mercoledì 30 novembre 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

PRETEND THAT YOU'RE GOOD AT IT! 

La mia morte gloriosa col botto, Jenny Jägerfeld (trad. Laura Cangemi) 
Iperborea 2022 


NARRATIVA PER GRANDI (dagli 11 anni) 

"Quando Sixten e Karl-Johan ti rivolgevano la parola, ascoltavi. Si piazzarono vicinissimi a me, uno su ciascun lato, e in qualche strano modo riuscirono a farmi allontanare dal campo di gioco solo premendo e spingendo leggermente. Mi conficcai le unghie nei palmi e sentii accelerare il battito mentre un vago senso di nausea mi risaliva in gola. Era l'ansia. Cos'avrebbero fatto? Cosa potevano fare?" 

Gemelli, uguali come due gocce d'acqua, considerati da tutti i reucci della classe: agli occhi di Sigge avevano qualcosa che li rendeva superiori alla media, e non solo per come si vestivano e per i loro cellulari costosi. 
Sigge, che vive a Skärblacka nella casa-albergo della nonna dove si è trasferito con sua madre, le sue sorelle e il cane Einstein già da 4 mesi, ha un ristrettissimo gruppo di amici: una sola, in verità, Juno. 
Di certo i gemelli, pensa lui, non è roba per me, per lui che ama la 'penombra' sociale, lui non è al loro livello e non può essere di nessun interesse per loro. 
A meno che non siano lì per maltrattarlo e prenderlo in giro, come faceva Budde e gli altri a Stoccolma. 
Sigge è totalmente fuori strada; al contrario, loro sono lì perché lo vogliono con loro: il terzo elemento della nuova band. Loro sono convinti di essere due rapper di grande talento, ma Sigge è abile in un paio di cose che loro non sanno fare e che hanno bisogno assoluto di imparare, da qui la necessità di averlo nella crew. 
Due cose necessarie per un rapper: saper andare sullo skate (in realtà Sigge è un appassionato pattinatore artistico che si è appena comprato un ciondolo per il collo con un pattino d'argento, ma di skate non ne sa nulla e nemmeno lo possiede) e seconda cosa, sa disegnare da dio (non esattamente fare graffiti, ma sono sottigliezze). E - per di più - lui viene dalla grande città (in realtà dalla periferia, che è meglio ancora se sei un rapper della old school, e i gemelli lo sono). 
Comincia così questo strano e imprevisto sodalizio e nello stesso momento un ineludibile conto alla rovescia per Sigge dei giorni che mancano alla loro esibizione sul palco durante spettacolo natalizio della scuola. 
Sullo sfondo, il progetto con Juno di un app per animali in cerca di compagnia, una app di incontri che si sarebbe chiamata FortunaBestiale, una sorella scritturata - e molto in parte - come Gesù nella recita di Natale, la solita nonna anticonformista, la solita madre schiacciata dal superlavoro per raggiungere una propria indipendenza economica, il solito Krille Meringa che, accantonata per il momento la regia, è stato scritturato per recitare in un paio di spot pubblicitari. 
Di nuovo, all'orizzonte, una nuova conoscenza: Adrian. 
Questo, il racconto di poco più di 60 giorni dell'imperdibile tredicenne Sigge, sempre più consapevole e determinato a trovare un posto 'comodo per sé' nel mondo. 

Seconda parte di tre (in Svezia è uscito un mese fa: Min storslagna kärlek) romanzi che hanno in Sigge il loro perno. 
I tre titoli parlano chiaro, la vita, la morte e l'... 
Tutto quello di bello e interessante che è stato notato nel primo romanzo si riconferma con puntualità anche qui: qualità della scrittura (e della traduzione), leggerezza nel raccontare cose importanti, un plot a prova di botto, ironia e comicità, come se non ci fosse un domani. 
A tutto questo si aggiunge, nella complessità delle relazioni che legano i singoli personaggi, una sua capacità di far maturare le situazioni: si assiste infatti a uno scatto ulteriore che Sigge fa verso la ricerca della propria identità e verso una consapevolezza personale sempre più solida. Per non parlare della sua amicizia con Juno, ancora una volta a rischio. 
Messi in riga tutti pregi, seppur brevemente visto che se ne è già parlato, si riconferma uno dei valori più grandi che Jenny Jägerfeld dimostra di avere (lei e una nutrita schiera di altri scrittori del Nord): la capacità di non essere mai retorica, o didascalica, e men che meno prescrittiva (nonostante o forse grazie alla sua formazione), di essere capace di mettersi sempre in un'ottica che è quella dei più piccoli, cercando di non far prevalere il suo ruolo di adulta, pur mai dimenticando di esserlo. 
Per fare un esempio, si guardi con quanta grazia e sapienza Jenny Jägerfeld modelli i caratteri delle due sorelle di Sigge nel loro essere rispettivamente amanti del silenzio a oltranza e della parola ad alto volume e soprattutto si noti come metta questi due caratteri a confronto con il mondo degli adulti e di come questo mondo sia capace di mettersi in relazione con loro in modi tanto diversi. Tra parentesi, la varietà e complessità di sfumature che caratterizzano i singoli adulti di riferimento di questi ragazzini è davvero magnifica e fruttuosa, a partire dal sognante Krille che, in questo caso particolare, condivide con Sigge un vecchio consiglio ricevuto da Charlotte "pretend that you're good at it". 
Tornando alla prospettiva di osservazione della Jägerfeld, sembra quasi che il suo pensiero adulto le permetta, sia capace anche di pensare con testa e parlare con voce di bambino: l'invettiva di Majken - tutta in maiuscolo, come sempre, visto il volume consueto della sua voce - a proposito del croccante mancato per Bobo durante il rinfresco per la festa di Santa Lucia può essere considerato un paradigma del valore cui si alludeva poche righe fa. 
Si guardi anche con quanta sana distanza metta in scena il pensare e l'agire di Charlotte da una parte e quello della figlia Hannah dall'altra: i teatrini tra madre e figlia su come vestire Bobo e sulle candele vere a Santa Lucia sono emblematici. Due modi opposti di essere adulti, eppure due modi di amare altrettanto efficaci. 
E ancora, quanto sia brava, anche solo attraverso dettagli come dei regali di compleanno, a creare per i piccoli un 'porto' sicuro e conosciuto, seppure molto poco convenzionale, in cui approdare ogni sera dopo aver navigato in acque nuove e sconosciute per tutta la giornata. 
Ma brava, you're good at it!

