mercoledì 15 ottobre 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

CINÉMA, MON AMOUR! 


“La finestra dava sulla baia. La pioggia aveva ripreso a cadere sul mare come un enorme sipario spumeggiante. Una palma in vaso spingeva con tutte le sue forze contro il vento, in direzione della luce fioca (…). 
Le palme... La California... Il sipario si strappò e la scena, stranamente, si capovolse... si illuminò. Tutto a un tratto. La finestra chiusa su quella grigia baia scozzese parve schiarirsi, ingrandirsi, aprirsi... E contro il paesaggio bianco di pioggia attraversato dai gabbiani, proiettò all’improvviso il ricordo dei miei 16 anni in Technicolor e su grande schermo”

Ed è già cinema! Possiamo accomodarci e goderci la magia. 
“Il ragazzo che sapeva troppo” è la storia di un film di fantasmi (i fantasmi sono una sua passione, evidentemente) che diventa a sua volta un film fantasma: appare, poi scompare e infine riappare. Una storia circolare, rotonda come la bobina di un film di altri tempi. E Malika Ferdjouch intreccia diversi dati di realtà per ospitare una storia di finzione. 
I dati di realtà: Alfred Hitchcock all’età di 20 anni aveva assistito a una rappresentazione teatrale dal titolo Mary Rose, scritta da J. M. Barrie (l’autore di Peter Pan). Ne rimane profondamente colpito e negli anni successivi proverà a farne un film, che però non convincerà la produzione e dunque non sarà mai realizzato. Il testo teatrale che incantò il giovane Hitchcock, in estrema sintesi, racconta di una giovane donna, Mary Rose, che recatasi su un’isola scozzese scompare per poi riapparire di tanto in tanto in forma di un fantasma che la blocca all’età e al tempo della sua scomparsa. Quando dopo molti anni il figlio Henry ormai adulto si recherà sull’isola cercando le tracce della sua infanzia, incontrerà il fantasma di sua madre. 
La finzione: Henry -che ora è il nome del protagonista della nostra storia- è un uomo che ha superato la sessantina e si sta recando con sua moglie su un’isola della Scozia (traghettato da un pescatore che si chiama Cameron, come il pescatore che traghetta Mary Rose sull’isola nel testo teatrale... e così comincia il valzer delle citazioni). Ha ricevuto un invito da una donna di cui al momento non sappiamo nulla. Mentre attende di essere ricevuto il suo sguardo intercetta quella palma: una visione che strappa il sipario (Il sipario strappato, Hitchcock, 1966) trasportando Henry e noi lettori in un lungo flashback che ci riporta a 50 anni prima. 
Ora siamo a Parigi negli anni ‘60. Henry e suo padre condividono una profonda passione per il cinema, i due entrano ed escono in continuazione dalle sale che proiettano il grande cinema. Conoscono a memoria scene, trame, nomi dei divi, rivedono ripetutamente i film che amano. Per un caso assolutamente fortuito (e anche molto divertente) padre e figlio si trasferiscono da Parigi a Los Angeles e, per un caso ancora più fortuito, si ritrovano a lavorare a Hollywood, su un set segretissimo dove il grande Hitchcock sta girando, appunto, la storia di Mary Rose. Henry non poteva chiedere di più: di giorno si gode i fasti della California dei divi e di notte (poiché il film è top secret) sgrana gli occhi per lo stupore di vedere all’opera il grande regista. Ma la passione del giovane Henry per il cinema (ma anche un po’ il suo segreto innamoramento per Veronica, l’attrice che sul set interpreta Mary Rose) lo metterà presto in un brutto guaio e diventerà, suo malgrado, artefice della sparizione della pellicola. 
La trama si fa sempre più rocambolesca, con personaggi che vengono via via disegnati con una inesorabile sequenza di dettagli che lentamente andranno a definirli a tutto tondo. 
Un’avventura che segnerà la vita del giovane protagonista e che, nell’ultimo capitolo, lo porterà in quella casa su quell’isola scozzese dove ogni cosa ritroverà il suo posto. 
Intrighi amorosi, furti, suspense, dialoghi serrati e ironici e soprattutto un inseguimento à bout de souffle (giusto per rimanere nel grande cinema di quegli anni) costruiscono una trama davvero degna di un film di Hitchcock. 
In effetti è proprio Alfred Hitchcock il vero signore della storia e si ha l’impressione che Ferdjoukh abbia voluto costruire un racconto che è il risultato di un puzzle di pezzi hitchcockiani, una trama che, come si è detto, si insinua tra diversi dati di realtà. Ogni capitolo porta il nome (o il riferimento) a uno dei titoli del grande regista inglese e non c’è pagina in cui non si possa trovare, in maniera più o meno esplicita, un riferimento a lui, ai suoi collaboratori, alle trame e ai personaggi dei suoi film (compresi i corvi neri!). Nella storia trovano posto: Lina Lamont, il personaggio coprotagonista in Singing in the rain; la governante Madame Homolka, che porta il nome dell’attore Oscar Homolka che recitò in Sabotaggio; la costumista Edith Head, che lavorò con molti dei più grandi registi dell’epoca e per moltissime delle pellicole di Hitchcock portandosi a casa ben otto oscar; incontriamo anche Fred Astaire che scommette all’ippodromo e, sull’etichetta della bobina trafugata, troviamo il nome di Peggy Robertson che fu assistente alla produzione di Hitchcock per una trentina d’anni e che recitò per tre dei suoi film più noti. E chi avesse visto e rivisto i film del regista inglese di recente o ne serbasse una limpida memoria, potrà trovare innumerevoli richiami a singole scene e ai diversi personaggi dei suoi film. 
Sono tantissimi i riferimenti al mondo hitchcockiano tanto che questo romanzo potrebbe essere utilizzato per una caccia la tesoro. Sicuramente fa venir voglia di rivedersi tutte le pellicole di quel gran genio. 
E a parte Hitchcock? 
A parte Hitchcock è la storia di un ragazzo che cresce dentro una grande passione. Una passione che lo aiuta a crescere. In questo senso possiamo dire che è un romanzo di formazione. E non certo il suo primo... Ma soprattutto è una dichiarazione d’amore al cinema e a chi, grazie al cinema, immagina e cresce. 
Piacevolissimo da leggere, potrà essere proposto a partire dai 14 anni e ai fans di ogni età delle pellicole del grande Alfred. 

