mercoledì 31 maggio 2023

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA GRANDEZZA DELLE PICCOLE COSE

Scarpa, dove sei? Tomi Ungerer 
Biancoenero edizioni 2023 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 3 anni)  

"Uno, due 
che strano tiro 
la mia scarpa 
è andata in giro." 

Questo è quello che capita a un bambino, giacca, cravattino e cappellino della scuola, che all'improvviso si trova senza la scarpa destra e il suo calzettone a righe con un filo tirato in cima fa bella mostra di sé. Forse del suo mocassino marrone ne sa qualcosa il cane seduto lì accanto che guarda altrove? 
Comincia così una carrellata di personaggi, animali e oggetti - dalla locomotiva al transatlantico - che nella loro forma ne nascondono almeno un'altra. 
In particolare, vista la situazione del bambino al principio, la forma di cui mettersi in cerca e quella della scarpa: di una o più scarpe. E non ci si illuda, come sarebbe facile pensare, che la soluzione si trova guardando in basso verso i piedi. 
Aguzzare la vista tra musi, becchi e corna. E divertirsi. 

Tomi Ungerer nel 1964 faceva questo. Oltre a molto altro. 
Tomi Ungerer non primissima maniera, per intendersi i Mellops o Crictor, con la linea sottile. 
Ma il Tomi Ungerer dell'epoca de I tre briganti. Il periodo in cui, a distanza di pochi anni dal suo arrivo in USA con pochi dollari in tasca e la cartella dei disegni, è un autore ormai ben noto che ha da dire molto sia con i suoi libri, sia con i suoi poster. Con la sua arte, più in generale. 
La grandezza si vede anche nelle piccole cose. 


Così in un libro tutto sommato semplice si riconoscono tre caratteri fondamentali della poetica di uno dei più grandi. Per alcuni, il più grande. 
Il primo di questi caratteri ha a che fare con l'idea che una forma ne può nascondere molte altre, basta saperle vedere. 
Non credo sia necessario approfondire il discorso che dietro questa lettura che solo apparentemente sembra circoscritta alla forma, Ungerer la applichi al suo modo di interpretare la realtà molto più articolato. Chi ha un minimo di dimestichezza con questo autore segue il ragionamento. 
Di questa sua attitudine si ritrovano radici anche più antiche nella sua arte. 
Basta pensare al suo libro Horrible/Weltschmerz, intorno al 1960 in cui il suo lavoro è quello di creare, attraverso il collage di oggetti di uso comune e una linea sottile e un po' tremolante, a inchiostro di china, che tanto ricorda quella di Saul Steinberg, una forma ulteriore: due forconi fotografati diventano le zampe di un uccellone, un televisore diventa il corpo di un pesce.

Tomi Ungerer Sans titre, dessin pour Horrible 1960 ca

Questo gioco ha un suo esito tridimensionale in una serie di sculture frutto dell'assemblaggio di materiali di recupero. Senza contare che su questa scia ancora negli anni Ottanta Ungerer firmava con lo pseudonimo KOK (Kunst ohne Künstler) una serie di oggetti, trovati nella spazzatura, poi esposti e venduti all'asta per beneficenza. Oggetti che potevano essere letti da una persona con una buona sensibilità e gusto, come espressione di una sorta di arte naturale. 
Senza Duchamp e Beyus nessuno forse avrebbe messo a fuoco la "banalità celestiale dell'oggetto spazzatura", così come si legge in Tomi Unger, il catalogo della mostra che si tenne nel 1991 al Palazzo delle Esposizioni, curata da Paola Vassalli.

 
Ma se si torna alla forma di uno stivale nel corpo di un'oca, si palesa la seconda costante dell'arte di Ungerer: l'ironia. Che lui dispensa a livello universale: in questo caso particolare, un bambino non deve coglierla necessariamente, ma a un adulto questo plusvalore non dovrebbe sfuggire. 
Quindi, attraverso la forma passa il suo acuto senso dell'ironia con cui chiama dentro i suoi lettori, piccoli e grandi. 
Un bambino, aiutato anche dall'uso del colore, riderà dei decolleté di sua madre che diventano corna di una mucca o teste di serpenti. O sarà contento di vedere babbucce arabe che diventano baffi in perfetta simmetria con quelle ai piedi di un pascià. 


Ai grandi sono riservate altre sottigliezze, come le scarpe di coccodrillo che sono il coccodrillo stesso, lo sgomento del maiale e altri stivali che diventano canne di cannone. 
D'altronde Ungerer non si è mai negato la possibilità di costellare di nessi di senso, spesso urticanti, ma maledettamente veri e quindi necessari, le sue storie e le sue figure. 
E l'ironia è sempre stata il suo mezzo di trasporto privilegiato.
 

Terzo elemento: il gioco. Questo è il suo modo di chiamare dentro i suoi lettori e far loro passare del buon tempo con un libro in mano. Divertirli attraverso lo sguardo che si deve fare acuto in cerca di una propria soddisfazione, che ha il pregio di potersi riproporre tutte le volte che si ricomincia. 
Per questa ragione, ancora prima che One, two where is my shoe? che esce per Harper nel 1964, esce nel 1962 Snail, where are you? che adesso viaggia in coppia, ancora per Biancoenero, con il titolo Lumaca, dove sei? Il meccanismo è il medesimo. Ma qui senza neanche una parola di introduzione al gioco, che parte con il titolo. 
Ursula Nordstrom, a cui il libro è dedicato, editor dal grande fiuto, che per anni ha reso grande il catalogo Harper, di Tomi Ungerer aveva già pubblicato i Mellops nel 1957 e poi quasi tutto il resto.


Lei aveva ben capito che testa e che mano aveva questo trentenne irriverente e rivoluzionario, arrivato in nave dall'Europa, che dichiarava "J'ai toujours voulu faire des livres d'enfants qui ne plasient pas aux parents". 
Lei, lo aveva capito e amato già allora. Lei. 

