venerdì 26 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

DI COMICITÀ IRONIA SATIRA E DI UN GATTO

Papà ha perso la testa, André Bouchard, Quentin Blake (trad. Fabio Regattin) 
#Logosedizioni 2024 



ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Dovemmo arrenderci all'evidenza: la testa di papà era introvabile. 
 Era strano non saper dove guardare quando parlavamo con lui. 
Inoltre, ci dicevamo, prima o poi avremmo dovuto spiegare alla gente che papà aveva perso la testa e che non riuscivamo proprio a trovarla. 
La mamma si disperava pensando a quel che avrebbero detto: 'Che moglie negligente, non sa nemmeno dove si trova la testa del marito! Figurarsi i calzini dei figli, allora!'" 
Così io e mio fratello decidemmo di fabbricare una testa per papà." 

La testa è sparita un giorno, così, senza nessun preavviso. Non è che non l'abbiano cercata ovunque. Persino nei posti dove mai e poi mai sarebbe riuscita a entrare. Ma tant'è. Niente testa. Gli effetti collaterali di questa curiosa circostanza sono molteplici. 
Il primo: una certa goffaggine nel movimento per casa. 

© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa 


Al prezioso e orrendo soprammobile rotto, al padre viene ingiunto di starsene seduto e, pur senza orecchie, lui obbedisce alla voce tonante della moglie. 
Il secondo, nessun rimprovero per marachelle fatte: occhio non vede... 
Il terzo, una certa condiscendenza a fare tutto quello che gli viene richiesto, senza poter protestare. 
Il quarto: nessun russamento notturno. 
In fin dei conti, quasi solo vantaggi e una serie di occasioni propizie e redditizie che balenano alla mente fervida dei due figli. La forza dell'abitudine fa il resto. Andare in ufficio ogni mattina (magari al volante è meglio ci sia mamma), andare a fare jogging al parco. Cose così. 
Dal punto di vista estetico e più meramente pratico, i due bambini realizzano una capoccia in cartapesta, in modo che il mondo non percepisca poi troppo questo cambiamento. E come spesso avviene, anche alle persone coinvolte in questa storia, la forza dell'abitudine e certo spirito innato all'adattamento, fa il resto e ritorna il solito tran tran. 
E se un giorno, così come se n'è andata, la testa tornasse? 

La scintilla che accende le storie di Bouchard è sempre molto luminosa e questa forse lo è ancora più di altre: partire da un assurdo assoluto, da un paradosso, impensabile purché comprensibile, quindi stravolgere o meglio capovolgere la realtà in un colpo solo, quindi rimettersi in piedi e riguardare tutto da un punto di vista consueto che però a questo punto assume i toni del grottesco e del comico. 
Cosa ne deriva? Umorismo allo stato puro. E, sotto sotto, un bel po' di ironia. 
L'umorismo è lì, sotto gli occhi di tutti: decapitare un padre e un marito e renderlo diverso, innocuo, condiscendente, manipolabile fa ridere. 
Ma Bouchard fa un passetto in più. 
Questo umorismo che a tratti si fa comico, anche grazie ai disegni di Blake, viene potenziato dallo sguardo costantemente ironico di Bouchard. 
Parlare in senso ironico significa in ultima analisi: dire una cosa e pensarne un'altra, ma facendolo capire... Dal vocabolario Treccani, "nell’uso com., la dissimulazione del proprio pensiero (e la corrispondente figura retorica) con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento"
Ecco quello che succede in una delle più esilaranti tra le storie di Bouchard, l'unica che è stata affidata a un altro illustratore...e che illustratore! 

© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Certamente una storia che è nelle corde di Blake (credo che se Sir Blake non ne avesse riconosciuta la qualità e, da parte sua, la possibilità di renderla al meglio o addirittura di potenziarla, avrebbe gentilmente declinato l'invito. Credo) 
Allora. Se andiamo a vedere nel dettaglio quali sono gli snodi tra comicità e ironia di questa storia individuiamo anche i punti che a Blake offrono agganci molto solidi. 
La breve frase iniziale, quindici parole in tutto, è in grado di ribaltare la realtà e far partire per un viaggio che si preannuncia parecchio interessante. E, inevitabilmente, comico. 
Che questo succeda nella prima pagina, quindi in quella di destra, che necessariamente prevede la sospensione del giro, è elemento ulteriore di grande attesa. Blake asseconda il ribaltamento di Bouchard e disegna, tra due ragazzini, i figli piuttosto preoccupati del protagonista acefalo, proprio lui, meravigliosamente inespressivo, in gilet e cravatta. Si ride. 
Già dalla pagina successiva, Bouchard fa tornare tutto nella norma, a parte l'anomalia di partenza. E lo stesso fa Blake che disegna un uomo acefalo che dà una manata sul prezioso quanto brutto soprammobile e una moglie rossa di rabbia per quel che vede accadere davanti ai propri occhi - quindi disegna quello che il testo racconta, ma si prende lo sfizio di mettere un gatto che, guadagnatosi in silenzio il frontespizio, anche in seguito, continuerà a essere muto testimone atterrito, colpito, pestato, schiacciato, calciato, aspirato e addormentato ecc. ecc.
 
© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Ed ecco che il testo qui si fa ironico e il disegno invece è comico. 
Altro grande snodo di divertimento, che pende tra la comicità di alcune situazioni e l'ironia del testo, si genera nella minuziosa fase di ricerca, dove Blake deve accelerare con i disegni a punteggiare il testo che si fa incalzante.


© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Per non parlare del seguito che riguarda la costruzione di una nuova testa che tolga d'impaccio i bambini che così sapranno dove guardare quando parlano al padre e la loro madre che non dovrà subire lo stigma di parenti e conoscenti... La faccia di Blake è comica, le ragioni della sua costruzione sono ironia pura. Blake accelera un altro po' e quindi, girata pagina, rallenta di nuovo e si gode la bellezza di quella testa rotonda e meravigliosa che nella sua unica espressione sorridente e poco poco beota si rivela massimamente buffa, comica appunto, nelle diverse situazioni, perché in tutte sa essere è del tutto fuori luogo. 
A questo punto Bouchard salta il fosso e parte con le sue consuete esagerazioni, i suoi paradossi. 
E lo fa in un lungo elenco di valutazioni tra i tanti pro e l'unico contro che una situazione del genere produce sulle routine quotidiane di una famiglia. 
E Blake invece che fa? Gli va dietro e si diverte, si diverte si diverte.... 

Carla 

Noterella al margine. Va da sé che, anche se "distratti" dall'universo di Blake, non debbono sfuggire le molte frecciatine satiriche che Bouchard lancia qui e là. Come se fossero una sua sigla irrinunciabile nelle sue storie. Il perbenismo della madre, certe sue sottili rivalse nei confronti di un marito evidentemente non sempre molto collaborativo o premuroso o affettuoso in un recente passato... e via andare, tacendo sul finale. 


© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


I suoi bambini invece sono, come peraltro anche quelli di Blake, maestri di pragmatismo e capaci di andare sempre dritti al punto. 
Beati loro!

mercoledì 24 luglio 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

L’OROLOGIO DAVANTI AGLI OCCHI 


Lo scopo dell’arte è spostare impercettibilmente la terra sotto i piedi delle persone. Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica sono il modo in cui facciamo le cose. L’arte è il motivo per cui le facciamo. 
Oliver Jeffers 

Una volta una persona a cui devo molte cose mi ha fatto capire un concetto difficile in un modo semplice: mentre parlavamo ha preso il piccolo orologio analogico che era appoggiato al tavolo, me l’ha messo a due centimetri dagli occhi e mi ha chiesto le ore. Non le vedo, ho risposto. E lui mi ha detto è questo che intendo quando dico che per capire le cose che ci riguardano, dobbiamo fare almeno due passi indietro. Se siamo troppo vicini, diventiamo ciechi. 
Questo episodio è stato il primo pensiero che mi è nato dopo la lettura di Intanto sulla terra… Alla ricerca del nostro posto nel tempo e nello spazio di Oliver Jeffers. 
La storia che racconta Jeffers è apparentemente semplice: un padre chiama i propri figli, devono andare, salutano la mamma, salgono in auto, escono dalla città. La voce narrante però non è quella di nessuno dei tre personaggi rappresentati, pare una voce che da tempo, da ben prima che il libro sia iniziato, stia riflettendo sull’agire umano. 
 Questo è l’incipit del testo: 
“In tutto il cosmo 
questo posto nel nostro sistema solare 
è il posto dove tutte le persone vivono 
da che siamo umani.” 
Tant’è vero che a un certo punto la voce narrante propone ai tre una deviazione dal loro percorso e il padre, nel frattempo irritato dalla litigiosità di fratello e sorella, accetta subito.
 

Il narratore chiede loro di indossare il casco spaziale: direzione la Luna, 400 mila chilometri dalla Terra, un anno di viaggio, come dice la voce, calcolando una velocità media tipicamente automobilista di 60 km orari. 
E in questa parte esplode il colpo di genio di Jeffers: man mano che i nostri tre procedono nel loro viaggio e tanto più tempo ci mettono, tanto più indietro nel tempo storico va il nostro narratore. Come può essere mi chiedete. Ehi, ma questo è un albo illustrato, tutto può essere ed esserlo in modo immediato: per andare sul pianeta Venere ci si mettono 78 anni (sempre viaggiando in auto a 60 km orari), cosa accadeva 78 anni fa sulla Terra? Era la metà del Novecento e l’intero pianeta combatteva una grandissima guerra. Se volete andare su Mercurio in auto, dovete calcolare 150 anni: cosa succedeva 150 anni fa sulla Terra? Un piccolo gruppo di nazioni si divideva un continente intero, era l’epoca del colonialismo. 


E così di pianeta in pianeta, mentre i nostri tre protagonisti avanzano, o meglio si allontanano dalla Terra, tanto più il narratore indietreggia nel tempo storico, raccontando i conflitti che hanno caratterizzato la nostra storia umana. Cosa sta facendo Jeffers? 
Beh, a me verrebbe da dire che sta allontanando l’orologio dagli occhi. 


Tanto più ci si allontana tanto più si riesce a leggere la Storia in modo più completo e la Storia è anche (soprattutto?) una storia di conflitti. Tanto più vediamo la Terra come un unicum, tanto più la comprendiamo e comprendiamo che noi siamo tutti e uguali figli di quella palla schiacciata appesa nello spazio. Ok, fin qui ci siamo. 
Quanta complessità, quanto Jeffers. 
Elementi jeffersiani ne abbiamo tanti in questo albo: le relazioni in primis, con questo padre calvo (oh, ma che bella questa rappresentazione dei padri calvi, esistono! Entrano negli albi illustrati! Sempre grati a Jeffers che racconta anche quello che vede) e i due pargoli litigiosi; il tema del volare, del guardare in su, del cielo insomma (dal suo famosissimo Nei guai, in avanti le sue storie sono spesso lassù); il tema del viaggio pure. 
Ma. Ma qualcosa mi sfuggiva ancora. Né una prima lettura, né una seconda, né una terza, mi bastavano. Capivo che la complessità dell’albo andava ancora oltre (lassù!) e io volevo sapere. Sapete quando avete degli indizi che portano tutti da una parte per scoprire il colpevole, e poi qualche elemento qua e là che non si inserisce perfettamente nel vostro quadro? Ecco, io ero a quel punto. 
In esergo al libro c’è una frase di Jeffers: 
Gran parte dell’ispirazione per questo libro viene dai ripetuti tentativi di spiegare la storia e la geografia del conflitto in Irlanda del Nord a persone intelligenti – che non hanno mai saputo nulla di nessuna delle due e non se ne sono mai interessate – a un oceano di distanza.” 
Lui cerca di spiegare un conflitto irlandese (senza mai citarlo nella narrazione del libro), che potremmo definire piccolo se pensato nelle dinamiche storiche e mondiali, appunto aprendo lo sguardo, andando nello spazio a vedere come si vede da lassù. 
Ma il vero punto di svolta nella mia analisi del libro è arrivato per caso


