Come si aprono nuovi spazi dentro di noi?
Come si fa a pensare fuori dagli schemi appresi, fuori dalla cultura che determina il nostro ragionamento senza che sia quasi possibile accorgersi della sua presenza?
È una questione nevralgica quella che si pone, poiché è destino di ogni infanzia quella di essere intrisa, ancor prima che educata, di assorbire, ancor prima che imparare.
Uno degli albi in cui è possibile sperimentare la forza della mentalità che ci permea è Aleph, della grafica Janik Coat. Come suggerisce il titolo, siamo di fronte a un abbecedario, una elencazione degli elementi basilari di un contesto conosciuto e condiviso: a partire dal cerchio per passare ad altre forme geometriche, le tavole quadrate si dispongono una dopo l’altra, pezzettini ancora sospesi, disancorati uno dall’altro, blocchi di un gioco nuovo che ancora non è stato sufficientemente sperimentato per sviluppare un senso.
Aleph mi è rimasto impresso fin dalla sua prima apparizione per l’esperienza cognitiva che offre al lettore adulto: nello sbigottimento di non saper riconoscere immediatamente, in una narrazione sequenziale, un ordine culturalmente codificato, e non potendone applicare uno già rodato altrove, lo smarrimento si amplifica.
Non è infatti confermatorio, l’alfabeto di immagini proposto, fatto per persone che conoscono già la lingua e le parole, quanto piuttosto una giustapposizione di forme e oggetti apparentemente casuale o forse piuttosto riferita, nel suo dispiegarsi, a un ordine più grande che ancora non si è completamente manifestato e di cui noi non siamo a conoscenza.
Le aspettative narrative, quel senso di percorrere una strada già un po’ vista, di sapere insomma dove si sta andando presenta, ahimè, lo svantaggio di ottundere l’atteggiamento esplorativo e di rendere un po’ ciechi. Cosa c’entra il cerchio con il triangolo, i quadrati coi pallini? Un rombo e un albero?! E perché dopo un bacio viene un girasole?!?
Per un occhio adulto, la sperimentazione reiterata della sorpresa è, a lungo andare, disorientante. Forse si trasformerà in un senso di fastidio, quasi un’irritazione. È un’emozione da gustare con coraggio, senza posare il libro da parte: superato questo scoglio, si potrà provare a stare, di fronte alle immagini, come forse un bambino sta davanti al mondo, e intendo: con lo sguardo libero da connessioni, registrando le cose per le cose, senza smarrirsi nella loro evidenza casuale, svincolati da un prima e da un dopo, da simbologie, dall’approvazione di chi sta intorno. Poi, e qui sta la vera forza di questo albo, sarà possibile apprezzare l’allentamento della tensione e il piacere che danno invece il riconoscimento, la prevedibilità, la disposizione consueta delle cose per come ce le aspettiamo.
In cima al gesto di girare la pagina sta la portata esatta del vuoto che precede la comprensione, e si può per contro prendere la misura di quanto coraggio serva per estendere la mano nell’abisso a raccogliere un significato non già sperimentato. Soprattutto, in Aleph è possibile capire che dietro alla boccata di ossigeno del riconoscere sta, ben nascosta, la minaccia di non saperci più togliere dai confini consueti ed asfittici, quasi tossici, della realtà per come l’abbiamo assorbita quando (ancora) non potevamo opporci.
Per questo torno a dire: come si aprono nuovi spazi dentro di noi?
Perché succede nell’infanzia, il primo chiudersi.
È nell’infanzia e attorno a essa che i modelli hanno più potere: calano attorno all’identità per sostenerla, ma si trasformano presto in cortine difficili da individuare e oltrepassare. Gli schemi appresi ci pervadono, inquinano lo sguardo, corrompono la percezione di quello che sta intorno. Talvolta sfocano persino la percezione della persona che siamo.
Questo è anche ciò che accade negli strepitosi racconti di formazione Fenicotteri in orbita, una serie di gemme taglienti la cui ripubblicazione e diffusione sarebbe assolutamente necessaria, di questi tempi. I racconti di Fenicotteri in orbita funzionano esattamente come le immagini di Aleph, per giustapposizioni e abbinamenti che stordiscono perché disattendono le aspettative e i codici di una rappresentazione dell’infanzia cauta, pigra, a volte persino compiaciuta. Essi contribuiscono alla restituzione di un’interezza di visione impossibile da maturare se non opportunamente alfabetizzata.