Patrizia 

“Il ragazzo che sapeva troppo”, Malika Ferdjoukh, trad. di Chiara Carminati, Pension Lepic 2025 


lunedì 13 ottobre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

NOMEN OMEN: LA SOLITUDINE DEI NUMERI ULTIMI 

Adelmo che voleva essere Settimo, Daniele Mencarelli 
Mondadori 2025 


NARRATIVA PER MEDI (dai 9 anni) 

"Adelmo vorrebbe correre coi fratelli, ma il fiatone gli spezza il respiro, ha le gambe troppo corte per andare allo stesso passo degli altri, è uno scricciolo di bambino, perso dentro pantaloni tanto più grandi della sua taglia. Quei pantaloni hanno camminato assieme alle gambe di tutti e sette i fratelli, da Primo a lui. Consumati e rattoppati, allungati e poi riaccorciati, ne avrebbero di corse e di avventure da raccontare! 
Col mento che trema per il pianto trattenuto a fatica, con passo da soldatino arrabbiato, Adelmo rientra in casa. 
'Sempre la stessa storia'." 

La storia è questa: Settimo figlio di Evelina ed Ernesto, il piccolo Adelmo viene sempre lasciato indietro dai suoi fratelli: Primo, Secondo, Terzo, Quarto, Quinto e Sesto. Ogni due anni un figlio e solo all'ultimo Evelina decide di dare un nome che è un nome più che un numero al neonato. Forse è questo che lo rende diverso agli occhi dei suoi fratelli che come possono lo prendono in giro, lo lasciano solo e lo accusano di essere il cocco di mamma, perché è quello che ha bisogno di più cure degli altri. 
Nella casa di Ernesto, valente muratore, e di Evelina, valente madre e massaia, non si naviga certo nell'oro, ma anche di fronte a qualche digiuno i due genitori sono bravi a non far mai perdere il buon umore a quella masnada di ragazzini. E anche quando la crisi si diffonde nel Regno della Pianura Piccola dove loro abitano, Ernesto riesce a stare a galla onorevolmente con il suo mestiere. A tal punto da potersi permettere qualche anno di scuola per il piccolo Adelmo. 
La morte improvvisa di Ernesto, però, cambia tutto. Una morte sul lavoro. 
I sei figli partono per cercare, ognuno, il proprio posto nel mondo e a casa restano solo Evelina, consumata dal dolore e dagli anni, e il giovane Adelmo che, oltre a prendersi cura della madre, lavora in campagna dal sor Fiorenzo, si prende cura dei suoi animali. 
Questa è la sua storia, la storia del suo viaggio alla ricerca dei sei fratelli da riportare a casa, perché la vecchia Evelina non vorrebbe proprio dover morire senza riabbracciarli tutti almeno un'ultima volta... 
Ma è anche la storia di Adelmo che parte ragazzo e torna uomo. 
Ma è anche e ancora la storia di uno che combatte contro la solitudine e la sconfigge! 