Carla

lunedì 28 novembre 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

OTTO O FORSE NOVE O FORSE…



‘Gli Otto’, dello scrittore francese Philip Le Roy, è un vero thriller, così come dichiara la copertina dell’editore, Giralangolo. Una vera storia di paura che con questa emozione primordiale gioca dalla prima all’ultima riga.
Gli Otto sono quattro ragazze e quattro ragazzi, che si ritengono dotati di talento, determinati a passare una serata ‘a tema’ nella casa di uno di loro, Quentin, a Col de Vence: una casa isolata, in una zona in cui si chiacchiera di avvenimenti strani e avvistamenti di Ufo. Il tema della serata è, appunto, la paura, e il pegno da pagare ogni volta che ci si fa cogliere spaventati è una generosa bevuta di super alcolici.
I primi episodi fanno capire che aria tira: infatti ciascuno dei partecipanti si è ingegnato a immaginare complesse messe in scena per spaventare gli altri ragazzi. Fra dita tagliate e apparizioni di fantasmi, la tensione cresce, anche se il meccanismo delle rappresentazioni è sempre lo stesso: una messa in scena in cui realtà e finzione si mescolano in modo indistinguibile, generando la paura e, progressivamente, il panico. D’altra parte, ci mette lo zampino anche un provvidenziale temporale, con necessario corredo di fulmini e tuoni. Se da una parte un fantasma prende vita e svela il finto suicidio di una ragazza, Manon, dall’altra i ragazzi cominciano a scomparire, a cominciare da quel Clement, che avrebbe dovuto unirsi al gruppo, ammesso per una volta nel circolo ristretto degli Otto. E che non arriva mai: immortalato dalle telecamere di sorveglianza, sembra sparire nel nulla.
Quando dalle rappresentazioni teatrali si passa alle sparizioni reali, la paura diventa terrore. Alla polizia, chiamata da una madre apprensiva, si presenta la scena di una casa vuota e sembra che degli otto, o nove, o dieci occupanti non ci sia traccia.
Ciascuno dei ragazzi ha reagito in modo diverso all’inquietante consapevolezza che dal gioco si è passati, quasi inavvertitamente, a qualcosa di molto più serio. Chi si fa prendere dal panico, chi pianifica elaborate strategia di difesa, inficiate però dal tasso alcolico, che oramai ha obnubilato le coscienze di tutti quanti. A rendere tutto ancora più terrificante ci sono le apparizioni di un’inquietante bambina, a metà strada fra ‘Shining’ e ‘It’.
Il nodo che confonde realtà e rappresentazione si scioglie solo alla fine, ma solo in parte, lasciando il lettore e la lettrice con una giusta dose di inquietudine.
Davvero di più non si può dire, è sufficiente sottolineare che il meccanismo narrativo di Le Roy funziona a perfezione nel creare tensione nel lettore, ingannato più volte nel corso del racconto.
Molta dell’efficacia di questo stile sta proprio nel mescolare continuamente realtà e inganno, costringendo il lettore e la lettrice nella condizione dei personaggi stessi.
Quanto al ritratto dei giovani e delle giovani, non so quanto sia voluta l’impressione di vacuità che li circonda. Sono giovani di buona famiglia, senza problemi materiali, ma con le famiglie che se non sono lontane fisicamente, lo sono emotivamente; ed esprimono un’astratta e compulsiva attrazione per la trasgressione, una superficiale identificazione dell’arte con la performance, una totale assenza di contatto con la realtà: sembra di avere a che fare con l’immagine di una gioventù insulsa, senza sostanziali passioni, aggrovigliata nei propri confusi sentimenti. Lo consiglio, quindi, a ragazze e ragazzi, dai quindici anni in poi, che vogliano fare i conti non solo con la paura ma anche con un ritratto, quale quello fornito dall’autore, su cui c’è molto da discutere.

Eleonora

“Gli Otto”, P. Le Roy, Giralangolo 2022




venerdì 25 novembre 2022

ECCEZION FATTA!

"ORA PARLA LA TIGRE!" 

