano i polloni nuovi, l'orso nero, con i lupi e i puma, li tenevano a distanza, il bruco delle tende che ama nutrirsi delle foglie e che rappresenta una vera calamità per il gigante tremulo. 


Con Andrea Rivola trovano una lingua comune e così lui, come lei, animale dopo animale, di fatto racconta e illustra un unico soggetto, guardandolo e rappresentandolo da angolazioni sempre diverse. Pando, così come è nella realtà, compare solo alla fine del libro. Per non svelare il suo mistero e costruire la sorpresa. 


Bella idea e, naturalmente, bella storia! 

Carla

"Pando. Una storia vera", Giorgia Conversi, Andrea Rivola, Aboca Kids 2024 

domenica 19 gennaio 2025

ECCEZION FATTA!

IL CALEPINO E LA GELATINA DI LIMONI

Ho sempre pensato a questo blog come a un calepino su cui scrivere pensieri e riflessioni sui libri perché non vadano dimenticati, persi per me. Nè i libri né i pensieri.
E ho anche sempre pensato, immodestamente, che detto calepino potesse essere utile anche ad altri. 
In questa sua funzione strumentale di memoria personale e collettiva entra anche la parte dedicata alle ricette.


Le scrivo qui per non dimenticarmene e le scrivo anche perché gli altri se ne possano servire all'occorrenza.
Ecco. Ora l'occorrenza è arrivata e ha le sembianze di Germana che da settimane mi tartassa con la velata e non velata richiesta di fare marmellata di limoni come se non ci fosse domani. 
Effettivamente, allo stato attuale, i limoni in circolazione sono moltissimi - grande annata per gli agrumi - e il loro numero è inversamente proporzionale al tempo e al mio tener gana di mettermi lì a fare marmellate per la comunità.
Ne ho fatto tre barattoli, per me e me sola, ma metto qui la ricetta. 
Perché sono egoista, ma non così tanto...


Quindi l'ho fatto per me, per Germana e per chi volesse servirsene.
La fonte è sempre la stessa che uso per le marmellate: un librone in tedesco - Die Marmeladenbibel - della signora alsaziana che è diventata famosa nel mondo per le sue gustosissime e fantasiosissime marmellate, composte ecc. ecc., Christine Ferber.
Questa è la ricetta per fare il gel di limoni che, come è consueto nelle ricette della signora alsaziana, ha bisogno di 2 giorni per essere portata a termine.

Ingredienti
750 gr di mele granny Smith
1,3 k di limoni non trattati
2 limoni non trattati
1 k di zucchero
800 ml + 400 ml di acqua
1 presa di sale

I giorno
Togliete il torsolo dalle mele e senza sbucciarle, tagliatele a spicchi sottili e fatele cuocere a fuoco basso in 800 ml di acqua per almeno mezz'ora.
Quando sono ormai in poltiglia, passatele in un colino a rete e pressatele con un cucchiaio di legno per ottenerne almeno 500 ml di succo che deve riposare una notte. Sul fondo del contenitore si depositerà la parte più pesante e in superficie il liquido meno denso. Giusto così.
Spremete il chilo e 300 gr di limoni e mettete da parte il succo e tutti i semini che poi avvolgerete in una garza per cuocerli insieme al resto.
Sbucciate con il pelapatate i due altri limoni e mettete a cuocere con una presa di sale le bucce in 400 ml di acqua, finché non diventano morbide. Quindi, senza scottarvi le dita, tagliate a fettine sottilissime.


II giorno
In una pentola con un buon fondo mettete il succo di limone, quello di mela, evitando di versare il fondo del barattolo più melmoso, buttateci dentro anche il fagottino di garza contenente i semi, aggiungete il chilo di zucchero, le bucce dei limoni fatte a striscioline, mescolate e poi mettete sul fuoco. Portate a ebollizione, avendo cura di schiumare ogni tanto la superficie. Fate cuocere per un quarto d'ora al massimo poi versate il tutto nei vostri bei barattolini. Fino all'orlo. Chiudeteli per bene capovolgeteli in modo che si faccia il sottovuoto. Teneteli vicini vicini e tutti avvolti da una coperta calda in modo che il loro urente calore si disperda il più lentamente possibile.



Finito!

Carla


venerdì 17 gennaio 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

BRILLANTE COME UNA STELLA

Stella, Gerda Dendooven (trad. Olga Amagliani) 
Camelozampa 2024 


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 7 anni) 

"Ogni mattina l'uomo pescava una rete piena di pesci che il pomeriggio la donna vendeva al mercato. Da anni andava così. 
Ma una rosata giornata d'estate l'uomo trovò nelle sue reti qualcosa di strano. Era più grande di un grande pesce e per di più aveva molti capelli. 
'Moglie' chiamò l'uomo, 'vieni subito, vieni a vedere! 
Qua. là. Guarda.' 
La donna scrutò l'acqua. 
 'Santo cielo' esclamò. 'Che cos'è? Tutto così rosa. E quanti capelli! È davvero un pesce?'" 