Tutti, ma proprio tutti, parlano di questo libro di Daniele Mencarelli come del suo esordio nel panorama dell'editoria per ragazzi. 
Le cose non stanno esattamente così. 
Più o meno un anno fa, a Natale, usciva il primo testo di Daniele Mencarelli per ragazzi: C'era questa donna. Un testo breve, illustrato magnificamente da Beatrice Bandiera, che quindi è diventato un albo illustrato. 
In quell'occasione Daniele Mencarelli, su suggerimento di Goffredo Fofi se non erro, aveva scritto e proposto un testo a orecchio acerbo. In quel caso, una natività di una donna africana in un bagno di un'area di servizio, sola e spaventata. Una santissima nascita annunciata - come quella ben più nota - non da angeli, ma da un uomo, anche lui di pelle scura che tutti considerano un matto, ma che non si è risparmiato di correre ai quattro angoli del mondo ad annunciare la lieta novella: è nato un bambino... Decisamente nelle corde di Mencarelli, se si conoscono i suoi magnifici romanzi con storie di persone che vivono, per ragioni diverse, sempre ai margini. Altri due 'invisibili' di Mencarelli. 
Se è pur vero che non si tratta di un esordio in piena regola, è pur vero che Adelmo che voleva essere Settimo è il primo romanzo di Mencarelli e quindi Mondadori che lo pubblica, lo annuncia come un grande evento. 
A parte queste spigolature, qui Mencarelli si cimenta effettivamente in un ambito che non è il suo: ossia decide di scrivere una storia che ha il passo della fiaba. 
Non esordisce con il consueto "C'era una volta", ma decide di cancellare ogni punto di riferimento cronologico, ambientando le vicende in un passato indefinibile con certezza, dove ci sono regni rivali, dove arrivano le carestie, dove si va a dorso di mulo, dove a raccontare è una giovane cantastorie. 
Come nel canone della fiaba anche qui c'è l'eroe (o l'antieroe, visto che a scrivere è Mencarelli) che ha una precisa missione da compiere, e per questo deve attraversare territori e superare prove per poi tornare al punto di partenza vittorioso e, naturalmente, cambiato! 
Quasi del tutto assente è l'aspetto magico: non ci sono fate o streghe, non ci sono oggetti fatati, c'è solo un fiume che si personifica per aiutarlo. Il magico, come sostiene la piccola Evelina, è proprio lui, Adelmo. 
Robusto è l'impianto: con uno schema che si ripete per quattro volte, sostanzialmente senza grandi variazioni: ricerca del fratello, incontro con il fratello, partenza con il fratello in cerca dell'altro fratello, prova diversa da superare, prova superata senza troppa fatica. 
E chiusura perfettamente rotonda tra inizio e finale. 
A onor del vero, va detto che tutto decolla e diventa meno routinario proprio a un terzo dalla fine, quando smettono i fratelli e arriva una prova di coraggio che ad Adelmo lo stende per bene. 
Forte è soprattutto il lato 'umano' della vicenda. Il protagonista, il piccolo Adelmo, che fin dalla nascita è segnato da un gesto di affetto materno, quel nome diverso dagli altri gli si ritorce contro come uno stigma. Lo rende, suo malgrado, un estraneo, tenuto lontano dai suoi fratelli maggiori, cui lui invece tende sempre le braccia. 
Io l'ho visto accadere e d'istinto ho preso le parti del più fragile: i più piccoli di un gruppo, gli ultimi in ordine di età e di altezza, sono sempre lasciati indietro dai più grandi. Devono sgomitare per farsi accettare. E qui il canone è perfettamente rispettato: snobbato dai fratelli, protetto dalla madre. 
Adelmo combatte la solitudine. Questo è il punto di partenza. Ma ha bisogno di armi per arrivare in fondo e vincerla. Così Mencarelli lo dota, per contraltare la sua apparente debolezza, di una serie di qualità, veri 'attrezzi' del mestiere, che lui - talvolta inconsapevolmente - usa per andare avanti nel mondo. 
In primo luogo è parecchio intelligente ed è più istruito degli altri. Ha in dotazione una forte dose di empatia, in particolare con gli animali (altri subalterni come lui), di cui capisce al volo i pensieri e che riempie di attenzioni, ricambiato nel momento del bisogno. E possiede un senso del dovere più alto di lui: più e più volte capita di vederlo farsi carico del peso del mondo o, quanto meno, del rischio in cui lui ha messo i suoi fratelli che decidono di seguirlo. 
Il senso del dovere e l'intelligenza gli offrono su un piatto d'argento la terza sua dote: il coraggio. Non è esattamente vero che lui parta fifone e torni coraggioso, perché già il solo fatto di decidere di incamminarsi verso l'ignoto a dorso d'asino in cerca di ben sei fratelli di cui non sa più nulla da tempo, lo si può considerare già una bella prova di coraggio.
Allora se da una parte sono la struttura e la costruzione psicologica del personaggio a convincermi, dall'altra ci sono invece un pugno di cose che mi hanno lasciata perplessa. 
E tutte hanno in qualche modo a che fare con la prudenza. 
Troppo a freno è tenuta la possibilità di 'sterzare' da un sentiero sicuro e benevolo. 
Sulla ragione per cui questo accada, provo dopo a fare un'ipotesi. Ma alla fine. 
Torno al colpo di sterzo: credo che lo scrivere debba muoversi in molte direzioni diverse e lo debba fare per costruire spessore, complessità e quindi senso. Una trama robusta che si riempie di eventi inaspettati, di prospettive differenti, di molteplicità di letture dei fatti sono elementi che tengono alta l'aspettativa e l'attesa, la curiosità e lo stupore, l'emozione e quindi l'attenzione nel lettore. 
Nel momento in cui Mencarelli decide di farlo accadere, uscendo dal sentiero, creando problemi seri all'eroe, oppure facendo entrare in scena qualcuno che un fratello non è, puntualmente il racconto lievita e si gonfia. 
Prudenza nei confronti dei personaggi: in particolare i fratelli che, a parte i diversi mestieri che svolgono, a parte la loro storia personale, sono agli occhi di chi legge quasi interscambiabili. E tutti molto - troppo - condiscendenti. È vero che loro - nell'economia della morale della storia - sono un blocco unico, ossia il tesoro da riportare a casa, tuttavia Mencarelli è uno che sa scrivere, sa osare e sa raccontare molto bene la complessità umana, quindi perché negarselo in questa occasione? Sarebbe stato bello vederli interagire tra loro nella diversità: giocare, litigare, prendersi in giro, volersi bene, discutere. Insomma, vedere un pugno di fratelli un po' più autentici e un po' meno ingessati nel loro ruolo di stazioni di passaggio lungo il percorso di maturazione del piccolo Adelmo. 
E adesso l'ipotesi sul possibile perché questo sia successo. 
Non è che per caso, tutto è dipeso dall'aver pensato troppo al lettore finale? 
Come se qualcuno, più avvezzo di Mencarelli a conquistare il pubblico dei più piccoli, gli avesse suggerito di non perderlo mai di vista il suo lettore bambino. Suggerendogli che forse i bambini è meglio tenerli lontani, un po' all'oscuro, dalla complessità del mondo e dalla difficoltà dei rapporti interpersonali, dalle troppe cattiverie, dalle troppe ingiustizie, da troppi inciampi, cercando invece di fargli solo vedere, come in una fiaba (!), dove sia il Bene, per farlo trionfare, per pacificare gli animi in cerca della tanto anelata morale della storia?
Forse.