Judith Kerr, Joanna Carey (trad. Gabriella Tonoli) 
Lupoguido 2022 


SAGGI ILLUSTRATI 

"Farleigh aveva colto il talento della giovane dai capelli neri, minuta e attraente, ed era convinto - quanto lei - che al termine del conflitto dovesse diventare studentessa a tempo pieno. Per farlo avrebbe avuto bisogno di una borsa di studio ma, non essendo nata in Inghilterra, non poteva farne richiesta. Tuttavia, grazie alla sua bravura, alla varietà del suo portfolio (tutto quel disegnare senza mai fermarsi) e a qualche acrobazia burocratica da parte di Farleigh e di altri, le fu accordata una borsa di studio che le permetteva di frequentare la scuola tre volte alla settimana. Farleigh le suggerì il corso di illustrazione, tuttavia Kerr era determinata a proseguire nelle belle arti così, pur iscrittasi al corso di illustrazione, passava le sue giornate nell'aula di disegno o di pittura. A nessuno sembrava importare." 

Nata a Berlino, fugge con la famiglia dalla Germania nel 1933 perché ebrea. 
Prima tappa, la Svizzera, quindi la Francia e in ultimo l'Inghilterra: Kerr ha vissuto la sua infanzia in mezzo alla guerra (cogliendone all'epoca più il lato avventuroso che quello tragico). 
Quando le scuole riaprono si iscrive a un corso serale, poi domenicale, visti i raid notturni, di disegno dal vero alla St. Martin's School of Art. 
Per lei, che aveva la matita in mano da sempre, il disegno dal vero ha sempre rappresentato una tappa imprescindibile (in che altro modo si comincia a capire la strutturare il movimento del corpo umano?) se si vuole davvero imparare. Quindi, quando la guerra è quasi alla fine, si iscrive alle lezioni serali della Central School of Arts and Crafts, dove incontra John Farleigh. 
Grazie alle borse di studio, ai lavori part-time, alle prime piccole commesse artistiche in un laboratorio tessile, la Kerr va avanti per la sua strada. Sempre con quella tenacia e quello spirito positivo, che le sono appartenuti fino al suo ultimo giorno: occhi penetranti e un sorriso sornione, in un viso pieno di rughe si ripetono in tutte le sue foto di ultranovantenne.
 

Continua a dipingere, vince premi, comincia a insegnare, dipinge le pareti delle stanze e dei caffè e si permette qualche viaggio. 
Nel 1952, la svolta: l'incontro con Tom Kneale, attore, autore della BBC e suo grande amore per una vita intera. Con lui mette su famiglia, due figli, e si avvicina con successo al mondo della scrittura. 
Solo quando i due bambini cominciano ad andare a scuola a tempo pieno, lei riprende in mano la sua carriera di scrittrice e per la prima volta la pensa connessa con il suo talento nel disegno. Decisa a concepire un libro per bambini - quelli che erano in circolazione, non le piacevano affatto - si rammarica molto di non aver voluto frequentare il corso di illustrazione, lei che invece aveva sempre dimostrato una capacità 'naturale' a raccontare attraverso le immagini. 


Ci mise un tempo lunghissimo per arrivare a capire come strutturare un libro con le figure. 
Tuttavia, essendo caparbia, avendo una gran mano e avendo avuto la fortuna di incontrare John Burningham (!!!), ci riesce, facendo le illustrazioni per il suo Humbert nel 1965. 
Il suo primo - e magnifico - libro in solitario arriva tre anni dopo, nel 1968: The Tiger who came to Tea, Una tigre all'ora del tè
Lei ha 45 anni. E' stato ed è ancora oggi un successo planetario. 
La storia di questo libro e quindi della sua tardiva ma longevissima e splendente carriera come scrittrice e illustratrice di indimenticabili libri per l'infanzia, la si legge nel volume a lei dedicato, nella collana britannica (!) The Illustrators, curata da Quentin Blake e Claudia Zeff che con grande merito e gratitudine eterna (di sicuro la mia, ma suppongo anche di altre migliaia di lettori appassionati) Lupoguido  sta pubblicando in Italia. 
Le cose interessanti che mi sembra di poter cogliere in controluce in questa biografia della Kerr sono, qui ne elenco solo alcune:
1) per essere bravi illustratori, bisogna saper disegnare. 


2) se si ha la fortuna di incontrare un grande maestro, bisogna dare ascolto ai suoi consigli. 
3) il successo dei suoi libri sta in uno sguardo molto attento, sensibile e soprattutto rispettoso nei confronti dell'infanzia, ma più in generale dell'umanità tutta. 
La chiave è lì. 
In questo, Burningham a parte, sembra innegabile una affinità con un'altra colonna della letteratura illustrata britannica e poi mondiale: Helen Oxenbury. Con lei condivide, se non il percorso creativo e obiettivamente solo alcuni aspetti del cursus honorum, di certo lo sguardo nei confronti di ciò che le circonda e un talento raro nel saperlo disegnare. 
Sono entrambe donne emancipate. 
Sono entrambe donne che vivono in un'epoca di grande cambiamento e fioritura. 
Sono entrambe molto determinate a dare il proprio contributo - senza proclami, ma attraverso belle storie - un contributo alla riflessione sui mutamenti della società in cui hanno vissuto e vivono. 
Sono entrambe grandi osservatrici ed estimatrici del mondo animale (bambini compresi). 
Sono entrambe arrivate al momento giusto nella giusta casa editrice per loro, una da Walker, l'altra da Harper. 
Entrambe hanno avuto la fortuna di condividere pezzi della loro esistenza, con ruoli molto diversi si intende, con John Burningham. 
Entrambe hanno saputo costruire la propria carriera e difendere il proprio lavoro e il proprio ruolo. 