Carla

lunedì 29 maggio 2023

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA GRANDE QUESTION

Da grande sarò una foca, Nikolaus Heidelbach (trad. Valentina Vignoli) 
#Logosedizioni 2023 


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 7 anni) 

"La sera, io e mamma parlavamo del mare. 
Di solito le portavo una bella pietra o una conchiglia rara, e lei in cambio mi raccontava cos'altro ci fosse sott'acqua: sirene, vere lamprede dai nove occhi, ragazze-gamberetto, dugonghi di corte, calamarchesi, meduse mortali..." 

Questo bambino non ha mai dovuto imparare a nuotare. Lo ha sempre saputo fare. Vive con la sua mamma e il suo papà in una casa fuori dal paese, in riva al mare e quando non deve aiutare sua madre nei lavori in casa e in giardino, torna in acqua e nuota, nuota. E nuota. Suo padre fa il pescatore e sta per giorni lontano da casa, al largo dove ci sono i banchi dei pesci. E quando sono soli, mamma e figlio, lei gli racconta cose meravigliose sulla vita nel mare. Pieno di stupore, il bambino si interroga: ma come fa lei a sapere così tante cose se non mette mai neanche un piede nell'acqua? Eppure è così, racconto dopo racconto. 

© Nikolaus Heidelbach

Tra i tanti, c'è anche quello delle foche che, con il plenilunio, vengono a riva e, dopo essersi spogliate della loro pelle, sono veri esseri umani. L'importante per loro è tenere vicino la propria pelliccia per poter tornare nel mare, quando si è vissuto abbastanza come persone. 
Ed è forse questa storia che porta quel bambino a cui piace tanto il mare, a credere che suo padre sia una queste creature, un po' foca un po' uomo: d'altronde a notte fonda lui lo ha visto spostare dal capanno proprio una lucente pelliccia di foca, la sua, e di chi altrimenti? 

Si può gioire dell'arrivo di questo libro per diverse ragioni. 
La prima è legata alla bellezza intrinseca della storia che è una delle tante versioni esistenti in letteratura di un mito diffuso tra l'Irlanda, la Scozia e le isole Fær Øer e l'Islanda: quello delle selkie, creature del mare, foche, che hanno la capacità di prendere le sembianze umane, se si spogliano della loro pelliccia.

© Nikolaus Heidelbach 

La seconda è che una delle tante versioni letterarie è un libro di Nikolaus Heidelbach. 
La terza è che questo libro sia finalmente arrivato anche qui, con Logos. 
Il mito delle selkie, come tutti i miti, pone diverse questioni di carattere universale: la prima delle quali ruota intorno al senso di appartenenza. 
La pelle che ci contiene è in qualche modo un segno distintivo che qualifica le nostre radici. Ma pone anche una questione importante riguardo alla scelta della propria identità che può essere molteplice e comunque sempre risultante da una volontà personale. 
E legata ugualmente a entrambe arriva la terza ma non ultima questione: la chiave 'genetica' della trasmissione dei saperi, attraverso le generazioni. Da cui, la chiarezza del titolo. 
Dunque: appartenenza e identità. 
In questa prospettiva il mito della donna foca si moltiplica, come sempre accade, secondo diverse sfumature, ma su una circostanza è piuttosto concorde: la determinazione finale sul senso di appartenenza. Tutte le donne foca tornano al mare. 

© Nikolaus Heidelbach

Il ritrovamento della loro pelliccia, nascosta, conservata, sottratta, questo poco differenzia, ne riaccende come per incanto il legame primigenio e insopprimibile. Quello stesso legame che fa dire ad alcuni, quando pensano alla loro 'casa' dove finire in pace la propria esistenza, io là devo tornare. 
Ci si potrebbe interrogare a lungo sul senso, o per meglio dire, sulla direzione che diamo alla nostra vita. Aver costruito un percorso che abbia una andata e un ritorno è una scelta condivisibile? 
Ma forse qui ha più senso chiedersi quale prezzo siamo disposti a pagare per farlo. Nella mitologia legata alle selkie anche questo punto è sostanzialmente concorde: nel partire lascia tutto ciò che ha costruito sulla terra, compresa la prole. 
E qui si apre uno dei tanti scenari scomodi, quegli stessi scenari scomodi che Heidelbach cerca con determinazione e costanza con l'obiettivo di metterli dentro un libro illustrato per farli arrivare a chi di dovere. 

© Nikolaus Heidelbach

Credo di non allontanarmi troppo dal vero se penso che il buon Heidelbach lo faccia in modo programmatico, con l'intento di voler raccontare la verità, di voler raccontare la complessità dell'infanzia per quella che è e quindi scompaginare certe sicurezze, che appartengono al mondo degli adulti e che gli adulti si danno un gran daffare a inculcare nella testa dei bambini. 
Una di queste - peraltro distante da quella che è l'esperienza del reale che molti bambini possono aver sperimentato - è quella che mamma non ti lascerà mai. Affermazione che già di per sé crea un bel po' di guai. 
La seconda, da questa derivante, ha a che fare con la lontananza che non è di per sé - ad eccezione del territorio italiano - un sinonimo di disinteresse o mancanza d'affetto verso chi si lascia. 
Non a caso, Heidelbach dice la sua al riguardo, senza spendere neanche una parola, ma disegnando una scena che in questo senso è inequivoca. Ma forse per un adulto, non abbastanza rassicurante. 
Arriva con chiarezza addirittura a libro chiuso. 
E qui entra la terza ragione per cui gioire. La poetica di Heidelbach che ancora una volta valica le Alpi e tenta la conquista di un territorio per lei quasi vergine e inesplorato. Due soli i suoi libri che Donzelli ancora tra il 2010 e il 2011 ha pubblicato in Italia: Cosa fanno le bambine? e Cosa fanno i bambini?. Miracolosamente hanno retto per tutti questi anni, ma mentre galleggiavano si constatava il fatto che il pubblico italiano adulto reagiva con poco entusiasmo. Troppo inquietanti quei silenzi che avvolgevano le tavole, troppo preoccupanti quegli sguardi in tralice dei bambini e delle bambine protagoniste, troppo perturbanti i nessi tra il pochissimo testo e l'immagine, troppo diseducativi gli scenari. E poi, esiguo e preoccupante, al limite dell'offensivo, il ruolo dato agli adulti in scena. 
Va da sé che se, messi in mano ai bambini e le bambine, entrambi i libri hanno un grande successo e aprono discussioni accese che possono durare intere giornate. 
Ma è un fatto che i libri li comprano i grandi. Dopo accurato e prudente pensamento. 
Così solo alcuni donchiscittoeschi adulti hanno perseverato nel divulgare la conoscenza di questo autore. E io, modestamente, tra loro. 
Ma fortunatamente il tempo passa e - dai e dai - certi ragionamenti sono diventati, almeno a parole, parte di un pensiero più condiviso, più sdoganabile nell'ambito della pedagogia della lettura. 
© Nikolaus Heidelbach