In libreria è arrivato Begin Again - come siamo arrivati qui e dove potremmo andare - la nostra storia umana, finora, edito da Harper Collins (tutte le traduzioni al testo in inglese sono mie) e tra pochissimo pubblicato in italiano sempre da Zoolibri, dove alla fine Jeffers scrive una nota magnifica sulla sua poetica, sulla politica, sugli sguardi, sulla speranza, sull’immaginazione. 
In questo piccolo saggio (che spero verrà riproposto nella versione italiana del libro) Jeffers racconta di aver lasciato l’Irlanda del Nord nel 2007, per New York dove nessuno sapeva niente del conflitto irlandese. Lui non se ne capacitava, si arrabbiava ma soprattutto non capiva: forse il mio amico avrebbe detto che aveva l’orologio troppo attaccato agli occhi. Così ha cominciato ad allontanarsi e a capire che anche per gli stessi irlandesi quel conflitto era diventato qualcosa di diverso, era un uno contro uno. Ma se si allarga lo sguardo, se l’orologio si allontana, si capisce che la storia dell’umanità intera è costellata da questi scontri e si capisce che si può agire, per esempio attraverso l’arte: 
“Possiamo rielaborare il nostro contesto e la nostra motivazione per guardare le cose come se facessero parte di una narrazione diversa e più produttiva. 
Possiamo scegliere di dare un senso agli eventi per essere governati da cose diverse dalla paura o dall'odio, dalla rabbia o dall'indifferenza. Possiamo cambiare la nostra storia.” 
Chi sa meglio di un autore che le storie – e la Storia – si possono cambiare? 
Chi sa meglio di un autore di libri per bambini che tutto cambia e che bisogna spiegarlo per bene agli adulti? Ve lo ricordate il libro di Jeffers Come vola un pinguino? Il pinguino contro tutte le leggi di natura cerca di volare (ancora il volo, è proprio un vizio!), ecco io penso che ora quel pinguino abbia imparato a farlo. 

Valentina

"Intanto sulla terra… alla ricerca del nostro posto nel tempo e nello spazio, una visione cosmica sui conflitti con Oliver Jeffers",  Zoolibri 2024

lunedì 22 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

POCHE PAROLE, CONTATE E MISURATE

Bambina senza alleati - Poesie, Cristina Bellemo, Sara Dalla Pozza 
AnimaMundi Edizioni 2024 


POESIA ILLUSTRATA

"Tu ne fai 
una questione 
di statura chissà che la sorte 
non sia troppo avara 
e regali ancora 
qualche centimetro 
come nelle fiabe domandi 
allo specchio 
o al fondo
dei pantaloni alla
matita scarabocchiata
sul muro 
e io qui in silenzio ti guardo
e imparo 
quanto sarà difficile 
essere alla tua altezza." 

Come in molti libri di versi, diversi sono i percorsi che si possono intraprendere e i panorami che si possono manifestare agli occhi di chi legge. Ognuno, nei silenzi della poesia, ha agio di partire, esplorare e trovare il proprio. 
Qui mi pare di averne individuati alcuni, che vanno in direzioni anche lontane, che portano a scenari mutevoli ma che hanno un medesimo punto di partenza e anche di arrivo: Cristina Bellemo. 
Mi pare di vedere la sua infanzia, ci sono i suoi figli, c'è il suo essere madre, il suo quotidiano, la sua generosità, la sua fede, la sua scrittura. Ma inevitabilmente ci sono anche io dentro che suono: la mia infanzia, i miei figli, il mio essere madre. 
In altre parole, c'è lei che scrive e io che leggo dentro quella Bambina senza alleati
Tra i diversi, ne scelgo tre che forse sono quelli che più giustificano il parlare di un libro così, qui. Come se ce ne fosse bisogno... 
Il primo: un grande e un piccolo. 


Con tutte le diverse declinazioni che tale rapporto reciproco può generare: appartenersi, riconoscersi eppure essere diversi. E anche quel constatare che mai si perde, o mai si dovrebbe perdere per un adulto l'essere stato bambino. Un po' come a voler chiudere il cerchio, tornare a quando tutto è cominciato. 
Io avrei deciso di partire da Tu ne fai perché mi pare tanto trasparente e lieve quanto solida come un paradigma. 
Mi pare possa cogliersi lo sguardo di un grande, pieno di tenerezza nei confronti di chi sta crescendo, e di un piccolo che di quella crescita ora ne percepisce solo una questione di statura. 
E ancora racconta di uno sguardo adulto pieno di rispetto e fiducia nei confronti del piccolo. Ne constata  un'altra grandezza, e lo fa giocando con il senso metaforico della parola altezza... 
E ancora in Benedizione si ritrova quella spinta fiduciosa che ogni genitore dovrebbe saper dare ai propri figli, mai dimenticando il senso - anche quello più propriamente laico - che c'è dietro ogni benedizione, augurio di vederli partire per una strada scelta. 
Ancora in Te l'avevo detto, c'è il ribadire che piccoli e grandi hanno modi di stare al mondo diversi. Adulti che siete qui, non dimenticatelo mai! 
E ancora. A proposito di grandi alle prese coi piccoli È andata così segna una sorta di punto di partenza: l'inizio di un percorso di maternità cui si affianca quello di una paternità, dal respiro di sollievo fino alla prima doccia, tornata a casa dall'ospedale. Qui tutto si vede, tutto si sente, tutto diventa sensazione: dal dolore dei punti che tirano, camminando, al bagno riscaldato, all'asciugamano sul termosifone, la paura di morire che si lava via e che conferma che quello è amore che non può finire. 
Il secondo percorso ha a che fare ancora con Cristina Bellemo, ossia con il suo essere quel che è. 