Entrambe hanno sorriso alla vita, per quanto dura possa essere stata, e sono state due tigri nel voler essere con onestà intellettuale dalla parte dei bambini, sempre. 

Carla

mercoledì 23 novembre 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

DI TERRA E DI MARE


Un nuovo romanzo di Davide Morosinotto è un evento, sia pure nel turbinio di uscite pre natalizie; i suoi numerosi ammiratori e ammiratrici apprezzeranno sicuramente il primo di una serie di romanzi dedicati ai Da Mar, la famiglia di cui l’autore segue le tracce attraverso i secoli in quella che giustamente considera la sua terra, fra Este, Padova e Venezia. ‘Il figlio del mare’, pubblicato da Mondadori, con la consueta benedizione di Book on a Tree, è ambientato nel 452 dopo Cristo e vede come protagonista Pietro, un giovane guardiano di maiali che, suo malgrado, viene coinvolto nella difesa della città di Ateste dall’avanzata degli Unni.
Sullo sfondo, dunque, il declino dell’Impero Romano, che però non rinuncia, anche nelle realtà periferiche, alla sua struttura sociale, destinata a soccombere sotto i colpi delle invasioni barbariche.
Pietro ha una storia complicata: non è figlio del compagno della madre, ma di uno straniero, forse un barbaro, venuto dal mare, di cui possiede come ricordo solo una moneta tagliata a metà. Il ragazzo è convinto che arriverà un giorno in cui potrà incontrare il suo vero padre, ma intanto è costretto ad arruolarsi nel manipolo di sprovveduti mandati dal Clarissimo, signore di Ateste, a difendere Aquileia. Nel frettoloso addestramento, ad opera del centurione, forse nubiano, Sergio, Pietro impara i rudimenti della difesa a testuggine, che avrà ben poco successo contro gli arcieri di Attila. Viene fatto prigioniero insieme a Giustina, figlia ribelle del Clarissimo. Fugge, combatte, viene ferito gravemente e ritrovato sul campo di battaglia dalla cavallina Pinus, che aveva ricevuto dagli Unni che lo avevano fatto prigioniero.
Dopo la lunga convalescenza, con Giustina e Tito sempre al suo fianco, comincia la seconda parte del romanzo che descrive il lungo viaggio attraverso le terre devastate della guerra per andare verso il mare che gli Unni evitano. Arrivano nella parte lagunare della costa, dove si sono rifugiati i sopravvissuti delle città sconfitte. Qui Pietro inizia la sua nuova vita, da guardiano di maiali ad accorto mercante, che non sa leggere ma è bravo a far di conto.
L’intreccio è denso di colpi di scena, di personaggi che appaiono e scompaiono, per poi ricomparire all’interno di una narrazione sempre scorrevole. Ma, come in altri romanzi di Morosinotto, un punto di forza importante è dato dalla ricostruzione storica e geografica, non solo nel delineare gli avvenimenti che costituiscono lo sfondo del racconto, ma anche nella ricchezza dei dettagli relativi alla vita quotidiana dei ricchi e dei poveri che si muovono sulla scena.
L’intento, così come è dichiarato dall’autore, è raccontare la storia della sua terra attraverso una saga all’insegna dell’avventura, che segue le tracce di una famiglia, i Da Mar, che proprio con Pietro si origina. Un ragazzino ignorante che viene catapultato nel mezzo di una guerra sanguinosa e che attraverso questa esperienza cresce e si fa forte, impara a sopravvivere e a coltivare i propri sogni, mentre sentimenti più complessi si affacciano nella sua vita; la sua determinazione gli consente di essere il punto d’inizio di una storia che non è solo sua.
Dopo aver raccontato le imprese di ragazzi del delta del Mississippi, di una piratessa cinese, di un cacciatore del Pleistocene, ritroviamo intatta la forza narrativa di Morosinotto, che nel romanzo d’avventura trova la sua migliore espressione.
I numerosissimi ammiratori e ammiratrici si faranno coinvolgere da questa storia? Ci sono tutte le condizioni perché questo succeda, ma il verdetto è nelle mani, anzi negli occhi, di lettori e lettrici.
Consiglio caldamente la lettura a ragazze e ragazzi che amino l’avventura, a partire dai dodici anni.

Eleonora

“Il figlio del mare. La saga dei Da mar”, D. Morosinotto, ill. di Lucrezia Buganè, Mondadori 2022




lunedì 21 novembre 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

DIRE LA VERITA' 

Parole di caramello
, Gonzalo Moure, Maria Girón (trad. Francesco Ferrucci) 
Kalandraka 2022 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dagli 8 anni) 

"Kori finì di mangiare le sue lenticchie e andò in cortile. Si guardò intorno e non vide né sua madre, né la sorella maggiore, e nemmeno i suoi fratellini. Trovò le vecchie forbici con cui sua madre tagliava l'erba, e scegliendo ogni singolo stelo, ciascuno in un punto diverso in modo da non far notare la loro mancanza, preparò un ciuffo nella sua mano. Una volta finito, rimise le forbici dove le aveva trovate e guardò la piccolissima coltivazione d'orzo: non se ne sarebbe accorto nessuno. Nascose la mano con il ciuffo d'erba sotto la camicia e andò verso i recinti." 