Carla

venerdì 10 ottobre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LASCIA E RADDOPPIA

Lo spazzolino o l'orso Nino? Mia Floridi, Chiara Ficarelli 
Il Castoro 2025 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni) 

" 'Ma... hai preso l'ombrello?' 
Fuori il cammello, dentro l'ombrello. 
'E le mutandine?' 
Fuori le macchinine, dentro le mutandine.
'E i calzini?' Fuori i pinguini, dentro i calzini '
E lo spazzolino?' 
Fuori l'orso Nino, dentro lo spazzolino." 

Famiglia in partenza. 
Papà in arrivo con la macchina e la mamma di Teo mette alla prova il suo bambino: prepararsi la valigia da solo. 
Il motto è: prendi solo l'essenziale! 
Lui in una stanza, lei nell'altra, entrambi stanno preparando i bagagli. E se è vero che è solo l'essenziale quello che va portato, Teo non ha dubbi: i suoi giocattoli sono l'essenziale! 
Alla mamma, che sta occupandosi dei propri bagagli, però viene un dubbio. Alle madri vengono sempre dubbi. 
Dalla sua camera da letto in penombra non può controllare che effettivamente Teo stia mettendo nel suo piccolo trolley le cose necessarie. E così, a voce alta gli snocciola il necessario da avere con sé in vacanza... La valigia che già faticava a chiudersi con i soli pupazzi, ora scoppia. 
Se prima Teo era a un bivio tra ombrello e cammello, ora è a un trivio: ombrello, cappello o cammello? Mutandine, macchinine o pantofoline? 
Bisogna trovare una soluzione e Teo la trova! 
E chi è senza peccato, scagli il primo bagaglio... 

La valigia è lo specchio di chi la fa! Non posso dimenticare il mio orgoglio interiore di fronte allo zaino compatto e sodo di mia figlia in seconda media alla partenza con la sua classe: occupava un terzo del volume dei trolley rosa di molte sue compagne. Ma ricordo anche, con tenerezza e comprensione autentica, il sacco americano - un cilindro alto un metro - pieno dei peluche di quella stessa figlia, ma 10 anni prima, che ci intimava di portare con noi ovunque andassimo...
Quindi il libro di Mia Floridi e Chiara Ficarelli non può passare inosservato sotto gli occhi di una che dei bagagli ne ha fatto una religione.
 