La grande question è la seguente: riuscirà la leggenda della donna foca a farsi conoscere e a mettere radici nelle teste di chi la legge? Riuscirà a non sembrare uno sproposito quello di far ricadere su un bambino una responsabilità del genere? Riuscirà a passare una famiglia che si frantuma così? Riuscirà finalmente a diffondersi anche qui la grande arte di Heidelbach? Riusciranno le sei magnifiche tavole mute a raggiungere lo sguardo incuriosito di ragazzini e ragazzine, così come è accaduto con 'la ridda selvaggia' di Sendak o come è successo con 'le fotografie immaginarie' di Wiesner per Flutti/Flotsam? Riuscirà il freddo e scuro Mare del Nord a imporsi sul solare mare nostrum? Riuscirà ad arrivare ai bambini il fatto che il mondo dei grandi talvolta è inspiegabile? 
Vedete un po' che potete fare... 

Carla

venerdì 26 maggio 2023

FAMMI UNA DOMANDA!


IL CLIMA CHE CAMBIA (E FA PAURA)



Non sono certo poche le pubblicazioni, gli articoli che parlano del cambiamento climatico e dei suoi effetti; nel caso del libro divulgativo di Mario Tozzi, ‘Perché il clima sta cambiando?’, pubblicato da Einaudi Ragazzi, l’involontario tempismo è davvero singolare. Uscito ai primi di maggio, il testo, articolato e preciso come si conviene, spiega il cambiamento climatico proprio quando a misurarne le conseguenze, per quanto indirette, sono migliaia di persone che, nel nostro Paese hanno subito una devastante alluvione.
Attualità a parte, il libro di Tozzi, geologo, ricercatore e divulgatore scientifico, si sofferma su diverse problematiche legate al tema del clima. Innanzitutto, fornisce una serie di dati statistici che attestano le variazioni di temperatura, l’aumento della siccità e i fenomeni estremi, tutti fra loro interconnessi; viene messa in evidenza la tragica influenza che il consumo del suolo, legato alle attività produttive, ha sugli effetti dei fenomeni atmosferici, già di per sé ‘eccezionali’.
Fare un passo indietro, rispetto allo sfruttamento delle risorse naturali e al consumo di suolo, non è solo necessario, è impellente; ma è sufficiente? Per rispondere a questa domanda, l’autore analizza i dati relativi alla responsabilità dei combustibili fossili e della produzione di metano, legata agli allevamenti intensivi, nell’aumento delle temperature a livello globale.
Non ci sono molti dubbi al riguardo; per mettere mano a questa tematica è necessario mettere in discussione il nostro modello di sviluppo, il nostro stile di vita. La domanda a questo punto è: possiamo gestire il cambiamento oppure è necessario stravolgere il nostro modello di sviluppo per invertire la tendenza all’aumento della temperatura?
In questo ambito il problema cruciale è il fattore tempo: la capacità di reazione dimostrata dai sapiens finora è veramente scarsa: il grande fotografo brasiliano Salgado, in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera, afferma che abbiamo già oltrepassato il confine del non ritorno e che, quindi, il nostro destino è segnato, mentre la Terra, la sua biosfera, come successo in altre ere, troverà il modo di ricominciare.
Questa è una visione pessimistica, forse rassegnata, ma l’ottimismo della volontà è quello che ci fa dire che libri come questo forse possono aprire gli occhi ai più giovani, in modo che a protestare non siano più solamente i coloriti e irriverenti guerrieri di Friday for Future o Ultima Generazione.
Il tema del cambiamento climatico è stato varie volte affrontato nei libri per ragazzi; per i più grandi, sopra i dodici anni, per esempio da Luca Perri in ‘Pinguini all’equatore’ ; molto diverso l’approccio, nel libro di Mario Tozzi molto serio, documentato, assertivo, pur nella semplicità dell’esposizione; nel libro di Perri, l’approccio era più ironico, problematico, coinvolgente, pur arrivando alle stesse identiche conclusioni.
Questioni di stile, dunque, ma non solo: la difficoltà ad affrontare testi argomentativi di una certa serietà è nota; cercare un percorso espositivo più vivace non è una banalizzazione, ma rappresenta un tentativo di superare le difficoltà di comprensione che spesso ragazze e ragazzi hanno.
Mario Tozzi sceglie un approccio più didattico, sistematico, usando qua e là terminologie obbiettivamente difficili.
Detto questo, la tematica è talmente importante che, magari con l’aiuto di un adulto, è più che opportuno che questo e altri testi simili entrino nelle bibliografie ideali destinate ai ragazzi e alle ragazze della scuola media.
Capire è il presupposto per poter agire, poi, a ragion veduta.