Moglie e marito, con fare circospetto, mantenendosi a distanza, addirittura con un bastone in mano per difendersi in caso di pericolo, issano a bordo della loro barchetta Gran Fortuna quella strana creatura. Con loro c'è il cane di sempre, Bruno che scodinzola nell'annusarla: la sua coda sembra dire buo-no buo-no. È enorme, ma dalle alghe che l'avvolgono esce un piedino e poi una manina con i suoi bei ditini...
Non è un pesce, ma un bambino, anzi per la precisione una bambina. Una bambina viva con un sacco di capelli. Che sia caduta da una barca o che qualcuno l'abbia volontariamente gettata in mare? Nessuno lo sa.


L'unica cosa giusta da fare è tenerla con sé. Così carina, la naufraghina, che però di lì a poco apre i suoi grandi occhi e comincia a frignare come una sirena. Fame? A giudicare da come butta giù tutti i pesci pescati, si direbbe proprio di sì. 
Approdati a riva, nessuno degli interpellati lamenta la scomparsa di una bambina e nessuno la reclama per sé. 


Così a moglie marito non resta altro da fare: tenerla come una figlia arrivata dal mare e darle un nome, anzi un bel nome: Stella maris. 
Questa è la sua storia di bambina che arriva da chissadove, che prima è piccola, poi grande e poi anche enorme. Tanto grande da non avere più neanche un letto e neanche un tetto adatto e sufficiente per coprirla. 
Tanto grande da spingerla a partire per il mondo a cercare un posto che faccia proprio per lei. 

Ci sono storie che sono proprio diverse dalla media. 
Si alzano sulla superficie dell'editoria e brillano per lucentezza. 
Stella, ironia del titolo, è una di queste. 
Scritta nel 2016, vince in patria premi importanti, diventa anche uno spettacolo teatrale (Gerda Dendooven è tanto scrittrice, quanto illustratrice, quanto donna di teatro. Quindi ci sta.) 
Siccome il mare è grande ci mette otto anni ad arrivare sulle nostre coste, ma arriva. 
Le cose belle che questo libro dimostra di avere sono tre, e non sono da poco. 
E' proprio una bella storia: bello è ciò che racconta, bello è come lo racconta e bello è come la illustra. 
Comprensibile dai piccoli, riconoscibile dai grandi e maledettamente chiara per tutti, universale. 


Con ordine. La storia in sé attraversa questioni così profonde che la fanno assomigliare a una fiaba, ma nello stesso tempo la rendono di stringente attualità. Un po' come a dire che della contemporaneità Gerda Dendooven ha lasciato indietro ogni retorica, e ha portato in superficie il seme universale - il mito, il simbolo, la metafora - che inevitabilmente ha radici in tutti noi. Che lo si voglia vedere o no. 
Un bambino che galleggia solo nel mare... Non credo vada aggiunto altro. 
Come in una vera fiaba tocca la questione degli erranti. Dei senza terra, dei rifiutati. 
Come in una vera fiaba tocca la questione della maternità/paternità inaspettata e poi voluta. 
Come in una vera fiaba tocca la questione dell'essere grande, ma proprio grande. Un outsider, un fuori misura. 
Come in una fiaba tocca la questione della partenza in cerca di fortuna. 
Come in una fiaba tocca la questione della partenza in cerca di una appartenenza.


A tutto questo si aggiungono un paio di felici intuizioni, che a me personalmente la rendono ancora più lucente, se possibile: bambini e cani si intendono a meraviglia (vedi la capacità di Bruno di starle sempre intorno) e bambini con altri bambini si sanno organizzare (vedi le due diverse prospettive - adulta e infantile - rispetto alla crescente dimensione della Stella in questione). 
Ancora più splendente la rendono due altre cose: il testo, ovvero la sua traduzione, che è davvero un piccolo capolavoro di sensibilità, un misto di ironia e tenerezza, di profondità e leggerezza; e due inevitabili confronti con autori cardine per l'editoria: Kitty Crowther e Wolf Erlbruch. 
Direi che il libro Mère Meduse di Kitty Crowther ha più di qualche tangenza con Stella. A tal punto che mi parrebbe quasi naturale che Gerda Dendooven lo abbia letto e così tanto amato da averlo fatto suo per sempre. 
Due gigantesse che condividono la patria e il senso più profondo dell'essere madre... 
L'altra tangenza che mi fa sobbalzare è con l'uso del collage e più ingenerale con il disegno di Erlbruch, ovvero con la sua iconografia con cui le tangenze diventano molte e in alcuni casi così forti e precise da spaesare lo sguardo: il cane Bruno, i tessuti tra quadretti e righine, le proporzioni dei corpi, le guance rubizze, i grandi occhi dietro le lenti rotonde... 