Non mi sento di definirlo un libro epocale e indimenticabile, ma ha almeno alcune caratteristiche che lo rendono interessante e piacevole. 
La prima è proprio la questione che pone. Ossia, cosa si intende per essenziale? E l'essenziale per una madre è davvero l'essenziale anche per un figlio? E l'essenziale per un ragazzino delle medie (provare per credere).
E qui si apre il solito invalicabile baratro tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzini. 
Ammetterlo da parte degli adulti sarebbe già un passo avanti, nella giusta direzione.
La seconda questione, assolutamente taciuta dal testo, se non per un accenno sul finale, mette ancora più in evidenza il diverso valore della parola essenziale per gli adulti. Almeno per quelli di questa famiglia... Questo scarto, seppure lieve, tra quello che il testo snocciola, come una litania, e quello che Chiara Ficarelli mette sul foglio rappresenta il divertimento sostanziale del libro. 
A parte il gustoso testo in rima, ovviamente. 


Mi ha fatto sorridere, spippolando qua e là in rete, notare che altri pareri su questo libro semplicemente hanno ignorato questo scarto: nessuno sembrerebbe essersene accorto. 
Ci si è dilungati preferibilmente sul valore delle scelte, sulla ricerca di autonomia cui ogni bambino dovrebbe aspirare - si intende tutte belle cose - ma il sense of humor che sul finale si accentua un bel po' non è stato proprio visto. Il fatto che nessuno sia del tutto senza colpe, in questa storiellina, è passato sotto silenzio. Ma è lì sotto gli occhi di tutti. Perché non notarlo? 
Come spesso accade, è l'edificante che diventa vincente.


Pazienza.
Ecco, la terza cosa è proprio il gustoso testo in rima cui si è accennato prima. 
Per questa caratteristica il libro va necessariamente letto ad alta voce. Ed è stato scritto sapendolo bene.
Va scandito il ritmo tamburellante dei diversi rovelli che il bambino si pone. 
Nella prima metà del libro, di fronte alla facile scelta fra giocattolo e indumento, per poi crescere di intensità quando la scelta raddoppia: indumento, indumento o giocattolo? 
Per poi fare un breve respiro e partire con il crescendo finale! 
E scoppiare a ridere di gusto sull'ultima tavola.
Divertente: da mettere in valigia. 


E se per caso non ci stesse, da portarselo comunque, stringendoselo al petto!

Carla

mercoledì 8 ottobre 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

A VOLTE BASTA UNA SCINTILLA


George ha tredici anni e convive con un grande dolore, la morte di suo padre un anno e mezzo prima, a causa di un incidente stradale. Il dolore è anche di suo fratello maggiore e di sua madre, ma quello che lo differenzia dagli altri componenti della famiglia è il fatto di essere stato presente a quella tragedia e di esserne stato un fortunato sopravvissuto. 
Tutto per gran parte del libro ruota intorno a questa condizione emotiva e affettiva e al tentativo disperato del fratello e della madre di alleviare una ferita che sembra non sanare e che ha fatto sprofondare George in un baratro dal quale sembra oltretutto non volere uscire. Ognuno si muove terrorizzato dal pericolo di ferire ulteriormente questo ragazzo che ha assunto agli occhi di tutti la consistenza di guscio di fragilissimo vetro e che si percepisce invece a sua volta come un blocco granitico dal quale non riesce a emergere alcuna emozione, tanto che neanche le lacrime sono riuscite a sgorgare nel momento successivo alla tragedia. 
Cosa invece a un certo punto sembra finalmente destare interesse in George? 
Un episodio di cronaca riportato dalla stampa locale: in una zona paludosa limitrofa un puledro fuggito è stato ritrovato completamente sbranato. Le ipotesi sono tante, da un puma del quale si favoleggiava già anni prima, fino a quella che attribuirebbe la fine del cavallo a una belva feroce di cui si sono saltuariamente registrati degli avvistamenti. 
Beh, tutti scherzano ammettendo di non credere che possa esistere una bestia simile, eppure… eppure orde di turisti si muovono alla ricerca di questa creatura feroce. George da bambino è stato molto interessato agli animali; la sua intelligenza brillante lo ha guidato alla conoscenza anche di specie poco note. Qualcosa in lui riemerge da quei ricordi e sembra stimolarlo a curiosare in quel posto, sebbene non proprio dei più confortevoli e rassicuranti. 
Suo fratello Jonathan vuole tentare l’impresa di un’intervista a un poeta che abita proprio da quelle parti, senza confessare quale sia la sua reale intenzione. George dichiara di volerlo accompagnare. 
Ma le cose non vanno come previsto e i due ragazzi si trovano a vivere una rischiosa avventura. 
La storia si svolge nel 1976 e questa scelta aiuta anche ad ambientare alcune situazioni che oggi, armati come siamo di cellulari e navigatori, sarebbe stato più difficile giustificare. Riusciamo ancora a perderci? Possiamo contemplare ancora un simile rischio? Ad onore del vero ovviamente anche ora potrebbe accadere (sarebbe sufficiente un luogo non raggiunto dal segnale o un cellulare completamente scarico), ma forse in un periodo storico in cui l’ipotesi stessa dello smarrimento era ammessa il senso di un racconto simile può essere diverso. E finire per acquisire quegli aspetti inquietanti eppure incredibilmente affascinanti che oggi riconosceremmo con maggiore difficoltà. Oppure potremmo dire che perdersi oggi, per un ragazzino di 13 anni e non solo, riuscirebbe a provocare un senso di smarrimento tale da bloccare qualsiasi iniziativa. 
Invece George si muove e il rischio in cui si trova e l’urgenza di fare qualcosa questa volta per primo e per quel fratello che tenta in ogni istante di proteggerlo da qualsiasi ulteriore sofferenza lo costringerà a rompere quella cortina di ferro che lo separa da tutti e non meno, ovvio, da sé stesso. 
L’elemento bestiale, malvagio e soprattutto nascosto e in agguato, si è sempre prestato a raccogliere, moltiplicare e trasformare storie che attingono alla parte dell’animo umano meno facilmente sondabile. E non può che venirmi in mente, tanto per citarne solo uno, La bestia dentro di Kevin Brooks.  
Ma qui l’approdo che Cinquetti sceglie è diverso. Nel romanzo di Brooks la mente del protagonista lega in modo claustrofobico l’intera vicenda narrata. Invece in qualche modo Cinquetti si accosta più felicemente al genere del “giallo”, preparandoci a una rivelazione che conferisce un senso differente a tutto quello che abbiamo fino ad allora letto. Sebbene non ci sia un’indagine e non si accenni in realtà neanche a un omicidio, la scrittura precisa e asciutta del romanzo apre pian piano la scena su una realtà che si è tentato inutilmente di nascondere. 
Come fosse un cadavere malamente occultato, buttato in acqua e che a un certo punto però riaffiora. Solo che qui l’elemento naturale che fa da detonatore è, neanche a farlo apposta, il fuoco. 
E a decidere con forza che non si può chiudere tutto dentro una cantina sarà semplicemente una scintilla. 