Eleonora

“Perché il clima sta cambiando?”, M. Tozzi, Einaudi Ragazzi 2023


mercoledì 24 maggio 2023

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)



LA RABBIA E IL DOLORE

Lea, la protagonista di ‘Tanto amore non può morire’, di Moni Nilsson, è molto arrabbiata con l’amica del cuore Noa, che le ha parlato della partecipazione di sua madre al Galà del Cancro, un evento pubblico a sostegno della ricerca. In quell’occasione la mamma di Lea ha dichiarato di essere una malata terminale.
Lea sa bene che la mamma è in una fase della malattia senza speranza, ma non accetta l’idea che realmente possa morire e meno che mai può accettare che a ricordarglielo sia proprio l’amica del cuore. Per questo decide di odiarla con tutte le sue forze, perché finché odierà Noa, la mamma non morirà.
Lea spia dalla finestra l’amica che viene in visita con la madre, a sua volta amica della mamma. Tutte le volte che le vede arrivare, va a nascondersi dalla vicina; nonostante sia la sua migliore amica, praticamente una sorella, la evita in tutti i modi, lascia la amatissima squadra di calcio, si mette continuamente nei guai.
In tanti fanno fatica a sopportarla, tranne il timido Konrad, con cui si fidanza per qualche giorno.
Tutta la vita familiare è sconvolta dalla malattia: il padre trascura il lavoro e si fa crescere una folta barba, il fratello maggiore Lucas, talvolta permette a Lea di entrare nella sua privatissima stanza, dove suona con l’amico Abbe, di cui Noa e in parte anche Lea sono segretamente innamorate.
Col passare dei giorni, la parvenza di una vita normale si dissolve e cominciano a moltiplicarsi le ‘ultime volte’: l’ultimo ballo dei genitori, l’ultimo incontro di tutta la famiglia con le amiche del cuore della mamma, nominate madrine di Lucas e Lea, a sottolineare una continuità di amore che la morte non può interrompere.
La quotidianità di madre e figlia è fatta di confessioni, di silenzi complici, di consapevolezza che man mano cresce e di molte, inevitabili lacrime. Così come cambiano nel tempo i rapporti con gli altri familiari, perché poche cose uniscono le persone più di un lutto condiviso.
La mamma di Lea affronta l’avvicinarsi della morte con immenso dolore, per tutto quello che non potrà dare ai figli, che non potrà vivere con loro e cerca di lasciare quanti più ricordi è possibile, perché su quelli si fonderà quell’amore così grande che non può finire, lei mamma squalo che protegge le due bambine delfino.
Lea è una ragazzina forte, autonoma, determinata, come se ne incontrano spesso nella letteratura nordica; è un personaggio che alterna una visione infantile del mondo, in cui ancora resiste il pensiero magico, alla consapevolezza della perdita, fino alla capacità, davvero rara, di lasciare andare.
Questo romanzo di Moni Nilsson, tradotto con grande sensibilità da Samanta K. Milton Kowles, per i tipi di Uovonero, è a suo modo un romanzo esemplare nel saper trattare con delicatezza un tema tanto drammatico e spesso stigmatizzato nella letteratura per ragazzi. I personaggi sono destinati a restare nel cuore di lettrici e lettori proprio per la loro fragilità, incoerenza, rabbia. Nello stesso tempo si parla di morte senza eufemismi, senza inganni consolatori, parlando del dolore e del lutto per quello che sono realmente.
Moni Nilsson è una scrittrice svedese che ha ricevuto numerosi premi, fra cui l’Astrid Lindgren Prize. In Italia erano già usciti dei titoli della serie di ‘Tsatsiki e Ma’’, Pubblicati da Bohem Press.
Per il tema trattato, alcuni adulti esprimeranno perplessità, nonostante la letteratura per ragazzi sia costellata di orfani e di lutti, basti pensare ai bellissimi libri di Ulf Stark. Curiosamente, il lettore e la lettrice adulti oscillano fra richiedere improbabili libri ‘consolatori’, che li aiutino ad affrontare il tema del lutto con i bambini, al rifiuto totale di sfiorare l’argomento.
Ecco, questo secondo me, è un libro necessario proprio per rompere luoghi comuni e presunti tabù, anche se, probabilmente, non è un libro per tutti. Lo consiglio caldamente a ragazze e ragazzi a partire dagli undici anni.

Eleonora


“Tanto amore non può morire”, M. Nilsson, trad. S. K. Milton Knowles, Uovonero 2023


lunedì 22 maggio 2023

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

MAGARI...

Il desiderio di Tricorno, Florence Parry Heide, Edward Gorey 
(trad. Paolo Maria Bonora) 
Bompiani 2023 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dai 7 anni) 

"Forse non era affatto l'addetto alla lettura del contatore, pensò Tricorno. Forse era un genio. Tricorno aveva letto un sacco di cose sui genii. Vivevano in brocche o in bottiglie finché qualcuno non li liberava. Forse questo genio viveva nella brocca che Tricorno aveva trovato in cortile ed era uscito quando Tricorno aveva tolto il tappo. 
Non voleva chiedergli se fosse un genio, casomai fosse stato l'addetto alla lettura del contatore. Aveva l'aria piuttosto assonnata. Forse era solo annoiato. Leggere i contatori deve essere un lavoro abbastanza noioso." 

Chiarito si tratti di un genio, effettivamente tediato dalla sua routine di esaudire desideri di gente mai vista di cui ignora i nomi e che peraltro non vuole neanche sapere, Tricorno ha tre desideri da esprimere. Due, diciamo così, se li brucia chiedendo una torta e le candeline perché oggi è - combinazione - il giorno del suo compleanno. 