Saper abitare 
la sfocatura 
senza premura 
di essere 
scoperta. 

Beh, accidenti, che grande consapevolezza e che grandi occhi visionari per raccontarsi! E che potenza in questa sintesi. Un'immagine che nel suo essere sfocata ha il merito di diventare universale. Tutti la possono intuire e, volendo, anche riconoscere, se si ha avuto la fortuna di incontrarla almeno una volta.


Anche qui passa tutto attraverso poche parole, contate e misurate, che però, come una ricamatrice sapiente, lei sa tenere insieme, grazie a punti serrati e filo colorato (Silvia Vecchini nella sua nota finale segue questo filo).
Così come la matita lieve di Sara Dalla Pozza, talmente lieve che i versi del retro della pagina emergono come filigrana, la immagina con ago e filo a cucire parole, lei effettivamente ricama sulla pagina il suo amore per la lentezza, il suo desiderio di stare nell'incertezza del suo profilo, la sua ritrosia a mettersi in prima fila. 
Ma a ben vedere quante altre molteplici letture si potrebbero dare di questi pochi versi? Quanti possono riconoscere parti di sé? 
E se fosse invece la timida affermazione di un'adolescente (leggere mi chiudo per averne forse conferma?) 
L'ultimo tratto di strada tra i suoi versi riguarda lo scrivere poesia, che qui è davvero ricamare. 


Una su tutte, Cane che abbaia
Il variegato elenco di suoni che Cristina Bellemo mette in ordine sparso (purché suonino) magicamente diventa due cose: una storia di un giorno (il martedì?) e una vera e propria colonna sonora che la poeta vuole - o deve - considerare... 
Qui i versi finali:... 
Accadono qui 
le parole 
si tenga conto 
per favore 
dell'influenza
 sulle trame e sulle scritture 
le colonne sonore 
non sono certo questione 
di secondaria importanza 
nella formazione 
 dell'autore 
il silenzio il rumore. 

Ecco fatto, un bel libro di poesia.

Carla

venerdì 19 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

ALBERI

Bella Bambina dai Capelli Turchini
, Adolfo Córdova, David Álvarez 
(trad. Federico Taibi)
#Logosedizioni 2024 


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 9 anni) 

La Bella Bambina dai Capelli Turchini apre gli occhi per la prima volta. È distesa su un pascolo. Ode un pianto. Si alza e lo trova. Non è l'erba a piangere, ma un neonato. La rugiada si è già asciugata sulla sua fronte e il suo corpo risplende violaceo. Lei lo culla, lui smette di piangere. Cerca la madre, il padre, la casa. Niente. Non c'è nessuno. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

La bambina è una fata, è nata insieme al pianto del bambino e deve prendersi cura di lui sempre, affinché non si affacci agli abissi, non scivoli nel fiume, non mangi le bacche scarlatte. 

Ma così non andrà: i lupi in agguato nell'erba divorano lei e il bambino. Ma il vento ritesse i suoi frammenti e la trasforma in lupa, il pelo turchino. Dal sangue del bambino lei fa nascere un ginepro. E riparte inquieta fino al prossimo bambino, un altro figlio abbandonato, ma un freccia di un cacciatore la trova e lei muore ancora una volta. Ma il bimbo ora è larice. 
Il vento la tesse ancora una volta, un picchio imperiale che di turchino ha la corona sul capo. 
Di bambino in bambino la fata si trasforma, e trasforma lei stessa i piccoli che incontra in alberi. 
Questa è la sua grande magia. 
Fino al giorno in cui chiede agli spiriti di poter vendicare la cattiveria dei grandi verso i bambini... 
Dai genitori che li abbandonano nel bosco fitto, fino a quelli che organizzano grandi eserciti per farsi la guerra: lei li sfiora e il suo grande potere lascia al suo passaggio boschi spuntati dal nulla. 
Ma un giorno la Bella Bambina conoscerà Lorenzino, con lui parrebbe tutto diverso... 

Campanellini risuonano distintamente: dal titolo, all'incontro con Lorenzino tutto porta in una unica direzione. Pinocchio. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini



Sul percorso che Adolfo Córdova fa per raccogliere i singoli frammenti e poi ricomporli tutti in una magnifica storia che in qualche modo si cuce a quella del burattino di legno non si dirà una sola parola. Mentre invece mi parrebbe interessante notare lo sguardo e l'incedere visionario che tanto chi scrive, quanto chi illustra condividono. 
E ancora. Mi parrebbe degno di attenzione il senso più profondo di questa storia che parrebbe la prima di una serie, stando a quanto si legge a racconto finito: 
 "Questa collana è un omaggio a tutti i personaggi dimenticati che non si affacciano ai pozzi dei desideri, non trovano tesori, né mordono mele avvelenate. Sono i personaggi secondari, nati dalla penna di grandi autori che hanno creato per loro momenti fugaci così autentici da far nascere in me il desiderio di prolungarne l'incanto." 
Ricordo molto bene quando David Almond spiegò ai suoi lettori che Mina, la ragazzina Mina, comprimaria dentro Skellig, fosse stata per lui - quasi suo malgrado - una tale rivelazione da pensare di dedicarle un libro tutto suo in cui è protagonista assoluta. E così è andata. E, accanto a Skellig, si è aggiunto un altro gioiello che è, appunto, La storia di Mina
La logica mi pare sostanzialmente la stessa. Con un distinguo che però non è da poco. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