Un fascetto di erba d'orzo è il suo primo regalo per in nuovo nato. 
Nel recinto dove i suoi zii allevano la dromedaria, è nato un piccolo. Kori lo va a trovare tutti i giorni e lo considera il suo unico amico. Quasi tutto il suo tempo Kori lo passa al di qua della rete a parlare e ad ascoltare quello che il piccolo dromedario, cui lui ha dato il nome di Caramello, ha da dirgli. 
Kori è un bambino sordo. Dalla sua bocca non escono suoni, ma nella sua testa riesce a leggere i segni diversi che fanno le labbra delle persone ma legge anche sulle labbra del piccolo dromedario sulle sue labbra che masticano l'aria versi e frasi. 


Nasce in Kori l'assoluta necessità di scrivere per ricordare quanto ascolta da Caramello. 
Kori così torna a scuola e con molta fatica e impegno impara a scrivere per non dimenticare. Riempie le pagine con i suoi pensieri, sono vere e proprie poesie, e con i pensieri di Caramello. 
Il dromedario cresce e dopo un anno il suo destino è segnato. Nella povertà in cui vivono tutti in quel campo di rifugiati saharawi in mezzo al nulla del deserto algerino, non c'è alcuna possibilità di allevare un dromedario maschio: le femmine danno il latte, i maschi... la carne. 

Due cose colpiscono chi legge questo racconto di Gonzalo Moure (Trenor) e tutte e due hanno a che fare con il saper raccontare la verità, nuda, per ciò che è. 
Sembrerebbe un compito semplice, quasi naturale, e invece non lo è affatto. Soprattutto, se si considera l'ambito in cui ci si trova: la letteratura per l'infanzia. 
Gonzalo Moure conduce il lettore, lo prende letteralmente per mano, per spiegargli con grande chiarezza e dovizia di dettagli, il luogo e il contesto in cui tutto avviene. La povertà assoluta di poche case di terra cruda in mezzo al nulla: non un albero, né un po' di erba. 
Ogni tanto qualche camion che nella polvere attraversa il villaggio per portare acqua o bombole di gas diventa per i ragazzini il divertimento della giornata. Inseguirlo, attaccarsi al paraurti e scendere al volo quando gli uomini seri che lo guidano scendono per liberarsene, dei ragazzini. 
E su tutto questo un immenso cielo azzurro da cui non cade neanche una goccia d'acqua. 
Qui vive Kori che è un bambino sordo: non ha nulla per sé, né suoni né voce, a parte l'affetto dei pochi adulti che gli girano attorno. Il loro tempo e la loro attenzione, però, è sottomessa a obblighi e faccende quotidiane. Così in famiglia nessuno si accorge per tempo della sua fuga con il piccolo dromedario e suo zio non ha mezzi per permettersi di allevare un secondo dromedario. 
In questo modo la verità diventa scomoda da raccontare, con tanti spigoli. Eppure. 
Nessuna ricerca di arrotondarli, gli spigoli, nessun tentativo di ammorbidire i toni, o di addomesticare la sequenza dei fatti per addolcire la lettura. Altro che parole di caramello.
Ma sono bambini... 


Ecco, è proprio questo il punto: sarà più saggio e utile nascondere loro certe durezze o piuttosto è più intelligente, serio e soprattutto onesto prenderli per mano e fargli attraversare questo piccolo dolore - che non va dimenticato è pur sempre letterario - per poi farli ragionare che così può essere la vita: con diversi spigoli contro cui sbattere? 
Potrebbe sembrare una domanda retorica, ma non lo è affatto, purtroppo. 
Ma erano due le cose che avevano relazione con il racconto del vero: la seconda è nell'altro lato di questo racconto, ossia nelle immagini. 
Maria Girón dimostra innanzi tutto una grande sapienza nel segno, nella tecnica e nella resa della luce, ma soprattutto un grande talento nel saper disegnare i bambini e, forse più in generale, i corpi umani. 
E, più in particolare, saperli ritrarre nell'atto di agire, di muoversi nello spazio. E nel farlo applica una regola d'oro, ovvero l'onestà di cui si parlava prima. 
Nessuna smanceria o leziosità, nessuna strizzatina d'occhio. 
Qui, forse, è anche l'impegno del testo che le ha indicato una direzione da rispettare. 
Ma anche altrove non mi pare di vedere mai quel repertorio di stereotipi da cui pescano spesso e volentieri i cattivi disegnatori dell'infanzia (calzettoni rigorosamente uno su e uno giù, possibilmente maglietta a righe, possibilmente molte lentiggini sul naso rigorosamente all'insù e ginocchia sporche...) Kori è ritratto più volte nell'atto di agire, nella grande serietà che mette in tutto quello che fa, che sia tagliare l'erba da portare al dromedario o sia imparare a scrivere a scuola.


Indossa sempre la stessa maglietta e le stesse braghe, ad eccezione del momento della fuga, in cui fa la sua comparsa il turbante. A parte la tavola con la lacrima, tutto quello che le immagini descrivono ha un suo preciso rigore interno, lo stesso che traspare dalle parole. Con la stessa serietà e oggettività si racconta il contesto. 


L'unico canale attraverso cui passano le emozioni è il colore che letteralmente vibra attraverso la luce.