Non sapendo cosa potrebbero regalargli i genitori, Tricorno fa spazio nell'armadio e soprattutto ragiona moltissimo su quale possa essere la terza richiesta, perché si sa che i desideri di un genio non sono mai più di tre. Mentre suo padre gli propina saggi consigli sull'impegno e sulle cose da fare ogni primo giorno del mese, dall'altro spera di essergli stato d'esempio nel cercare di risolvere i problemi man mano che si presentano: nella fattispecie, un insolito rialzo della bolletta del gas con relativa richiesta di un tecnico che venga a controllarne il contatore. 
Al contrario, sua madre ha la testa occupata da due ordini di problemi: smaltire tutti gli avanzi del frigo e acquistare un cappello che sia dello stesso verde del suo nuovo abito. 
Come di norma, il racconto di Tricorno relativo al rinvenimento fortuito della brocca contente il genio, lascia entrambi indifferenti e come di solito anche Moshie, il suo amico, è concentrato sulle sue piccole sventure e non è di alcun aiuto, o addirittura si rivela dannoso per Tricorno nella scelta del terzo e ultimo desiderio. 
Questa è la storia di quella giornata, in qualche modo memorabile e piena di speranza. 

Setacciando il racconto si raccolgono alcune pepite, da far fruttare per chi si occupi di letteratura illustrata per l'infanzia. 
La prima pepita è proprio l'illustrazione. Quanto di più lontano esista dal canone di illustrazione per bambini: figure piccole, piuttosto statiche, rigorosamente in bianco e nero, chiuse in una cornice e attraversate da un catalogo inesauribile di motivi decorativi: dalla carta da parati ai tessuti degli abiti, in una precisione asfittica e maniacale e quasi ipnotica. Talmente lontana da qualsiasi canone, da rivelarsi una scelta provocatoria e rivoluzionaria. Una scelta scomoda, poco accogliente e per questo molto interessante. 


Non so se sia un azzardo pensare questo paragone, tuttavia il Tricorno di Gorey ricorda il catalogo di bambini e bambine di Heidelbach. Pur essendo diversissimi autori, si direbbe che condividano il medesimo gusto per il congelamento temporaneo dell'immagine nell'istante esatto in cui un pensiero diventa gesto, azione. E altresì condividono il gusto per disegnare i loro personaggi con uno sguardo assente, lontano; e ancora, entrambi prediligono la cura del dettaglio. In Gorey più ancora che Heidelbach, complice il bianco e nero, diventa addirittura ossessione geometrica delle superfici e degli spazi. 
Ma questa loro rappresentazione, fredda e glaciale del mondo, quindi scomoda, che inquieta e perturba l'osservatore, preannuncia una precisa scelta di campo, lontana da ogni addomesticamento. Lontana da ogni accondiscendenza nei confronti del pubblico. E questo, direi, preannuncia la seconda pepita. 
Altrettanto preziosa, essa si materializza soprattutto nel testo. Per chiarezza: nella constatazione che tra il mondo degli adulti e il mondo dei bambini esiste una differenza, una distanza anche fisica, così abissale che sancisce in modo indubitabile l'appartenenza a due universi distinti. 


Diversi sono i modi di leggere la realtà, diversi, sono i linguaggi, diverse sono le aspettative, diverse le esigenze. E questo crea inevitabilmente attrito. Con buona pace degli adulti che faticano a prenderne atto e soprattutto a digerirlo e quindi a rassegnarsi serenamente ad avere sempre per le mani questa sabbiolina che inceppa l'armonia di cui vorrebbero circondarsi. 
Parry Heide e Gorey, dunque, ognuno con le proprie modalità, nelle storie di Tricorno, si sono dati il compito di esasperare questa condizione oggettiva, l'incomunicabilità, attraverso il registro dell'ironia, ma è innegabile che il fatto rimanga lì in tutta la sua pienezza. 
Uno dei capitoli del saggio Di cosa parlano i libri per bambini, Giorgia Grilli imposta il suo discorso proprio su questo contrasto, intitolandolo come se fosse un match o un famoso scontro legale da risolvere in tribunale, Kramer vs. Kramer, Adulti vs. bambini


Se è vero quanto sostiene Gottschall ne Il lato oscuro delle storie, ossia che la nostra comunicazione ha come scopo prioritario quello di influenzare le menti altrui, e se è vero ciò che Grilli sostiene, ossia che gli adulti sono 'naturalmente' portati a prediligere i bambini conformi, ossia quelli che si adeguano più in fretta di altri ad assomigliare per forma mentis a un adulto, ecco che con il Tricorno di Parry Heide e Gorey si mette in scena proprio questo: un mondo di adulti cui non interessa comunicare, mettersi in gioco, quanto piuttosto convincere e omologare. 
La terza pepita sta nella descrizione della controparte che Parry Heide e Gorey fanno, ed è Tricorno in persona: quanto di più strutturalmente refrattario al tentativo messo in atto dagli adulti che vogliono portarlo dalla loro parte. 
Il bambino Tricorno, anche in quel suo sguardo imperturbabile, è impermeabile ai consigli paterni, pur non essendo affatto ribelle. 


Al contrario, è educato, paziente, condiscendente in tutte le situazioni (compresa quella che lo vede con la madre al reparto sartoria di un grande magazzino perché lei trovi il suo cappello adatto). In quel suo silenzio che solo un idiota potrebbe interpretare come remissivo, custodisce il suo tesoro più prezioso, che, sediovuole, nessun adulto può sottrargli: la facoltà di immaginare, sperare, sognare. 
Impermeabile alle chiacchiere di padre e madre, impermeabile al fatto che loro in tutta evidenza non lo ascoltano, impermeabile di fatto a tutti gli altri adulti, con cui peraltro non smette di cercare un confronto, Tricorno non cessa neanche per un secondo di sognare un mondo migliore per lui e neanche per un secondo si perde d'animo di fronte al fatto di non essere ascoltato e neanche di fronte alla scelta del terzo desiderio, fatta in tutta fretta. 
Fa spazio nel suo armadio per accogliere i regali che riceverà, magari un televisore tutto per sé, magari. E mangiando le sue prugne di colazione riflette: "magari un cane. Magari in quel preciso momento c'era un cane in cortile, magari perfino un pony. Non gli era mai stato permesso di avere un animale, ma magari i suoi genitori avevano cambiato idea..." Magari.
Per non smettere di immaginare, sperare, sognare non serve un genio...