Qui  ci si muove tutti in un immaginario condiviso, quello delle fiabe, ovvero dei racconti della nostra infanzia. E questa circostanza permette a Adolfo Córdova e David Álvarez di volare ancora più liberamente. Tutti noi possediamo una mappa comune dello spazio di volo e quindi l'orientamento lo si recupera molto più facilmente. 
Dico questo perché la cosa che si percepisce qui è la grande libertà visionaria, che della fiaba mantiene il tono, ma si espande in direzioni che tanto ricordano anche visivamente il genere del fantastico puro, come pure la mitologia più classica, in fatto di metamorfosi, almeno.
Per questa ragione non credo di illudermi al pensare che i lettori più giovani godranno di questo continuo gioco di mutazioni, che anche visivamente richiedono occhio attento e poi grande stupore. Ma credo pure che anche i più grandi possano facilmente costruire dei bei nessi tra Ovidio e la Bella Bambina. 
Un altro punto interessante, almeno per quel che mi riguarda, deriva da una mia naturale attrazione 'professionale' verso le riscritture intelligenti di storie classiche. 
Il cambio di prospettiva oppure di registro o di tono a mio parere è foriero di sconfinamenti, quindi di novità, quindi di curiosità e attenzione e quindi di pensiero. 
A riprova di ciò, porto l'esempio di come quasi a ogni frase che Adolfo Córdova mette sulla pagina e a ogni disegno che su quella stessa pagina si espande e dilaga, è proprio il caso di dirlo, si accendano riferimenti e pensieri anche molto lontani dalla storia in sé. Evocatori. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

Libro benefico. 

 Carla 

Noterella al margine. Sui disegni di David Álvarez andrebbe scritto un post a parte. Colpevolmente lasciato indietro e poi fagocitato dal resto è rimasto un altro libro che mi aveva colpito un bel po': La donna Uccello, uscito nel 2022. La promessa è quella di farlo tornare in superficie, questo libro, e dedicare a questo artista messicano almeno un po' di luce della tanta che meriterebbe.

mercoledì 17 luglio 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

ROCAMBOLESCAMENTE CANE 


È raro che un libro che racconta di tossicodipendenze, di malattia e infine anche di morte, di abbandoni, di povertà e di violenze possa risultare così divertente. (A parte quelli di Marie-Aude Murail che in questo è Maestra). 
Con Vita da cani questo succede. Ed è solo merito di Basse, un cane “con la pancia cascante e gli occhi tristi, e una delle zampe posteriori zoppica un po”
Eccolo qui, Basse, parole sue. 
E poi manco si chiamerebbe Basse perché lui, come pare tutti i cani, si dà dei noni che cambia quando si stufa. Ora in effetti si chiamerebbe Reginald Birger El Nachos Bigdog IV…se solo gli umani certe cose le capissero… 
Comunque Basse (Reginald) è il nostro narratore: simpatico, super ironico, Amico con la a maiuscola, molto saggio, determinato, intelligente e coraggioso, con una imbarazzante debolezza per le coccole ben fatte, per i cuscini comodi e per la pizza quando avanza, ma capace di analizzare ogni situazione seguendo odori (anche la paura ha un odore) ed esperienza di vita, sempre pronto ad affrontare qualsivoglia complicazione. 
Le complicazioni in questa storia sono assai, anzi pare proprio che sulle complicazioni si regga tutta la vicenda. Sulle complicazioni e su Basse (Birger). Credibili o inverosimili, le complicazioni crescono insieme al racconto. 
Il fatto è che Basse (El Nachos) è il cane di un tossico, Kjell il tossico. E Kjell il tossico, per quanto simpatico, è pur sempre un tossico e dunque sta sempre nei guai: un furto, una fuga, una crisi di astinenza, un espediente, un’idea geniale per svoltare che poi tanto geniale non è. Basse (Bigdog IV) è sempre lì pronto a fronteggiare l’imprevisto perché pure quando pare andare tutto strabene, quando sembra rimettersi tutto in equilibrio e si fanno discorsi da adulti consapevoli e quasi sdolcinati, ecco che le cose si complicano nuovamente. 
Ma il vero imprevisto in questa storia è davvero peso: a Kjell e Basse capita uno di quei fatti della vita, di quelli che o abbandoni e ti distruggi per sempre, oppure prendi forza e vai. 
Dunque, una storia che racconta cose per cui ci si aspetterebbero lacrime e disperazione alle pagine pari e condanne e buoni consigli alle pagine dispari e invece gli ingredienti di questa storia sono ben altri: 
1) un quadrupede che è un Amico determinato e sapiente 
2) una voce narrante capace di portare la nostra immaginazione tra le ossa, i peli, il naso e le zampe di un cane. Vista e odorata da questa altezza, la vita può offrire diversi aspetti divertenti. 
3) un intreccio narrativo vivacissimo, a tratti iperbolico ed ecco che questa storia diventa davvero una bella storia. 
Arne Svingen è autore norvegese, molto letto e molto premiato in patria dove ha pubblicato più di 100 titoli, moltissimi per ragazzi. In Italia ne abbiamo visti arrivare tre: Macchia nel 2007 per Salani ma ormai è fuori catalogo, La ballata del naso rotto pubblicato nel 2019 da La Nuova Frontiera junior e ora Vita da cani per lo stesso editore. I due romanzi hanno evidenti punti di contatto: i guai, l’amicizia, le dipendenze, l’ironia. Entrambi sono ben calati in uno spaccato di società assolutamente reale. 
Come molti e molte di coloro che scrivono dal nord Europa, Arne Svingen sa raccontare le esperienze più dure della vita con una leggerezza che non toglie nulla né alla realtà né all’immaginazione. Anzi gli consente una schiettezza di sguardo che altri autori (quelli preoccupati di dare indicazioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato) non riuscirebbero a sostenere. 
Per lettori dagli 11 ai 13 anni: una realtà fatta di spacciatori vendicativi e di assistenti sociali troppo ingenue (o troppo sagge?), di fratelli sinceri e di ladri traditori, di bugie improvvisate e di verità che salvano, di madri alcolizzate e di un cane, Reginald Birger El Nachos Bigdog IV anche detto Basse, che è davvero molto molto simpatico. 
Un Amico. 

