Questo è il preciso momento che nella vita di questo giovane Comanche, Kwana, il Profumato, e del fratello minore, Pecos, segna un punto di non ritorno. Il suo accampamento sta per essere distrutto e bruciato, suo padre, il capo Nokoni sta per essere ucciso, e sua madre, una donna bianca Comanche da quando era bambina, sta per essere rapita dai ranger. Per le tribù indiane, sono quasi più pericolosi dei soldati dell'esercito regolare. L'ultima parola che la madre urla ai due ragazzi, prima di essere portata via insieme alla figlia che tiene in collo, è Scappate! Loro fuggono, sui loro cavalli attraversano sentieri di una regione che conoscono meglio di chiunque altro. Si lasciano dietro tutto: l'infanzia, la pace, la comunità e vanno verso l'ignoto. L'obiettivo è quello di non stare più soli, ovvero di raggiungere altri Comanche nell'accampamento invernale. Le capacità di Kwana, d'altronde è il figlio di Capo Peta Nocona, il capo dei Nokoni, gli Erranti in lingua Comanche, sono indiscusse e lui e suo fratello raggiungono il resto della tribù. Ma l'accoglienza non è come loro la immaginavano. Questa è la storia di un giovane Comanche, tredici primavere, che cavalcando attraverso un territorio che fino all'arrivo dei Bianchi era sconfinato, diventerà un uomo, un guerriero, un capo, un padre. La sua vita sarà la sua lotta per salvare la sua cultura e il suo popolo contro l'inarrestabile strapotere dei coloni americani.È la storia epica di un eroe a cavallo, ma è anche la storia dei nativi americani e della loro triste fine.
Sono queste le due tracce interessanti da seguire: in una direzione si delinea il destino di un popolo, mentre nell'altra assistiamo alla costruzione di un uomo. Quindi un po' romanzo di formazione e un po' testimonianza, visto che la storia che racconta Nathalie Bernard è basata su un fatto e su personaggi davvero esistiti. Quanah Parker (è il suo ultimo nome), nato Comanche con il nome di Kwana, il giovane protagonista è figlio di un capo Comanche e di una donna bianca, Cynthia Ann Parker, che all'età di nove anni era stata rapita dagli nativi, diventata poi parte della tribù dei Nokoni e una delle mogli dello stesso capo Peta Nocona.La storia di questa donna indiana, ma dalla pelle chiara e dagli occhi grigi, è sempre stata oggetto di racconti e film. La sua storia personale dai contorni leggendari, che la vede passare dal mondo dei coloni a quello dei Comanche per poi ritornare, nuovamente rapita dai ranger, a quello d'origine ha sempre destato interesse e curiosità. La Bernard però la lascia sullo sfondo, anche se il suo sguardo, il suo spirito e il grande vuoto che lascia nel cuore dei due figli maschi, occupano spesso le pagine del romanzo. E' sempre lei che, in qualche modo, anche se ormai sparita da anni, spinge suo figlio a compiere l'ultima e struggente 'esplorazione' nei territori dei coloni bianchi, a conoscere la sua famiglia bianca, prima di tornare alla propria famiglia pellerossa. Quanah non la dimentica mai e fino all'ultimo ne segue le tracce. Forse in cerca di un senso ultimo da dare alla propria esistenza. Scrivere ancora su di lei non era ciò che Nathalie Bernard voleva fare, ma occuparsi invece di quel ragazzo, Kwana appunto, che le è a fianco in una delle foto di repertorio che la ritraggono, le suscita curiosità e interesse. Usa tutto quello che di lui si sa per costruire un solido telaio intorno a cui la trama di questo romanzo di formazione prende forma e colore.Tra i punti fermi c'è ovviamente la Storia quella con la maiuscola, quella che riguarda ciò che di terribile accadde nella seconda metà dell'Ottocento nelle grandi pianure americane. Questa è storia nota. Tuttavia non è mai una occasione persa andarla a raccontare ancora e ancora. Visto come sono andate poi le cose.La forza del racconto sta proprio in questa continua osmosi tra le avventure e disavventure personali di un giovane capo tribù e quelle collettive di un popolo allo stremo. Pagina dopo pagina si passa dalla bellezza e la potenza di un territorio, evocate sapientemente, alla durezza degli scempi e dei saccheggi perpetrati dai coloni, raccontati anch'essi con uguale partecipazione. In tutta questa forza solo un elemento appare disarmonico e chissà che non dipenda semplicemente dalla traduzione. Il timbro, che più di una volta la scrittura assume, ricorre con troppa disinvoltura a un lessico colloquiale, anche un po' stereotipato, e facendolo non sempre rispetta e tiene conto del contesto e della 'voce indiana' che racconta. Suonano stonate, in bocca a un Comanche, parole come 'menadito', o locuzioni come 'in men che non si dica' o 'in barba a ogni pronostico'. E dubito che mai un Comanche, anche se intimorito dalla loro mole, abbia potuto pensare o chiamare i bisonti 'mostri'. I mostri, sono cose da 'visi pallidi'!
Carla
Nessun commento:
Posta un commento