Philip Ridley è stato a buon titolo paragonato a Roald Dahl, e in effetti la sua visione d’infanzia si presenta del tutto priva di sconti e buonismi: rifiuta nettamente con empatia cristallina l’idea del bambino buono come quella altrettanto grossolana del bambino cattivo, ribalta con cognizione di causa l’idea di innocenza, fornisce una versione dolente e piena di contraddizione dell’animo umano, che esiste in nuce, udite udite, già da nei cuccioli della nostra specie,
Ridley è uno di quegli autori che sembrano non aver dimenticato.
Con uno sguardo fulminante e una forma mai banale, Ridley riscrive con autorevolezza e compassione la grammatica e la portata dell’idea d’infanzia, rappresentandola come territorio vergine tanto connesso con l’universo e l’immensità quanto progressivamente invaso dal contesto socio-culturale.
I racconti sono ambientati perlopiù in contesti disagiati, miseri e violenti, in cui con facilità è individuabile il braccio di ferro tra la voce interna della persona piccola e tutto ciò che gli ruota attorno, una tenzone che coinvolge grandi e piccoli, incessante e indispensabile poiché dalla sua riuscita dipende tutta la sopravvivenza.
In questi racconti vengono descritti sentimenti che non siamo abituati ad ammettere nel cerchio delle cose nominabili: menzogne dette con la leggerezza di cui solo chi non sa cosa sta facendo è capace, misfatti compiuti in virtù della propria ignoranza, colpe terribili agite per innocenza, in piena innocenza, errori a cui si va incontro in piena coscienza, solo per salvarsi…
Con feroce lucidità, Ridley mette sulla pagina una complessità raramente attribuita a bambini e adolescenti; lavora per loro e per noi a realizzazioni impensabili in solitudine, rendendo praticabili territori ridotti al silenzio, in cui altrimenti non ci saremmo inoltrati mai. Fa insomma quello che a sentire certi filosofi dovrebbe fare l’abisso quando lo si guarda fisso, che più ci sporgiamo per intravedere il fondo, più il fondo ci viene incontro.
Bontà e innocenza ci esplodono tra le mani e nella deflagrazione si dissolve quel velo che abbiamo innalzato a nostro vantaggio, per proteggerci forse dal ricordo di quei sentimenti terribili e quelle violenze sottili a cui nell’infanzia si è irrimediabilmente esposti, senza difese e che senza difesa vengono assorbiti e assimilati e perpetuati, come fossero un preciso veleno costitutivo impossibile da evitare.
Innocenza e sensibilità hanno la tendenza a disporsi nel nostro immaginario appiattite prepotentemente al positivo, riducendo spesso i principali portatori di queste caratteristiche – i bambini e le bambine e i ragazzini e le ragazzine – a macchiette in pieno sole, di cui così è difficilmente possibile intravedere la profondità. Concepire per loro l’ombra, la sfumatura, comporta la presa d’atto di territori inesplorati in cui è invece salvifico entrare per dare la possibilità alle persone piccole – ma anche a quelle grandi - di poter essere viste interamente.
Nulla di più grande e difficile può esservi, se non l’attenzione, lo sguardo veramente aperto, capace di registrare, affiancate, la bellezza e l’orrore, l’innocenza e la colpa. Nulla apre territori nuovi più che il coraggio di affondare la mano nell’ignoto, senza tregua, per recuperare, dal silenzio, ogni ultima parola che serve, per raccontare tutta intera, la persona.
Giorgia
Noterella al margine. Philip Ridley ha girato anche un film. Si intitola Riflessi sulla pelle e dispiega a piene mani la poetica di questo scrittore. Non vi resta che guardarlo, se ne avete il coraggio…
“Aleph”, J. Coat, Gallucci 2018
“Fenicotteri in orbita”, P. Ridley, (trad. di A. Ragusa), Salani 2009
“Riflessi sulla pelle”, scritto e diretto da P. Ridley 1990
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