Teodosia 

"La bestia di Waltanna", Nicola Cinquetti, Pelledoca 2025 


lunedì 6 ottobre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

RICAMO INTORNO AD ANDERSEN 

Il rospo. E altre storie di Hans Christian Andersen
Valentina Pellizzoni, Silvia Molteni 
Topipittori 2025 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dai 7 anni) 

"Andersen racconta in un modo che ai suoi tempi era più vicino al parlato che allo scritto: ricorre a modi di dire, costruisce le frasi in modo strano, usa parole quasi dialettali. 
Per questo le sue fiabe cambiano molto da una traduzione all’altra. 
Un’altra grande scrittrice ha molto amato Andersen: Rumer Godden. Era certa che Andersen, prima che uno scrittore di storie, fosse un poeta e che le sue fiabe siano le sue poesie. Per questo, dice, “a volte potrebbe succedere che ai bambini sfugga il significato complessivo”. Quando leggiamo delle poesie, in effetti, non sempre capiamo proprio tutto, ci lasciamo catturare dall’atmosfera che creano con le parole, dal ritmo, le facciamo depositare dentro di noi, per poi farle riaffiorare pian piano. Questo cercava di fare Andersen con le sue fiabe, scritte in modo poetico, quasi cantando: che tutti i bambini le amassero. «Presto, crescendo, avrebbero capito; fermarsi per spiegare – come fanno le madri coscienziose – significa rovinare il ritmo, l’intera emozione» ha scritto Godden. 
Ho cercato di riportare questa musicalità nelle mie riscritture, di adeguare il linguaggio più a quello parlato che allo scritto, ho anche tolto là dove Hans aggiungeva, perché oggi i racconti sono più veloci che alla sua epoca, più lenta della nostra." 

In queste tre ultime righe c'è l'intento di questo libro. 
L'antefatto invece contiene in sé tre cose. 
La prima: una passione di Valentina Pellizzoni per le fiabe di Andersen. 
La seconda: una sapiente propensione di Valentina Pellizzoni al racconto orale, al far diventare storia degli accadimenti, detta a voce.
La terza: un pugnetto di buone amiche intorno a Valentina Pellizzoni. La prima, Giovanna Zoboli, stima giustamente Valentina Pellizzoni per molte cose, ma anche e soprattutto, per quella sapiente propensione di cui sopra. La seconda, Silvia Molteni, con Valentina Pellizzoni condivide gli stessi prati, gli stessi boschi, la stessa amata terra e la natura intorno a casa. 