Carla

venerdì 18 novembre 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


LA PERFEZIONE


Cilla Jackert, autrice svedese di libri e di serie televisive, firma un nuovo romanzo, tradotto da Samanta K. Milton Knowles per Camelozampa. Il precedente romanzo, pubblicato in Italia dallo stesso editore, ‘Le catastrofi del giorno’, ha vinto in patria il premio Slangbellan, come migliore nuova autrice per ragazzi. In ‘A nessuno piace Jonna’, in libreria da poche settimane, si affaccia un nuovo personaggio ‘difficile’, Jonna appunto, una ragazzina piena di difficoltà che preferisce il silenzio e le caramelle proibitissime in casa.
La conosciamo così, già dalle prime pagine, sdraiata nel letto nella sua cameretta in mansarda, cameretta che è una specie di campo di battaglia dove si accavallano mutande sporche e caramelle stantie, rubate qua e là. Jonna ha un problema, anzi più di uno. Il problema più ingombrante si chiama Miriam, la perfetta sorella maggiore, non solo bella, con i lunghi capelli color cioccolato, non solo brava a scuola, ma anche capace di eccellere nella musica, tanto da meritare un premio nazionale.
Doversi confrontare con tanta perfezione è davvero molto dura: non c’è cosa che Miriam non sappia fare, non ci sono ragazze che non vogliano essere sue amiche, ragazzi che non la cerchino. Jonna si sente esattamente nel lato opposto dell’universo, con una matassa di capelli incolti, abitudini igieniche alquanto approssimative, gli occhiali e gli incisivi troppo distanziati. Ha difficoltà con la scuola, fatica a scrivere, consegna spesso il foglio in bianco nelle verifiche, non sa spiegare le proprie difficoltà. Nella sua mente tutto è colpa di Miriam, della sua perfezione, dell’ammirazione che suscita in tutti, mentre lei, Jonna, non può piacere a nessuno, se non ad un’altra ‘irregolare’, la zia Debbie, ex tossicodipendente.
Così, una notte, in una delle sue consuete incursioni nella camera di Miriam, non si limita a rubarle qualche spicciolo e le caramelle, ma le taglia la bellissima treccia. Da qui una svolta di entrambe le sorelle: Miriam mostra la sua fragilità, Jonna la sua forza; entrambe riescono a cambiare un futuro che sembrava già scritto.
Il romanzo della Jackert, stampato meritoriamente in un font ad alta leggibilità, è un ritratto impietoso di una famiglia ‘normale’, in cui è normale che i genitori proiettino fantasie di gloria su una figlia ‘perfetta’, così come è normale che non riescano a parlare con la figlia più piccola, le cui difficoltà vengono anche negate.
Susan, la mamma, difende le sue figlie come può e come sa fare, all’interno di un sistema che chiede ai ragazzi di essere perfetti, belli, sani, bravi e contenti di quello che fanno. Il gesto di Jonna, tagliare i capelli della sorella, riesce a scardinare proprio questo, il sistema di aspettative che gli adulti riversano sui giovani e da cui questi sono schiacciati. Qui l’autrice mette in evidenza una delle grandi contraddizioni ‘educative’ dei nostri tempi: una dilagante ansia da prestazione, nei ragazzi, nei confronti di adulti che si aspettano da loro successo e felicità. Per questo motivo, il disagio diventa ‘indicibile’, proprio perché non previsto nel paradigma educativo.
Anche il rapporto fra le sorelle subisce una salutare svolta e così, come nel romanzo di Jerry Spinelli, la fraternità e la sorellanza trovano una fondamentale rilevanza, che si intreccia con il rapporto fra genitori e figli.
Consiglio caldamente la lettura di questo romanzo a tutte le ragazze e i ragazzi , a partire dai dodici anni, che non si sentono ‘a posto’ in questo mondo, così da poter scoprire di avere ragione.

Eleonora

“A nessuno piace Jonna”, C. Jackert, Camelozampa 2022





mercoledì 16 novembre 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

GLI AMORI DIFFICILI

L'anello incantato, Maria Teresa Andruetto, Anna Forlati (trad. Mirta Cimmino) 
#Logosedizioni, 2022 


ILLUSTRATI PER MEDI ( dai 7 anni) 

"L'imperatore Carlomagno la vide e se ne innamorò. Lui era un uomo anziano lei solo una fanciulla. Ma l'imperatore se ne innamorò perdutamente e presto dimenticò i suoi doveri di sovrano. I nobili della corte erano molto preoccupati perché a Carlomagno non interessava più nulla. Né il denaro. Né la caccia. Né la guerra . Né le battaglie. Solo quella fanciulla. 
Malgrado tutto quell'amore, Ifigenia morì in un pomeriggio di aprile affollato di uccelli!" 

I cortigiani si rasserenarono perché pensarono che la svagatezza dell'imperatore fosse finita. E invece no: lui continuò ad amare quella fanciulla e ne fece imbalsamare il corpo e lo portò a corte dove lo venerava notte e giorno. I nobili pensarono che dietro questa follia macabra dell'imperatore ci fosse un incantesimo e scoprirono che nella bocca della fanciulla era nascosto un anello. L'arcivescovo lo prese e l'imperatore all'istante si innamorò di lui; così l'anello passò nelle mani del valletto e l'imperatore di costui si innamorò. Il valletto lo passò nelle mani del primo che incontrò per strada e l'imperatore cominciò ad amarlo. L'uomo, spaventato, lo diede a una gitana che, correndo, lo fece scivolare nel lago di Costanza, dove Ifigenia era solita passeggiare, e l'imperatore proprio di quello stesso lago si invaghì. 