Patrizia 

"Vita da cani", Arne Svingen (trad. di Lucia Barni), La Nuova Frontiera 2024 

lunedì 15 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

SE DI OGNI STRETTA SAPRETE FARE NODO...

Filo filo d'ombra
, Teresa Porcella Maria Giulia Berardi 
Sabìr editore 2024 


POESIA ILLUSTRATA 

"Gira gira l'ombra 
il piede e la sua orma 
il sole e la sua luce 
gira chi è felice! 

Comincia così questo piccolo grande libro di fotografia e di poesia. 
Fotografia e poesia sono due modi fratelli per leggere il mondo e restituirlo agli altri. 
Fotografa e poeta sono due voci sorelle per leggere il mondo e restituirlo agli altri.


Il primo è un girotondo di bambine, fotografato in bianco e nero, nel suo turbine: nulla è fermo, ovviamente neanche le ombre sul selciato. Di queste bambine con i capelli volanti le facce non si vedono, ma si percepisce con chiarezza la felicità che c'è in quel giro pazzo e veloce che stanno facendo e che le parole adesso hanno messo bianco su nero.
 

Segue una successiva foto in bianco e nero: fila di gambette di bambini che - e lo capiamo solo dalle ombre - si tengono per mano. In primo piano, un faccino sfuocato di chi è rimasto fuori dal gioco. Segue un piccolo capolavoro di finzione, con cui il testo gioca a vedere quel che non si vede: un gallo senza becco o un coniglio con tre orecchie... 

Queste sono le prime tre fotografie con versi legati da un filo sottile che danno vita a uno dei quattro tempi che scandiscono un racconto per poesia e immagini: le ombre in gioco; le ombre in cammino - tante bici e tanti gatti e un'età della scoperta; cuori di ombre, dove è l'amore solido a essere protagonista e infine ombre di ombre, dove i fili si tirano e diventano conclusioni. 
Quattro, combinazione, sono anche i fili di ciascuno dei protagonisti che hanno messo la propria arte nel creare questo oggetto. 
Il filo della fotografa, Maria Giulia Berardi, saggia osservatrice che ha dato il suo contributo più efficace, oltre a quello fotografico, nel lasciare che le cose scorressero e diventassero altro, qualcosa di più. 
Il filo della poeta, Teresa Porcella, che su quelle foto ha scritto perché foto così "a lei la fanno scrivere" (op.cit.) e che a testa bassa - come fa lei, sempre - è andata avanti fino a vedere che diventava libro. 

Che cosa buffa se i mondi facessero la muffa...

Il filo del grafico, Mauro Luccarini, una terza bella testa, che all'idea di poter ronzare intorno alle ombre si è dedicato molto volentieri, curandone una forma ideale. 
E in ultimo il filo dell'editore Sabìr che sulle scommesse e sui libri di ricerca ne ha fatto una sua scelta editoriale. 
E' buffo ma, chissà quanto consapevolmente, sono proprio alcuni versi di Filo filo d'ombra a trovare la sintesi - poetica - di tutto questo: 

"Se di ogni stretta 
 saprete fare nodo 
non ci sarà mai un gesto 
di cui non scatti il modo" 

Se di ogni stretta
saprete fare nodo...

Sono almeno tre le cose che direi importanti da notare. 
La prima, i due modi fratelli di raccontare. Sempre più spesso noto e penso che poesia e fotografia abbiano come matrice condivisa il tipo di sguardo sulle cose. 
Entrambe distillano, lavorano sul togliere, piuttosto che sull'aggiungere, entrambe hanno bisogno di un occhio attento ma anche un po' visionario, cioè entrambe hanno la facoltà di far concentrare l'attenzione di chi le "legge" su un punto, su un unico fuoco. Ma entrambe fanno vedere anche oltre, altro - come ogni forma d'arte fa. 
Entrambe lavorano sui dettagli, o per meglio dire, sulle cose che passano inosservate ai più. 
Entrambe lavorano sugli istanti. 
Entrambe, di foto in foto, di poesia in poesia, hanno solo un colpo in canna e quindi non possono permettersi di sparare a vanvera. 

Solo un matto 
può bersi l'ombra...

L'occhio visionario. Ecco in questo libro gli occhi visionari sono stati quattro e ognuno di loro ha fatto fare una capriola ulteriore a Filo filo d'ombra
Sono abbastanza sicura che la lettura poetica che Teresa Porcella ha fatto delle immagini di Maria Giulia Berardi, l'abbia stupita, ossia si sia meravigliata lei stessa delle cose che Porcella vedeva al di là della sua stessa foto. 
Lo stesso credo che Porcella si sia meravigliata del lavoro di Berardi e poi di quello di Luccarini, così tanto attento a ogni aspetto grafico. Così tanta roba da farla diventare una terza lingua del libro. E tutti noi continuiamo a stupirci nel vedere quanto "non si veda", ovvero non faccia ostentata mostra di sé, il buon lavoro di un grafico: c'è ed è potentissimo, ma ti avvolge impalpabile e non pesa nulla. 
E ultimo a stupirsi e a gioire sarà stato Sabìr nel vedere un libro così ben fatto ad arte... 
La seconda. Un po' ha a che fare con Luccarini, ma soprattutto con Porcella che è quella che ha visto più lontano e più in alto di tutti. Almeno al principio. La scelta delle immagini, una più  interessante dell'altra, il loro diventare sequenza e quindi narrazione, e la capacità di saper usare non solo la lingua delle parole, ma anche quella dei colori. Non dico di più, ma seguite il viola di un fondo che poi diventa il rosa di un vestitino che poi ridiventa il viola di un'anfora. E capirete cosa intendo. Finito il viola, seguite il filo rosso... 
La terza. Come tutti i libri fatti con cura e con testa, dove quindi sapienza e visione siano nelle giuste proporzioni, anche Filo filo d'ombra può essere finestra che si spalanca su ogni lettore, per mettere in comunicazione il suo dentro con il suo fuori. 


