I bambini che vivono nella foresta sono tre: Maggan, lo Sbirro e Trim.
Magicamente, le loro volontà coincidono con i moti silenziosi della foresta e del cielo. Del resto, sono loro a decidere. Circondati dagli alberi, con i piedi a mollo nelle pozze d’acqua, sono loro che fanno piovere, loro a stabilire il vento e la nuvolosità variabile. Concedono alle foglie la possibilità di ingiallire e agli aghi di pino di cadere; grazie a loro il sole splende, e i legnetti si dispongono di traverso sui sentieri.
Negli albi di Eva Lindström le grandi questioni esistenziali prendono posto con naturalezza nella quotidianità dei protagonisti. L’ingenuità e lo stupore con cui essi le maneggiano non sono però presentate come manifestazioni di debolezza o ostacolo per una comprensione razionale delle cose. Anzi, nel racconto l’atto stesso di capire viene depotenziato, e gli viene preferita appunto la capacità di restare in ascolto, di soffermarsi di fronte al mistero, per quanto disorientante possa sembrare.
Si dice che al momento dell’ideazione di questo albo Lindström fosse mossa dalla necessità di catturare e restituire l’emozione che si prova di fronte alle cose che scompaiono inaspettatamente. Uno sgomento che si impara a gestire nei primi anni di vita, quando sperimentiamo che le cose continuano a esistere anche se non sono davanti ai nostri occhi. Uno sgomento che però non perde il suo potere perturbante, poiché se è vero e lampante che un bambino che si nasconde è pur sempre vivo e vegeto dietro a un divano o che la mamma che esce dalla porta lo fa per andare a lavorare e tornerà a sera, qualcosa dell’antico sconcerto rimane e risuona in noi più forte di qualsiasi normalità appresa.
Con la dipartita del bosco e l’uscita degli alberi dalla rassicurante cornice della pagina, Lindström decreta l’esistenza di un desiderabile altrove, invisibile sì, ma non per questo inesistente, e porta questa alterità direttamente in dialogo con chi nella pagina è rimasto. Con la dipartita del bosco si allenta tutta la costruzione di senso che Trim, lo Sbirro e Maggan chiamano, con una certa protervia, casa. Scomparsi gli alberi, a Maggan, lo Sbirro e Trim non rimane che continuare il gioco con quello che hanno, ma nonostante questo darsi da fare si accorgono che tra loro e il paesaggio che li contiene qualcosa dell’antica, magica – e forse un po’ forzata- corrispondenza si è inceppato. Guarda un po’, il freddo arriva senza essere stato evocato, e pure le nuvole e il vento, insensibili a qualsiasi comando, si rivelano per quello che sono: entità distinte, indipendenti, a volte contrarie.
Per tirare avanti, Trim, lo Sbirro e Maggan bruciano gli scarti nel fusto di legno in cortile, fanno amicizia con una piccola uccellina che non ha fatto in tempo a raggiungere lo stormo, sistemano il terreno, aggiustano quello che deve essere aggiustato, rastrellano, si danno da fare con i legnetti. Trovano insomma uno spazio di azione per abitare quello speciale silenzio che sembra essere calato su di loro da che gli alberi si sono dileguati. E quando finalmente arriva una nuova stagione, quella in cui, una mattina presto, pini e betulle ritornano e tutto sembra tornare al suo posto, devono fare i conti con una nuova assenza: non solo mancano i pioppi, i delicati pioppi tremuli e dorati, ma mancano anche le parole per nominare. Per entrambe le cose, pare non esserci nulla di meglio che disporsi in fiduciosa attesa.
Se questo albo sembra voler raccontare il rapporto di interdipendenza tra uomo e natura, lo fa involontariamente. Certo, le assonanze con l’attuale crisi climatica sono fortissime: la natura si palesa come un vero e proprio personaggio della storia e reclama qualcosa per sé, ed emblematiche sono sia l’impotenza dei protagonisti al cospetto degli elementi meteorologici sia la presenza dell’edificio sempre sullo sfondo, con porte e finestre aperte, a evocare che la terra è la nostra unica casa…
Eppure, la posta in gioco è forse più coraggiosa e profonda: raccontare come si entra in dialogo con quello che non vediamo e non sappiamo, quello che non è in nostro controllo, quello che sta fuori dalla cornice di dominio del tangibile, quello per cui non abbiamo (ancora) parole ma che non per questo non esiste. Mettere momentaneamente da parte la razionalità in favore di un diverso tipo di relazione.
Se nella prima parte del racconto i protagonisti stabiliscono una primitiva, istintiva relazione di causa effetto tra quello che accade e la loro volontà, nella dimensione dell’attesa, quando gli alberi non ci sono (o meglio: ora che gli alberi sono altrove…) tocca loro compensare utilizzando sensibilità e immaginazione. Non accade quasi nulla, nelle tavole iridescenti che Lindström dedica a questa attonita e inestimabile resa: soffia il vento e Maggan, lo Sbirro e Trim aspettano, aspettano fino a quando il vento decide di calare, aspettano fino a quando gli alberi decidono di tornare, fino a quando la volontà di capire e spiegare si placa.
Allora forse non aspettano più. Semplicemente stanno, dandoci le spalle, per osservare con noi.
Solo allora tornano i pioppi, i tremuli pioppi dorati, dalle foglie cangianti come cangiante e ineffabile è il significato.
I bambini che vivono nella foresta sono tre.
Non sono loro a decidere, ma l’uccellina dice che è arrivata l’estate, e loro, che hanno imparato ad ascoltare, non hanno nulla di meglio da aggiungere.
Giorgia
“La foresta”, Eva Lindström, (trad. Laura Cangemi) Camelozampa, 2025
Nessun commento:
Posta un commento