Carla

venerdì 19 maggio 2023

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

FIORDASOLI E GIRALISI 

L'alleanza dei bambini, Pija Lindenbaum (trad. Samanta K. Milton Knowles) 
Terre di mezzo 2023 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni) 

"È quasi come la scuola materna, solo che nessuno ti viene a prendere. Qui ci divertiamo molto. 
Lacapa è quella alta, ovviamente. Ci sono tantissime bambine e bambini, forse mille. Abbiamo il permesso di andare in giro un po' come ci pare. Ma è vietato oltrepassare la linea bianca. 
Lacapa ha tracciato la linea bianca con la vernice, così sappiamo dov'è. Nessuno la oltrepassa, neanche Lacapa. 
Noi Fiordasoli abbiamo i calzini a righe." 

Su uno dei tanti cocuzzoli di tante montagne ci sono tre grandi case di legno: quella con le persiane rosse è dei Fiordasoli, mentre i Giralisi stanno in quella con le persiane verdi. La casa in mezzo viene usata come refettorio e per fare tutte le altre cose. Lacapa vive in una casetta da sola, sull'albero. 
Lì tutto lo decide Lacapa, così i bambini hanno un pensiero di meno... 
La mattina un po' di esercizio fisico, poi la colazione. Poi Fiordasoli e Giralisi si dividono: i primi vanno a fare tamburo, danza e poi pittura, mentre i secondi vanno a pelare le patate. Spesso vanno a passeggio insieme, guidati da Lacapa; anche quando piove e quando si torna a casa i Fiordasoli si tolgono gli stivali infangati e vanno sul tappeto elastico, mentre i Giralisi puliscono gli stivali di ciascuno. 
Al lago, quando c'è il sole, i primi vanno in barca e fanno il bagno mentre i secondi gonfiano salvagenti, braccioli e palloni da spiaggia. A tavola i Giralisi servono il pranzo e gli altri lo mangiano, dopo loro a lavare i piatti e calzini e i Fiordasoli a giocare a croquet. 
Nell'ora di relax alcuni stanno sdraiati a guardare il cielo, altri trasportano pietre... indovinate chi? 
Ecco, anche la Fiordasola narratrice: quella con il braccialetto che tiene nascosto, se ne è accorta: c'è un'ingiustizia in atto. Ma a quanto pare Lacapa ama le ingiustizie... 


Questa è la storia di una rivolta organizzata, ma anche un po' improvvisata, basata su un semplice sotterfugio che porta a una qualche confusione inaspettata. Complice una cecagna de Lacapa non preannunciata, la fuga può essere perseguita e la linea bianca superata... 

Tre colpi di genio in un unico libro! 
Il primo, e il più evidente: l'idea di raccontare come se niente fosse - e per di più in un libro per l'infanzia - l'ingiustizia. Così bell'e fatta. Senza spiegazioni, dettata -come si conviene a ogni buona ingiustizia- solo dall'uzzolino di chi detiene il potere. 
Il secondo ha a che fare con il tono del testo, complice una traduzione luminosa di Samanta K. Milton Knowles che non perde occasione per dimostrare le sue belle idee e la sua felice penna. 
Qui, in particolare, sono partiti applausi ai tre nomi intorno a cui tutto ruota: Lacapa, Fiordasoli e Giralisi. 
A proposito del testo, c'è da dire che una delle doti che vanno riconosciute alla Pija Lindenbaum è la capacità di andare dritta al punto, senza perdersi in spiegazioni che lei ritiene superflue. 
Per intenderci: con Else-Marie e i suoi sette piccoli papà, libro fulminante almeno quanto questo, lei non dà la minima spiegazione di perché quella ragazzina abbia 7 papà alti trenta centimetri: è così e basta. E tutto ruota invece sui curiosi 'siparietti' che una stranezza del genere può determinare. 
Qui scatta il medesimo meccanismo: dire pochissimo per far immaginare moltissimo. 


Uno dei silenzi migliori brilla nella frase: "È quasi come la scuola materna, solo che nessuno ti viene a prendere." Dal che se ne deduce che si tratta di un orfanotrofio, circostanza confermata dalla presenza di Fiordasoli e Giralisi, entrambi nomi che se scomposti dicono moltissimo e vanno in quella stessa direzione. Per di più sono frutto di un semplice quanto magnifico scambio sillabico tra fiordalisi e girasoli, cui bisognava però pensare... E brava Samanta.
Il silenzio che la Lindenbaum usa come strumento narrativo riguarda anche la maggior parte delle attività che i Giralisi fanno. 
Qui entra in gioco il disegno che molto ci dice sulle loro continue corvé: molte delle loro attività di servizio non sono mai menzionate. 



E si potrebbe aprire una riflessione sul modo di raccontare per figure e parole - quindi anche in un albo come questo. Attraverso due linguaggi differenti che si potenziano a vicenda, ne constatiamo il loro funzionamento reciproco, come moltiplicatore di senso. Il fatto di essere tra loro a distanza, talvolta in contrasto, oppure armonici nel dire cose differenti, stimolano il lettore a infilarsi in questo spazio/intercapedine per potersi godere la storia e i suoi possibili significati da lì. Da dentro, tra parole e figure. 
Terzo colpo di genio sta nella modalità che i ragazzini architettano per ristabilire la giustizia e che poi li porta ad andarsene di lì: semplice ed efficace. 
Anche in questo caso cala il silenzio e si lascia intuire tutto attraverso i disegni che compaiono a libro finito (o non ancora incominciato), ossia i risguardi. Il testo in proposito è giustamente lapidario, così come strumentale è la pennichella della cana guardiana.