Libri così sarebbe bello vederli in azione tra le mani di ragazzini e ragazzine che hanno notato le loro "ombre" e quelle degli altri. 
Con tutto quello che questo può significare. 

Carla

venerdì 12 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

L'ISTINTO DI NARRARE 

La prima storia che abbiamo raccontato, Rafael Yockyeng, Jairo Buitrago 
(trad. Sara Ragusa) 
Terre di mezzo 2024 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Trattenne nella memoria gli animali che avvistava fugacemente lungo il cammino. Si macchiò le mani, prima con il carbone, quindi con minerali, rossi, ocra; approfittava della superficie liscia o ruvida delle pareti. Usò minerali triturati, petali, pollini e bacche. 
Lasciò trasudare la roccia, trasformò la caverna in una cattedrale. Osservò la luce, si perse nella luce, disegnò la luce. Con il passare del tempo, quando il freddo crebbe e poi si calmò di nuovo, loro, i sopravvissuti di ogni notte, cercavano rifugio lì per riconoscersi, per cantare, per raccontarsi storie, per tornare a essere sé stessi." 

Lei è una bambina preistorica, del Pleistocene. Con la sua famiglia e con il suo piccolo clan e qualche animale che lungo il percorso si aggiunge allo sparuto gruppo, attraversa luoghi e tempi di un mondo nuovo nuovo. Per tutti loro, ma soprattutto per lei, è pieno di scoperte.
 

Per gli altri anche di incognite e di pericoli. La lotta per poter sopravvivere in condizioni così primordiali è davvero dura. Alcuni di loro non ce la fanno a sopravvivere, ma per quelli che restano, la scoperta di quella grotta, segna davvero un punto di svolta. 
E per lei diventa il primo grande spazio naturale per narrare tutto quello che il suo sguardo (al pari di bambini e animali), ben più attento di quello degli adulti a cui mancano del tutto gli occhi, la sua immaginazione più fervida, il suo pensiero più acuto di quello degli altri, nell'atto di farsi memoria, diventa immagine. 
Tutto si trasforma in figura che, a sua volta, dà l'avvio al primo racconto dell'umanità. 
 
Un libro senza parole per raccontare di come le prime storie che l'uomo ha raccontato a se stesso e ai suoi simili siano state quelle per immagini. 
Il grande silenzio del testo - fatta eccezione per la nota conclusiva - trova nelle grandi tavole a doppia pagina, in bianco e nero, il segno della grafite, un suo preciso significato. 
Il fatto che il libro sia senza parole non significa affatto che la storia che contiene possa variare di molto da lettore a lettore. Ciascun lettore, piccolo a grande che sia, avrà agio di mettere secondo una personale e quindi diversa sequenza i dettagli, i particolari, potrà seguire i singoli rametti narrativi, ma il nocciolo di senso intorno a cui ruotare, la radice da cui tutto si sviluppa, non cambierà di molto. 


Qui si sta dicendo una cosa molto ben chiara: il nostro essere umanità ci distingue dagli altri viventi per la capacità che abbiamo di narrare storie. Capacità che - in accordo con Jonathan Gottschall - ha tutte le caratteristiche dell'istinto (L'istinto di narrare, Bollati Boringhieri 2014). E come tale è necessario al pari di respirare. Capacità che ci dovrebbe rendere comunità: vedi la penultima e l'ultima immagine, per capire cosa si intende. 
Il secondo grande nodo intorno a cui tutto ruota ha appunto a che fare con la lingua delle immagini. Che detto da due che di mestiere fanno libri illustrati per bambini, sembra piuttosto prevedibile e comprensibile. 
Calvino, nella sua lezione sulla Visibilità, metteva in guardia dal pericolo di non saper più mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, perdere la capacità di raccontare per immagini. La questione è anche un po' questa. 
Lui, che è stato maestro assoluto del racconto fantastico, ha dichiarato che ogni racconto partiva da una immagine visuale: un uomo tagliato in due, un'armatura vuota, un ragazzino che sale su un albero e continua viverci sopra per sempre, fino al decollo definitivo in mongolfiera verso chissà dove: a proposito di immaginazione... 


In qualche modo anche Rafael Yockyeng e Jairo Buitrago ci stanno dicendo la stessa cosa: se voglio raccontare una storia, sarà una figura il mio primo punto di partenza. Come dargli torto? 
La parola arriverà dopo. Non è forse questo il processo della nascita del mito? Un'immagine con della storia intorno. 
E la storia senza parole che abbiamo davanti non ricalca in qualche modo il senso del mito che - ci hanno raccontato - è all'origine di chi siamo? 
A mio avviso si può fare qui anche un ulteriore passo nella direzione del ragionamento di Calvino. Alludo al punto in cui lui dà dell'immaginazione la definizione seguente: essa è il 'repertorio del potenziale, del possibile'.


Se è pur vero che quella bambina fa il primo passo mettendo in connessione la memoria, anche quella collettiva, la memoria del reale appunto (la caccia, la morte, le fughe sugli alberi, gli incontri con animali feroci e con animali che invece sono in cerca di domesticazione in cambio di cibo e protezione) con le sue mani e i pigmenti che si inventa, e sulle pareti di roccia rappresenta ciò che ha visto, è altrettanto vero che su quelle stesse pareti di fatto il racconto che lei fa, o meglio decide di fare, è solo una delle tante storie possibili che avrebbe potuto raccontare. 