A Giovanna Zoboli che incidentalmente pubblica libri spetta invece il merito di aver offerto ai due fili di questo ricamo intorno ad Andersen, la Vale e la Silvia, la possibilità di unirsi e chiudersi in un centrino perfetto. 
Così accade che Valentina Pellizzoni scelga fra le più di centocinquanta fiabe quelle sei che possono stare meglio di altre nelle orecchie dei bambini di oggi e che siano adatte alle matite e ai pennelli di Silvia Molteni. Lei, da biologa appassionata, disegna di preferenza la natura circostante e dà il meglio di sé: piante e piccoli animali, come topolini e convolvoli, galli e galline, rospi e rane, cavolfiori ed esili piselli odorosi, chiocciole, bruchi che si fanno poi farfalle, convolvoli e farfaraccio. Tanto farfaraccio.
Se si torna all'intento, ossia ridare ad Andersen quel che è di Andersen, si può dire con una certa sicurezza che l'obiettivo sia stato raggiunto. 
Andersen e la sua scrittura, i suoi temi e i suoi ascoltatori. Le tre cose viaggiano di concerto. 
Andersen era ben consapevole di avventurarsi in un terreno instabile: la fiaba è per antonomasia orale, quindi metterla su carta prevedeva di farlo attraverso una scrittura che fosse scorrevole, consueta e riconoscibile, piena di dialoghi ripresi dal parlato popolare, addirittura dialettale. Solo in questo modo, Andersen lo aveva ben chiaro, avrebbe potuto raggiungere il suo pubblico, i suoi ascoltatori. Ma fa anche un'altra cosa che lo distingue dalla tradizione precedente: i suoi racconti lasciano indietro maghi e fate e streghe, ma hanno invece tanta vita comune, tanti personaggi presi a prestito dal mondo circostante: dagli oggetti agli animali da cortile. 


Se si conosce un po' Andersen, si saprà bene che i bambini rappresentano solo una porzione del suo pubblico ideale. Ed è per questo che, spesso e volentieri, non si risparmiano crudezze e finali drammatici, ma anche lezioni di morale (in questo parrebbero più favole che fiabe...), così come ironiche prese in giro della società sua contemporanea. 
Ed ecco il contemporaneo che ritorna. 
Era stata un'esigenza di Andersen e oggi diventa esigenza anche di Valentina Pellizzoni: rendere quei racconti - non credo sia un caso quella parola 'storie' nel sottotitolo - di nuovo attuali, svecchiare le sue ottocentate (e con esse tutto il lato religioso è saltato via) e mettere di nuovo in circolazione altro materiale che attesta una volta di più la potenza di un autore 'scomodo' agli occhi di un pubblico che ha cercato di fare di tutto per travisarlo. A partire dallo scempio fatto alla Sirenetta e al suo finale autentico, e alla scelta di selezionare solo ciò che non avrebbe urtato troppo i pensieri dei più piccoli: I vestiti nuovi dell'imperatore, Il brutto anatroccolo, Il soldatino di stagno, La piccola fiammiferaia
In tutte queste è chiara la morale, ma non fa loro mai troppo male. 
Valentina Pellizzoni ci dice che la sua scelta è stata dettata dal desiderio di sintonia con l'immaginario di Silvia Molteni, ma non è solo questo. 
Il motivo dell'ottima scelta di queste sei fiabe sta anche nel loro essere così sorprendentemente attuali e leggibili, a chi se la sentisse, da diventare fondanti moniti riguardo a questioni giganti.
Pur raccontando di maggiolini, formiche o moschini, baccelli maturi o giocattoli vecchi. E rospi.


Dietro come al solito ci siamo noi. 

Carla 

Noterelle al margine. Non ferire troppo i piccoli lettori sembra aver lasciato una lieve traccia anche nella riscrittura di Valentina Pellizzoni, visto che sceglie di addolcire con parole studiate una 'crudezza' di Andersen nei confronti del suo rospo. Cuore di mamma. 
E poi c'è quella "questione  del picchio", nella fiaba I fidanzati.


Il 'picchio' che compare in diverse traduzioni mi sono persuasa che potrebbe aver creato qualche problema. Mi immagino un rovello per trovare una parola maschile - la traduzione perfetta, trottola, è femminile quindi sarebbe stata foriera di altri guai, visto che cerca di fidanzarsi con una palla... - che traducesse il termine toppen
La parola 'picchio' però in italiano ha un doppio significato, altrettanto pericoloso. Forse valeva la pena di scegliere il rischio di un impatto con un vezzeggiativo 'musicalpopolare', e chiamare quindi il vecchio giocattolo nel cassetto, 'trottolino', confidando nel fatto che il dududu dadadà sia ormai retaggio solo dei più anziani. Oppure strummolo, alla napoletana? 
Si fa per gioco.

venerdì 3 ottobre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (iibri per incantare)

LA GRANDE DOMANDA

Sta dormendo?
, Olivier Tallec (trad. Tommaso Gurrieri) 
Edizioni Clichy 2025 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni) 

"Prendiamo il sentiero del prato giallo, per andare ad ascoltare il nostro uccello preferito, il merlo. Ma oggi non c’era. 
Lo abbiamo cercato dappertutto, anche vicino al torrente. Non era da nessuna parte. 
Alla fine l’abbiamo trovato sul sentiero. Era sdraiato, tutto tranquillo. 
Non avevamo mai visto un uccello così da vicino." 