Su tutto si sparpagliano i bambini e le bambine, sempre un po' storti, con i nasi a patata, ma grande espressività, con zampette esili, distinti da vari colori di pelle, tutti però con capelli a scodella, ma rigorosamente chiusi nei loro grembiuloni celesti senza colletto o blu con colletto, a distinguere una volta di più, se ce ne fosse bisogno, la classe operaia dalla borghesia capitalista... 

Carla

mercoledì 17 maggio 2023

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


CRESCERE IN TEMPO DI GUERRA



Crescere nonostante tutto: nonostante la malattia, che l’ha resa zoppa, nonostante la guerra, nonostante gli stenti. Questo vuole Ella, la protagonista del nuovo romanzo di Anna Woltz, ‘La ragazza della luce’, che Beisler edita con la traduzione di Anna Patrucco Becchi.
L’azione si svolge a Londra nel 1940, quando la capitale inglese è sottoposta ai quotidiani bombardamenti tedeschi. Ella è una quattordicenne poliomielitica, che con la famiglia ogni notte si trasferisce sulle banchine della metropolitana, che funzionano come rifugio antiaereo. Con lei c’è la madre, che di giorno lavora in un dormitorio, gli zii e il fratellino Robbie, mentre il padre è impegnato in un servizio di sicurezza. Nella promiscuità dei materassi e delle coperte ammucchiati uno vicino all’altro, Ella conosce Jay, un simpatico poco di buono, un ragazzo poco più grande di lei, che a mala pena sa leggere e che si ingegna a trafficare con quello che trova per guadagnare qualche soldo per il resto della famiglia. A completare il quartetto arriva Quinn, quindicenne dell’alta società, scappata di casa in cerca di libertà. Vuole a tutti i costi rendersi utile come volontaria. A lasciare la nobile magione è anche il fratello Sebastian, la cui condotta è considerata immorale.
Ella, Quinn, Jay e Robbie costituiscono uno strano quartetto, legato però da un’intima solidarietà. Ella trasgredisce più volte gli ordini della madre per seguire Quinn, e con Jay una notte corre allo zoo per cercare il fratellino, fuggito per ritrovare delle scimmiette scappate dalla gabbia, rischiando di essere colpita da una bomba. Fra loro quattro si intrecciano sentimenti diversi: l’attrazione, contraddittoria, che Ella prova per Jay, la complicità nel sapersi tutti fuori dalle regole, più o meno consapevolmente.
Su quello che dovrebbe essere un momento di crescita per tutti e quattro si stringe la morsa della guerra, che distribuisce lutti e paura e non consente di vedere il domani. C’è chi, come Jay, affronta la situazione con cinismo e rassegnazione e chi, come Ella e Quinn, non vuole perdere il senso d’umanità e vuole guardare al futuro. Ella lo fa anche scrivendo, prima per raccontarsi una propria vita alternativa, senza la guerra, senza la malattia; poi, per raccontare le vite degli altri, lasciare una testimonianza di chi ha vissuto quei terribili momenti.
L’autrice ci avvisa dalla prima pagina che non sopravviveranno tutti e quattro e tutto il romanzo scorre in attesa del momento in cui un personaggio lascerà la scena. Nonostante il senso di un dramma incipiente, seguiamo le giornate e le notti di questi quattro ragazzi che sono comunque degli adolescenti, o anche bambini, come nel caso di Robbie. I pensieri, i dubbi, i desideri che li attraversano sono quelli di un qualsiasi adolescente: l’amicizia, l’amore, il sesso, la famiglia e quell’insopprimibile desiderio di libertà che fa guardare al futuro, nonostante tutto.
L’autrice nederlandese ha una rara capacità di delineare ritratti vivissimi nei suoi personaggi: è stato così in ‘Tess e la settimana più folle della mia vita’ e in ‘Alaska’ ; così è anche in questo caso; ma qui si abbandona del tutto il tono leggero che ha fatto di ‘Tess’ una delle migliori prove di narrativa per ragazzi; qui, con grande sensibilità e capacità di cogliere anche le sfumature degli stati d’animo dei personaggi, si racconta una condizione di per sé terribile: come si può andare avanti e vivere la propria vita quando la guerra la mette in discussione ogni giorno, ogni notte.
Penso di poter dire che ‘La ragazza della luce’ sia una delle migliori uscite editoriali dell’anno: è un romanzo intenso, intelligente, coinvolgente: lo consiglio caldamente a ragazze e ragazzi maturi, a partire dai tredici anni.

Eleonora

“La ragazza della luce”, A. Woltz, Beisler 2023



lunedì 15 maggio 2023

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

DI MEDUSE E DI VACCHE 

Dacca toxic, Catherine Fradier (trad. Ilaria Piperno e Sante Bandirali) 
Uovonero 2023 


NARRATIVA PER GRANDI (dai 13 anni) 

"'Non voglio ferirti Sacha, ma in certi momenti sei così... bizzarro. È chiaro che sei molto intelligente, dipende da qualcos'altro...' 
'Da una neurodivergenza. Sono autistico. Un autistico di livello 1.' 
'Che roba è?' 
'È una forma di autismo senza deficit di intelligenza, né ritardo nel linguaggio. Significa avere difficoltà a comunicare, a comprendere i codici sociali, a decifrare le emozioni. Questa è anche la spiegazione del mio interesse e della mia tendenza ad appassionarmi esageratamente a temi molto specifici. E spiega molte altre cose...' 
Di colpo mi sento esausto, resto in silenzio. E mi alzo in piedi. 
'Vado a dormire, questa conversazione mi ha fatto stancare. Buona notte Sultana.'" 

