mercoledì 23 aprile 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

NESSUNA STREGONERIA, SOLO LETTERE E PAROLE. 

“Consegnò tali ricordi alla febbre. Offrì in dono l’oblio per avere in cambio una via d’uscita, una via per sopravvivere. 
E quando la febbre scese, quando alla fine si risvegliò nel mondo reale, portò con sé un’unica cosa: il suo nome. 
Beatrice.” 
 

Una bambina viene ritrovata raggomitolata da Fratello Edik, accanto alla capra Answelica nel fienile di un monastero. 
La capra in questione non è una qualunque, è temuta infatti da tutti i monaci dell’Ordine delle Cronache del Cordoglio per le sue violente testate e non viene abbattuta solo per il sospetto che il suo fantasma possa essere più pericoloso dell’animale in carne e ossa. Lo stupore di Fratello Edik è quindi grande quando si accorge che la capra protegge quella bambina che si rivela subito in pessime condizioni. Il suo nome è Beatrice e, a parte questo, non ricorda niente altro. 


Fratello Edik decide di accogliere la bambina e di camuffarla da monaco rasandole i capelli e coprendola con un saio. La verità sulla bambina si svelerà progressivamente e, a lui come a tutti i monaci timorosi, risulterà chiaro che potrebbe trattarsi di quella bambina che, secondo una profezia contenuta nelle Cronache del Cordoglio e che si è rivelata allo stesso monaco, sarà l’artefice di un grande cambiamento che porterà allo spodestamento dell’attuale re. 
Un racconto ambientato in un medioevo non precisato, in un periodo di tempo lontano in cui alle bambine era proibito imparare a leggere e a scrivere (invece Beatrice stranamente dimostra di possedere queste competenze) e in cui alle profezie veniva accordata grande importanza. 
Al centro di questo romanzo ci sono soprattutto due elementi: la parola e l’amore. A loro volta poi fortemente correlati. 
Le parole sono quelle lapidarie di una profezia che per quanto si voglia contestare e giudicare inattendibile, creano una tensione sottile ma resistente che si dipana lungo tutta la storia. Quelle parole affiancano anche quelle di un’altra storia, quella che Beatrice racconta al brigante e poi al re, la storia di una sirena con la coda ingioiellata, la stessa storia che ritorna come una promessa fatta a Fratello Edik e rimasta in sospeso. E ancora, quel racconto che ha i toni di una fiaba è poi incarnato dalla voce della bambina che in questo modo riesce a ritrovare la madre, il cui destino era rimasto sconosciuto.
La parola (l’incanto della storia) viene proposta come antidoto a un mondo che si è piegato alla barbarie e all’ignoranza. Beatrice rappresenta la vita che si rivela pian piano e solo grazie all’amore, quello di una capra a dir poco singolare, di un monaco sensibile alla bellezza e poco considerato dal resto dell’Ordine, di un ragazzino destinato a una vita di stenti e di un re che ha rinunciato alla propria corona.
I personaggi di questo romanzo costituiscono un gruppo assortito di reietti (per destino o per scelta) che hanno però intravisto in Beatrice una grande luce e per questo sono disposti ad accompagnarla nel viaggio che dovrebbe riportarla a casa, che si rivela molto complesso perché deve passare per prima cosa proprio dal luogo dal quale si fugge: ossia il castello di quel re che la insegue e che vorrebbe vederla morta. 
Beatrice non sa cosa potrà ricavare da questo incontro, ma sa bene che deve incrociare lo sguardo di quell’uomo che ha ucciso i suoi fratelli, non è la profezia a muovere i suoi passi, ma un destino che la chiama e che ha a che fare più con la sua dimensione umana e morale. 
Beatrice avrebbe voluto dire a quell’uomo: 
“Avete ucciso i miei fratelli. Avete cercato di ammazzarmi, ma avete fallito. 
Ora sono dinnanzi a voi. Avete fallito.” 
Ma non lo disse. Invece Beatrice aprì la bocca e disse soltanto: “C’era una volta”. 
C’era una volta.” 
Come affrontare a mani nude un uomo che si è fatto artefice di morte? Beatrice non lo sa, ma quando arriva quel momento non sa fare altro che raccontare. 


La profezia come parola nutrita di una sostanza che non può che essere l’amore, come dire che le storie se non affondano nell’animo di chi le genera e racconta sono destinate a essere lettera morta. Quelle stesse lettere, invece possono rivelare una grandissima potenza se sono sostanziate da uno slancio autentico che muove la stessa vita. Beatrice ha imparato le lettere e le parole, le ha a sua volta insegnate al giovane Jack Dory per il quale sono diventate la chiave di accesso al mondo, rispetto al quale era avido di conoscenza. 
Di questo romanzo è difficile non amare la scrittura, prima ancora che la storia, quello stile narrativo caratterizzato a parole sempre molto misurate, periodo brevi come incisi, spesso anche ripetuti a sottolineare la pregnanza di quelle singole parole e la necessità di sceglierne senza abusarne. Anche i capitoli sono brevi e, sebbene quella narrata sia un’avventura che comporta spostamenti, viaggi, cambi di compagnia e di scenario, il ritmo non è mai concitato e la scrittura ha sempre un respiro ampio e disteso. 
Questo modo di scrivere permette di assistere allo spiegamento della storia come se fosse in un grande quadro, come se si disponesse in ampiezza più che nella linearità di un percorso. In questo grande affresco, le avventure raccontate hanno il sapore di un racconto incastonato in un’epoca sospesa e non collocabile cronologicamente. Qui, come in altri scritti di Kate DiCamillo, il contesto storico è solamente evocato nei suoi aspetti noti che contribuiscono a comporre un immaginario funzionale alla storia. La conclusione dichiara apertamente che la vicenda potrebbe essere ambientata anche in un tempo che deve ancora venire, potremmo addirittura parlare allora di un romanzo distopico, più che vagamente storico. Le iniziali miniate di ogni capitolo rimandano alle scritture realizzate dai monaci amanuensi, ma la scelta di utilizzarle sembra rimandare ancora una volta al valore delle lettere come forma di conoscenza e al contempo di contemplazione e godimento del bello. Non a caso è Fratello Edik ad avere il compito di realizzarle, quell’uomo dotato di un occhio ballerino che gli conferisce forse la capacità di vedere la bellezza ovunque. Meritano una menzione le illustrazioni che, sebbene in bianco e nero, arricchiscono ulteriormente il piacere della lettura. Sono di Sophie Blackall, autrice di fama internazionale e vincitrice per ben due volte della prestigiosa Caldecott Medal. Il suo tratto elegante e morbido restituisce luoghi silvestri dal sapore magico che non mancano però mai di sobrietà, così come gli elementi decorativi all’inizio di ogni capitolo impreziosiscono le pagine senza risultare mai stucchevoli. 
Un romanzo che saprà deliziare bambine e bambini a partire dai 10 anni. 

Teodosia

"La profezia di Beatrice", Kate DiCamillo, illustrazioni di Sophie Blackall, traduzione di Anna Patrucco Becchi, San Paolo 2024 


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