Lo scoiattolo e Pok amano molto sedersi sul vecchio ceppo per vedere gli uccelli che passano ad alta velocità sulle loro teste, ma quando arriva la noia si spostano e vanno a sentire il merlo. 


Non vedendolo, lo vanno a cercare. Lo trovano steso sul sentiero. 
E la domanda sorge spontanea: sta dormendo? In questo caso loro dovranno aspettare che si svegli e dovranno fare silenzio. Ma se fanno troppo silenzio, il merlo indisturbato continuerà a dormire e quindi i due decidono di chiamarlo, ma niente. Allora fanno un po' di rumore, ma niente. 
Allora fanno un bell'urlo, ma niente. 


Oh, oh. Hanno finito le idee, quindi è il caso di andare a cercare Günther per capire come svegliarlo. Günther pensa che sollevandolo in alto lui avrebbe avuto modo di spiccare di nuovo il volo. Ma loro sono troppo piccoli per riuscirci: essere troppo piccoli per una cosa troppo grande per noi. Ecco che nelle loro teste si insinua il dubbio che il merlo lì steso non stia dormendo, ma sia morto. Günther non lo crede perché chi canta così bene non muore mai... Come dargli torto? 
Visto che i vivi sono caldi e i morti sono freddi, e il merlo adesso è tiepido, forse allora è solo mezzo morto? 
Ma i mezzi morti prima o poi si alzano... Il merlo, no. 
I morti non si possono lasciare lì per terra, con una foglia secca accanto... 
Questa è la storia del suo funerale! 

Tallec non perde una gara! 
Attraversa sempre grandi questioni senza mai prescindere da due fattori: da un lato vederne il lato leggero, teneramente ironico, che spesso e volentieri è un aspetto pratico che riguarda l'intera faccenda e dall'altro far sì che il lettore, proprio in nome di questa prospettiva, possa riconoscere e riconoscersi in ciò che accade. Sorridendone con affetto. 
Per intenderci, cogliere il lato comico e un po' goffo di come si attesta il trapasso del merlo e tutto il rovello che quei tre mettono in piedi, significa alleggerire il tema. 
Per forza. Parlare di un mezzo morto o pensare di issarlo per farlo di nuovo volare fa sorridere e quindi come per magia stiamo sorridendo davanti a un morto e per come i vivi lo trattano. Ed è in questo che Tallec dimostra di ricordare o di sapere come un bambino si pone di fronte all'evento della morte: quale bambino non prova la curiosità di toccare un piccolo animale morto, verificarne con i sensi il suo diverso stato. Per capirci, il merlo freddo caldo o tiepido...


E ancora, parlare di morte con tenerezza, attraverso l'ironia e l'esito pratico di come organizzare le meritate esequie significa tirare uno solo dei mille fili di un intreccio ben più complesso e ben più profondo e doloroso. Ma, combinazione, quel filo "funeralizio" ha qualcosa in sé di così tanto tangibile, tattile, pratico, quotidiano, che rende il grande pensiero, le grandi emozioni che la morte porta con sé, percorribili con meno sforzo. Attraversabili, con addirittura il sorriso in faccia. 
Ed è qui che con grande falcata il suo libro supera tutti quelli che sono solo lacrimevoli. E cercano di trovare soluzioni al dolore di una perdita, affidandole a un albo illustrato. 
Tallec trova il modo di farci sorridere e soprattutto non dà soluzioni preconfezionate. Fa accadere cose semplici, cose che hanno a che fare con la quotidianità e le mette lì in mostra. Spetta a ciascun lettore fare il passo successivo per trovare da sé le proprie ragioni. 
E quello che accade è che attraverso una storia semplice, accogliente, in cui tutti ma proprio tutti possono accomodarsi senza troppa fatica, in cui tutti riescono a trovare il proprio posto, attraverso i dialoghi di personaggi che sono 'umani' nel loro essere pieni di difetti e fragilità, ci confrontiamo senza lacrime, anzi sorridendo, con una delle più grandi questioni dell'umanità, anzi forse proprio la grande questione dell'umanità. 


Come non accettare che arrivi la fine? Come constatare che la vita invece ha un termine? Come superare il distacco? Come provare a far restare con noi chi non c'è più? Come dare un nuovo senso alla vita di chi prosegue? 
Domande di tale portata sono nella testa di ciascuno, grande o piccolo che sia. 
Ed ecco quindi un nuovo libro universale e aperto, e quindi magnifico di Olivier Tallec. 

Carla