Nessuna illusione: in questo gran bel libro ci sono comunque almeno tre cose che non mi convincono. 
La prima riguarda il titolo che, a quel che vedo, ha mandato in confusione tutti gli editori non ispanici che di Ugh! Un relato del Pleistoceno, ossia Uff! una storia del pleistocene, hanno dato versioni diverse. TdM, come è tradizione, ci ha tenuto a spiegare tutto in anticipo, gli anglosassoni hanno puntato invece sul fattore tempo: Afterward, Everything was Different
La seconda riguarda la spiega finale che pecca di retorica oltre che essere ridondante rispetto alle figure. Più apprezzabile sarebbe stato invece sottolineare che, non è solo per un fatto di parità di genere l'aver messo una ragazzina ai pigmenti, ma dipenderebbe -stando a quanto si legge negli studi per esempio di Dean Snow- da una nuova acquisizione scientifica: spetterebbe effettivamente soprattutto alle donne la gran parte delle pitture rupestri. 
La terza. Un verbo che si sarebbe potuto tradurre con più estro: "Lei aveva capito come approcciarsi alla roccia..." 

Carla

mercoledì 10 luglio 2024

FAMMI UNA DOMANDA!

QUEL PUZZLE FATTO DI MILIARDI DI PEZZI


Rimanere sul sentiero. Note naturalistiche per escursionisti felici. Nel titolo è già il senso completo di questo libro. Non ci racconta semplicemente il paesaggio montano con la sua varietà vegetale e animale (o meglio, non solo), ma ci invita ad andare, ci racconta come fare. Incarna il senso dell’intera collana PiNO, ossia Piccoli Naturalisti Osservatori. 
Ai bambini, in generale al lettore, si chiede di mettere sotto braccio il libro, ma poi gli si dice esplicitamente di andare, di prendere la via, di seguire i suggerimenti di chi ha lunga esperienza di quei luoghi. 
E sul sentiero si rimane. Il verbo scelto non è casuale, implica una condizione volutamente stabile, la negazione di una corsa, di un procedere con fretta. Il sostare al margine, la scelta di un punto di vista che non soltanto strategicamente si rivela indispensabile per riuscire a osservare gli animali, ma che in sé contiene la radice di una scelta molto più ampia, che racconta di un percorso condotto mai in modo invasivo, ma estremamente rispettoso, di un approccio che ritiene ogni esperienza come base di apprendimento scientifico e umano. 


Se si resta, si riesce a osservare, a disegnare, si accetta pacificamente di aspettare. E si scopre che non solo in questo modo si impara molto di più sugli animali, ma si impara dagli animali, perché loro quei luoghi li abitano da sempre. Noi siamo gli ospiti, noi quelli che dobbiamo discretamente e umilmente cercare di avvicinarli. E così l’orso diventa un compagno di viaggio, capace di insegnare l’importanza del tempo e del mangiare sano (deve essere infatti in grado di selezionare accuratamente il cibo che gli garantisca le calorie utili ad affrontare il lungo letargo). 
Il libro è scritto in prima persona e parla direttamente al lettore. È un libro di divulgazione che si propone come un resoconto di viaggio, ma non di uno in particolare, bensì è il frutto di una sintesi di tanti di questi viaggi, in cui l’autrice ha raccolto molte informazioni che sono servite ai suoi studi e che adesso mette in parte a disposizione dei ragazzi curiosi di conoscere la natura dei sentieri boschivi di montagna.


Si parte dalla preparazione dello zaino: perché sia chiaro che ogni attenta osservazione non può essere improvvisata e che ogni dono che riusciamo a cogliere della natura dobbiamo essere in grado di osservarlo e custodirlo al meglio. Non deve mancare l’abbigliamento idoneo, una borraccia, un po’ di cibo e una serie di attrezzi che consentono l’osservazione più attenta: binocolo, bussola, lente di ingrandimento. Ma insieme a questi, anche un quaderno e dei colori, perché si impara osservando, certo fotografando, ma si riesce ad arrivare tra le pieghe più strette di piante e corpi animali se si decide di disegnarli. 
Il disegno dal vivo costringe allo stesso tempo a una visione d’insieme e a una dettagliata, si parte da uno schema, quello dell’ingombro complessivo e si scende a riprendere ogni dettaglio: la forma del muso, la lunghezza della zampa e ancora, lo schema geometrico per disegnare una farfalla in volo o un imbuto rovesciato per disegnare un fiore. E pensate quanto si possa imparare dal disegno delle ossa, dai crani dei vari animali, quanto utile possa essere seguire la forma di ogni differente bocca e il contorno di corna e zanne. Ogni forma ritrova la sua precisa ragione d’essere e si svela come il risultato straordinario di migliaia di anni di evoluzione! 
Non è un manuale per disegnatori, ma per osservatori attenti e curiosi. 


Non dobbiamo avere l’ambizione di realizzare delle opere d’arte, ma quella di riportare su un quaderno un resoconto visivo. Così anche semplicemente elencare la varietà di verdi o di colori in generale, alla quale assistiamo nelle differenti stagioni, può essere occasione preziosa per posare lo sguardo sul paesaggio in maniera meno frettolosa. 
A corredo dei testi, nelle pagine troviamo numerose fotografie e disegni, spesso combinati tra loro, come appunti in un taccuino di viaggio in cui incolliamo delle foto e ci annotiamo sopra scritte e disegni, come fossero entrambi delle note a margine. E la scelta grafica supporta ancora una volta - come anche nell’altro titolo della collana, illustrato e scritto da Elisabetta Mitrovic In riva al mare - l’idea che questo libro sia un compagno di viaggio, ma soprattutto invita il lettore a produrne uno proprio! 
“Tutti gli animali, compresi gli uomini, fanno parte di quel puzzle fatto di miliardi di pezzi che è la natura, nostra prima e vera casa. Ogni pezzo necessita degli altri perché si crei quell’equilibrio delicato e indispensabile che ci permette di vivere. L'ho imparato camminando con i miei compagni di viaggio.” 

Teodosia 

"Rimanere sul sentiero. Note naturalistiche per escursionisti felici",  Elisabetta Tosoni, Elisabetta Mitrovic,  Topipittori 2024