Carla

mercoledì 15 gennaio 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

MANO NELLA MANO


Io guardo ad Heidelbach come a una divinità mentre a Könnecke come a un vicino di casa, per questo mi sembra perfetto questo quattro mani con Carla, che Heidelbach me l’ha fatto conoscere lei. 
Questo libro inizia come un film horror coi fiocchi con la leggiadra mano di Ole: una famigliola felice, mamma e papà che stanno per uscire e i due pargoli, Boris e Celeste che, mano nella mano, sulla porta di casa li salutano felici. 
Boris è pettinato bene, Celeste è a piedi nudi. 


I piedi nudi non fanno mai presagire quiete e calma. La prima battuta di papà è rivolta al nostro fratellone: “Fai il bravo con tua sorella, Boris” 
Perché papà dice a Boris di fare il bravo, mi chiedo. Ma ha visto i piedi nudi di Celeste? Ha visto? Forse Boris si vuole vendicare di tutte le malefatte di Celeste? 
La mamma aggiunge: “Sul tavolo in cucina ci sono sogliola e spinaci.” 
Sogliola e spinaci? Ma io dico questi due conoscono i loro figli? Temo di no. 
Giriamo pagina e infatti.


Nelle due pagine successive niente Heidelbach, nemmeno un segnetto piccolino, tutto Könnecke col suo tratto magistralmente pulito e precisamente espressivo. 
La tensione sale per noi lettori, perché se arriverà Heildelbach, e arriverà, chissà come la prenderanno i due frugoletti. 
La serata dei due fratelli rotola velocemente verso la storia della buona notte che sarà, eccerto, una storia da brividi. Ci siamo. 
Da questo momento in poi il libro ha una tavola a sinistra di Heidelbach e una a destra di Könnecke. Boris racconta storie sempre diverse, ma Celeste non sembra per niente toccata, anzi. Lo scambio di battute tra fratello e sorella è veloce, lampante, sbalorditivo. 
Tanto a sinistra il tempo pare fermo e fiabesco, così a destra il ritmo è incalzante e imprevedibile. 
Con pochi dialoghi Könnecke riesce a raccontarci esattamente come sono Boris e Celeste e qual è il loro rapporto: Boris è al bivio che lo porterà nel giro di poco nel mondo degli adulti, è agli sgoccioli dell’infanzia, Celeste invece è nel pieno dell’esplosione bambina: pare ascolti Boris e invece va a chiedergli di un particolare (apparentemente?) insignificante, improvvisamente si mette a saltare, a urlare, a giocare, piange, ride a crepapelle, si intenerisce è incontenibile nella sua imprevedibilità. 


Boris ha un obiettivo chiaro e preciso, Celeste sguscia via ogni secondo: due infanzie ben diverse raccontate in modo magistrale e divertente. 
Boris alza sempre più il tiro delle sue storie, lasciandosi alle spalle la paura di non far addormentare la sorella, ma raccogliendone la sfida (questo fanno i fratelli!). Tanto più lui diventa davvero il maestro dell’horror, tanto più lei si stacca dalla realtà per entrare in pieno nel mondo della sua fantasia. Boris e Celeste lottano a colpi di storie e alla fine Celeste avrà l’ultima parola: si sono divertiti in questa lotta. 
Continuo a pensare, Carla, che Boris e Celeste siano un po’ come Könnecke e Heidelbach e che anche loro si siano divertiti. 
Ma ci siamo divertite anche noi. Vorrà dire qualcosa? 