Questa è la prima di sette brevi fiabe che, come perle di una collana, hanno un filo, anzi due, che le attraversano e le tengono insieme: ciascuna di loro si chiude con un guizzo, una giravolta che, tranne per la storia dei sassi neri e bianchi, ribalta il finale atteso, lasciando i lettori a bocca aperta.


© 
Anna Forlati

Il secondo filo che le unisce sta in uno dei temi cari alle fiabe: la necessità. 
Amori difficili e improrogabili sono quello di Carlomagno che deve innamorarsi di un lago, quello dell'uomo che aspetta sulla panchina per una intera notte la sua amata e poi, stanco e triste, si allontana senza vederla.
O quello del barbiere di Baghdad che impiega una vita intera per liberare la bella principessa, figlia del sovrano Al-Mansur, che l'invasore Osman richiuse in una torre ai confini del mondo o ancora quello di Longobardo che non sa resistere alla tentazione di sciogliere il fiocco che la bella cortigiana con l'abito di velluto rosso porta legato intorno al collo; o quello egoista di un padre e quello irresistibile di sua figlia per il carbonaio. 
Eì il seme dell'urgenza, del bisogno a ogni costo che germoglia e fa crescere la narrazione. 
Non è passato tanto dal giorno in cui si ragionava del senso della fiaba e della propria resistenza al tempo. E in quello stesso contesto si rifletteva anche delle rielaborazioni contemporanee di questo genere imperituro.


© 
Anna Forlati
 
A parte le riscritture in chiave ironica, in chiave politica o sociale dei grandi classici, Cappuccetti che decidono di abitare per sempre nelle pance dei lupi, porcellini che si liberano in senso letterale delle pagine che li contengono, esiste un ulteriore merito che alla fiaba contemporanea si deve: ed è quello di essere concepita con l'intento di cambiare la prospettiva e non solo nel senso più letterale, ossia raccontare la storia di cappuccetto rosso così come la può aver vissuta il lupo, ma piuttosto di intervenire e in qualche modo scardinare della fiaba stessa un elemento costitutivo, ossia il finale. 
Il naturale sbocco a cui secoli di tradizione ci ha abituato, assuefatto si potrebbe dire, nelle sapienti mani della Andruetto diventa qualcos'altro. 
Si badi bene che la funzione del finale che appiana ogni cosa e che fa trionfare il Bene sul Male non viene sfiorata o discussa nella sua sostanza, come se la cosa non la interessasse effettivamente. 
Quello che succede invece è l'inceppamento programmatico dell'oliato meccanismo per vedere che cosa accade, che cosa provoca. E non tanto nella fiaba in sé, ma nel lettore. 
Questa, non mi stancherò di sostenerlo, è una delle bellezze della letteratura: essere capace di spostare e muovere il pensiero. 


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Anna Forlati

Di solito, quando si chiudono i libri che contengono una storia uscita dalla testa di Maria Teresa Andruetto, non si ha mai la sensazione che tutto sia esattamente come prima di averlo aperto: le sue parole attraversano il lettore e lasciano inevitabilmente traccia di sé. 
In questo caso particolare, un sapiente uso del linguaggio proprio della fiaba, una scorrevolezza da lingua parlata e nello stesso tempo una capacità di rendere palpabile la sospensione del tempo e la vaghezza del luogo, come la migliore fiaba pretende, si mettono al servizio di questo inceppamento che provoca una inaspettata capriola nello scorrere del racconto. 
E, necessariamente, la visione cambia. 
Penso all'uomo sulla panchina sbagliata, al nastro sciolto per troppa curiosità, ai bambini corvi, alla bellezza che non perde il suo profumo ma, una volta raggiunta, si trasforma in vecchiaia e diventa solo un ricordo. A cose così. 
Leggere per credere. 
E a proposito di attraversare, sembra che anche i disegni di Anna Forlati abbiano lo stesso andamento delle parole. I personaggi, non tutti ma un buon numero, entrano nel libro in corteo, ancora prima che tutto cominci, attraversano le pagine e poi ognuno di loro si colloca nel posto assegnatogli dal racconto e fa, ovvero recita, la sua parte. Poi, quando tutto è stato detto, si riuniscono nuovamente, i restanti che non erano entrati nel corteo iniziale, e nuovamente insieme escono di scena e dal libro.


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Anna Forlati

Ognuna delle tavole, come ciascuna fiaba, ha un colore dominante, una sorta di cifra di riconoscimento. E la scelta di uno o dell'altro sembrerebbe dettata da una lettura attenta di ogni piccola piega del testo e da una sensibilità nel cogliere le diversità emotive che attraversano i singoli racconti: il blu per la notte sulla panchina e la malinconia, il porpora per l'abito della cortigiana e per il troppo ardore, il giallo per l'Estremo oriente e per dare una luce alla felicità.

Carla

lunedì 14 novembre 2022

FAMMI UNA DOMANDA!