Sultana è una ragazzina ricoverata nel Rifugio, il campo base in cui la madre di Sacha, medico, opera. Sacha segue sua madre in tutte le sue missioni all'estero, dal giorno in cui lei ha deciso di ritirarlo da scuola perché vittima di feroci atti di bullismo. 
A Parigi, madre e figlio, ci stanno ben poco: la maggior parte del tempo sono in giro per il mondo a cercare di portare aiuto dove ce ne sia bisogno. 
Ora sono Dacca, capitale del Bangladesh. Megalopoli inquinata e piena di contraddizioni sociali. Quella con cui madre e figlio Sourieau entrano in contatto è lo slum di Hazaribagh, in cui c'è la più grande conceria a cielo aperto del Bangladesh, ne raccoglie al suo interno almeno novanta. 
Condizioni di lavoro impensabili, inquinamento da prodotti tossici e bambini, soprattutto bambini sfruttati che ci lavorano almeno dodici ore al giorno per sette giorni la settimana. Bambini la cui pelle si brucia con gli acidi che maneggiano senza nessuna precauzione. Aria mefitica per i prodotti per la concia e per l'assoluta mancanza di una qualsiasi norma igienica della baraccopoli che è sorta intorno alle concerie. 
Un inferno. Che la madre cerca di risparmiare a Sacha il quale, nel centro, fa la sua vita di sempre, con la sua tenda Quechua, in cui rintanarsi, con Sophie che ne coltiva l'istruzione e ne riempie le giornate, quando sua madre è fuori per prestare il suo aiuto sul campo. 
Ma se Sacha viene prudentemente tenuto lontano da quell'orrore quotidiano, è proprio quello stesso orrore che gli si para davanti con l'arrivo di Anil prima e di Sultana poi. 
Sono entrambi reduci di incidenti alla conceria, entrambi arrivano in condizioni disastrose e senza più voglia di andare avanti: Anil ha perso le gambe e Sultana è stata colpita da uno schizzo di acido sul viso, che le ha fatto perdere un occhio e le ha sfigurato la parte alta del viso. 
Per scalfire il silenzio e la depressione di entrambi entra in gioco Sacha e il suo libro sulle meduse che ha il merito di 'riaccendere' Anil, che presto torna nel gruppo e lascia l'infermeria. 
Mentre il silenzio e la totale apatia di questa ragazzina si interrompe, per incanto e in modo del tutto inatteso, con un sorriso e una mano che si protende verso di lui, con una richiesta precisa nei suoi confronti: basta parlare di meduse... 
Questa è la storia piuttosto avventurosa di una neurotipica sfigurata dall'acido e un neurodivergente che si impegna parecchio perché lei in quella conceria non ci debba più tornare. 

Una bella conferma, dopo Una piccola cosa senza importanza che nel 2021 si era rivelato già molto convincente per diverse ragioni. 
Le stesse ragioni che rendono anche questo secondo titolo qualcosa di molto particolare, letterariamente parlando. 
Qui in modo ancora più evidente che nel primo romanzo, Catherine Fradier fotografa una realtà, anzi due, anzi tre con una lucidità che sa essere anche maledettamente dolorosa. 
Lo sguardo divergente di Sacha, che continua ad avere la sua tenda rifugio, che continua a non mangiare cose marroni, è lo sguardo dominante che attraversa la storia a cui Fradier - andando dritta per la sua strada - abitua i suoi lettori. 
A questa nuova prospettiva di visuale ci si conforma immediatamente, arrivando addirittura a convenire, al fianco di Sacha, che il nostro modo di ragionare da neurotipici non è sempre il migliore e il più efficace. 
Il valore benefico di questo sguardo non credo di doverlo spiegare. 
La seconda realtà consistente che qui viene messa in luce è la situazione dello sfruttamento del lavoro minorile e contemporaneamente le condizioni di inquinamento in cui questi piccoli schiavi si trovano costretti a vivere. Così il caso di Dacca diventa, con le sue crudezze, bandiera di molte altre tremende realtà in cui l'infanzia viene sfigurata. 
Ecco, se qualcuno fosse in cerca di letteratura d'evasione, questo non è il libro adatto. 
La terza realtà che Catherine Fradier mette sulla pagina, ci riguarda ancora più da vicino. Quella che all'inizio sembra essere una storia marginale, laterale rispetto alla situazione delle concerie di Hazaribagh e alla storia-guida di Sultana, irrompe nella seconda metà del libro e lasciando una forte traccia di sé. 
Il fratello di Sultana, Dilip, non lavora come la sorella in una conceria, ma in un mattatoio ed è intorno a questo luogo di sangue e dolore che ruota la parte avventurosa, cui Tradier non rinuncia mai. 
Nonostante la costruzione narrativa non lasci scampo al lettore che resta incollato alle pagine che corrono verso il finale, travolgendolo, ecco, nonostante questo, mentre si è lì che si corre sui risciò attraverso le strade notturne di Dacca, si attraversano incolumi fiumi di liquami e scarti chimici tossici, arriva - una mazzata alle spalle che ci atterra. 
 A tutti quelli che si aspettano che la letteratura sia palestra indolore in cui allenarsi alla vita, beh, sappiano che non è sempre così. 
Se se ne vuole uscire incolumi, in fondo basterebbe chiudere il libro e fare altro. 
Ecco, così come già mi era capitato con Safran Foer, Se niente importa, anche ora con Tradier - che peraltro proprio da Safran Foer si dice illuminata - se chiudo il libro, non riesco a fare altro. 
La mia coscienza è lì che mi guarda e allora faccio voto di non voler più avere una bistecca davanti. Mai più. 
Duro, crudo, impietoso (è forse l'unico modo per accendere l'attenzione di un popolo di 'distratti' e scuotere le loro coscienze?) è il racconto di una notte in quel mattatoio da parte di Sacha che ne attraversa i tremendi meccanismi di morte, guardandoli e raccontandoli con quella precisione matematica che caratterizza il suo modo di mettere in ordine i fatti. 
Talmente indicibili, che è meglio scriverli in uno dei suoi tanti Moleskine. 
Un libro necessario. 

 Carla