La genesi di questo libro nasce nella testa di Nikolaus Heidelbach e nasce dalla constatazione di una rivalità, un po' simile a quella tra Boris e Celeste, che di fatto esiste tra i due autori. 
Si conoscono e si stimano da più di vent'anni, ma le loro storie, i loro libri sono in qualche modo in competizione. Sempre. 
Condividono un genere - il libro illustrato - e un pubblico - i bambini. 
Così un giorno Heidelbach ragiona sul fatto che sarebbe divertente mettere sulle pagine di uno stesso libro la loro competizione. Suggerisce un soggetto all'amico Ole: un fratello maggiore racconta storie a una sorellina, che però si annoia. A questo punto Ole corregge di poco il tiro, suggerendo all'amico che le storie raccontate dal fratello maggiore siano tutte storie di paura. I due si mettono a lavorare in parallelo: Heidelbach aveva già un testo, ma quando gli arriva quello di Könnecke il suo si accartoccia e si butta da solo nel cestino. 
La cosa che convince entrambi a mettersi vicini sulla pagina è il senso finale dell'intera storia, ossia l'innegabile piacere che si prova nell'aver paura. Sensazione che i grandi sembrano voler negare, ma che invece i ragazzini cercano come l'aria. 
Se questo è lo scheletro, è inevitabile che a uno tocchi l'aspetto perturbante e all'altro la comicità della situazione. In questo senso, Heidelbach, ha dichiarato, si sente molto riconoscente nei confronti dell'amico e del suo testo così ricco, per il materiale così vario che gli mette a disposizione: fantasmi, animali giganti, figure deformi, creature che stanno nell'ombra, piante carnivore, draghi figure di pietra inquietanti, dame senza testa. E via andare... 
Così come si è creato uno felice scambio tra Colonia e Amburgo, così altrettanto naturalmente ne è nato uno tra Cantù e Roma. Io, per storia personale e affinità elettive, scrivo di Heidelbach e delle sue creature ad acquerello, ossia guardo solo le pagine di sinistra che, già solo a vederle affiancate, stridono un bel po' con il fumetto che occupa quelle di destra. A destra, un costante cicaleccio, a sinistra invece incombe il silenzio, un silenzio pieno di presagi. 
Si susseguono le tipiche immagini 'frizzate' di Heidelbach nell'istante prima che qualcosa succeda. 


La bambina sul ponte di corda ha davanti un fantasma, ma la cosa che più terrorizza, ovviamente non è il fantasma, ma è quella lama di coltello luccicante che la ragazzina brandisce volitiva. Cosa potrebbe tagliare? Le corde del ponte o il tessuto bianco del fantasma? 
Ecco, l'Heidelbach che conosciamo e amiamo e che tanto solletica i ragazzi e tanto destabilizza i grandi. Quel suo dono innato di saper essere, con un segno serissimo e sapientissimo, ironico, addirittura comico, ma nel contempo inquietante. Indubitabilmente attraente. 
Se Könnecke gli offre con il testo un rospo gigante, Heidelbach se lo immagina incombente e silente alle spalle di una ragazzina, così piccola che ha bisogno di uno sgabello per cuocere la sua padellata di zampe di rana... ignara. 
Per ogni tavola, si rinnova il perturbante, molto più che la paura pura, che si percepisce nell'immagine nel suo complesso, ma che spesso trova conferma negli sguardi in tralice dei protagonisti in scena: uno su tutti quello della principessa in posa che di quel bel fiore rosa, citato nel testo, avverte la potenziale e imminente pericolosità. 
Ah, Heidelbach e questa sua straordinaria capacità di lavorare sul dettaglio, su quell'angolino che nessuno aveva notato, per creare il brivido: un cubetto di ghiaccio lungo la spina dorsale, qualsiasi cosa disegni. Altro che i racconti di Boris che non incantano neanche Celeste... 
Quella bambina che nuota ignara di ciò che la profondità dell'acqua nasconde, è lui stesso a raccontarlo, ha qualcosa di orrorifico ma anche di molto sensuale: il modello ispiratore, per questa immagine in particolare, ci dice Heidelbach, è stato un film degli anni Cinquanta che in Italia è uscito con il titolo Il mostro della laguna nera. Va da sé che l'autore tedesco ne consiglia caldamente la visione... 


E dunque Valentina cara, mi pare così inaspettato e nello stesso tempo divertente essere qui a scrivere a quattro mani con te di uno dei miei autori preferiti che si è messo in coppia con un altrettanto amato autore, che qui, solo apparentemente, fa la parte di quello "lieve" e "scanzonato", ma al contrario si dimostra ancora una volta un profondo conoscitore delle emozioni che attraversano l'infanzia. E non solo. 
Dunque: divertimento e sorpresa, per questo pezzo di strada che facciamo assieme, credo abbiano guidato anche quei due. Così diversi nei loro linguaggi figurativi, così diversi nei loro testi eppure felicissimi di essere assieme. Un po' come capita a quei due fratelli così agli antipodi, eppure imprescindibili l'uno per l'altra e viceversa. Così come il "mio" Heidelbach, si sente riconoscente nei confronti di Könnecke per quel testo così stimolante e divertente, e per quei disegni così pieni di tenerezza e attenzione per l'infanzia, così io ti sono grata di aver accettato, in quel giorno di metà novembre in cui mi whatsappavi Heidelbach secondo me è tuo, di scrivere questa recensione a 4 mani. 
Chiuderei così: Könnecke e Heidelbach han dichiarato che se non fossero stati assieme mai ce l'avrebbero fatta. Possiamo pensare lo stesso di noi? 

Valentina & Carla 

"Niente draghi per Celeste", Nikolaus Heidelbach, Ole Könnecke
trad. Chiara Belliti, Beisler editore 2024