L’ANIMALE PIU’ PERICOLOSO DEL MONDO


Yuval Noah Harari, storico e filosofo, ha raggiunto un successo planetario con il saggio ‘Sapiens. Da animali a dei’ e poi con la versione a fumetti, in due volumi; tutti titoli pubblicati in Italia da Bompiani. Ora, lo stesso editore pubblica una versione per ragazzi, intitolata ‘Noi inarrestabili. Come ci siamo presi il mondo’, con le illustrazioni di Ricard Zaplana Ruiz.
La questione di fondo, posta dal libro di Harari, riguarda la comprensione della diversità umana rispetto al mondo animale cui appartiene e la specificità del Homo Sapiens rispetto alle specie umane con cui ha convissuto nella Preistoria.
Per dare risposta a una domanda così complessa, l’autore racconta con brevi capitoli ed una terminologia molto chiara l’evoluzione della specie umana e i profondi cambiamenti portati dalle prime grandi invenzioni ‘tecnologiche’: il fuoco, l’uso di strumenti in pietra e così via.
Quello che però contraddistingue soprattutto, ma non esclusivamente, la specie Homo Sapiens è il pensiero astratto, quindi la capacità di unire le comunità con un ‘racconto’ comune, e l’organizzazione di grandi gruppi che questo consentiva. La tesi, che denota un approccio soprattutto antropologico, è che la capacità di creare un universo simbolico abbia fornito ai nostri progenitori la possibilità di compiere un salto di qualità nella caccia alle grandi prede. Esempio, fra tutti, l’estinzione della mega fauna in Australia e in America, successiva all’arrivo dei Sapiens in quei territori.
Interessante la descrizione della vita delle comunità di cacciatori raccoglitori, così come il confronto con la nostra dimensione sociale contemporanea. Il libro ha due evidenti finalità: spiegare ai più giovani la storia della comunità umana cui tutti apparteniamo e, nello stesso tempo, sottolinearne l’immenso potenziale distruttivo, già evidenziato nel Pleistocene e poi continuato con le numerose estinzioni provocate dalla presenza umana. Il libro termina con un esplicito invito ai più giovani a farsi parte attiva nel modificare quello che non è un destino, ma una precisa scelta.
La finalità di Harari, di rendere maggiormente consapevoli i più giovani delle responsabilità della nostra specie nel futuro del mondo, è, con qualche riserva, condivisibile e importante. Forse un po’ forzato cercare nella Preistoria le radici di un modo di stare al mondo, un modo predatorio, ma l’intento è nobile, mostrandoci un ritratto a tinte forti della nostra specie. In particolare trovo che sia parziale il punto di vista che ci attribuisce solo un ruolo da spietati distruttori: infatti, come spesso si è sottolineato, non siamo solo i carnefici, ma anche le vittime, quelli la cui vita è messa a repentaglio dai cambiamenti climatici, e non solo, da noi stessi alimentati. Non è nemmeno detto che il mondo finisca con noi, ci sono molte specie resilienti, capaci di sopravviverci.
Inevitabilmente c’è qualche semplificazione: la coesistenza fra Sapiens e Neanderthal in Europa è stata molto più lunga di quanto Harari faccia supporre e così anche per altri aspetti.
Trovo comunque meritoria e stimolante questa traduzione della Preistoria in chiave ‘presente’, come annunciasse già le contraddizioni che abbiamo davanti agli occhi, quella grande potenza creatrice e, nello stesso tempo, un altrettanto grande potere distruttivo.
Consiglio la lettura a ragazzi e ragazze interessati alla storia, ma anche a quelli che vogliano trovane nuovi argomenti alla critica del mondo attuale, a partire dai dodici anni.

Eleonora

“Noi inarrestabili. Come ci siamo presi il mondo”, Y. N. Harari, ill. di R. Zaplana Ruiz, Bompiani 2022





 

venerdì 11 novembre 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

I CINQUE GRAZIE

Sotto lo stesso tetto, Chris Raschka (trad. Francesco Piperno) 
Biancoenero 2022 


 NARRATIVA PER GRANDI (dagli 11 anni) 

"Theo trovò Bunchley sul marciapiede, con tutta l'aria di una begonia appassita. 'Che problema c'è signor Bunchley? gli chiese Theo. Questa è la mia ultima settimana al 777' disse Bunchley, calciando un sassolino nel canale di scolo. 'Sul serio? Come mai?' 'Non so parlare di baseball' 'Neanche io' disse Theo. Mentre apriva la pesante porta d'ingresso che il signor Bunchley aveva trascurato di aprire, Theo si fermò un attimo pensieroso. Bunchley, tornando in sé, balzò verso la porta per tenerla aperta. 'Grazie, signor Bunchley. Penso di sapere come fare a tirarci entrambi su di morale. Torno subito." 

Theo, ragazzetto delle medie che vive al diciannovesimo piano del palazzo al civico 777 di Garden Avenue a New York, ha un problema anche lui: scrivere un tema dal titolo Quale sarebbe stato il social media preferito da Jane Austen se fosse stata una teenager oggi?
Il portiere, autorevole e pieno di ottime qualità che però non sa parlare di baseball con gli inquilini a cui rispettosamente rivolge sempre almeno un saluto nel aprire loro il portone di accesso, e un ragazzetto, che ha bisogno di schiarirsi le idee, trovano il loro modo di superare la difficoltà grazie a una Painted Lady, un garofano a strisce bianche e rosse. 
Quei due, un omone dentro il suo cappottone e con un autorevole cappello in testa e un ragazzino entrano in connessione su una cosa che li tiene insieme, l'amore per la botanica, e cominciano a disporre sul davanzale nell'atrio del palazzo una pianta dopo l'altra, una più bella e rara dell'altra. 
La prima cosa che succede è che gli abitanti del palazzo se ne accorgono e se ne compiacciono (e smettono di commentare il baseball, parlando piuttosto delle nuove piantine), tra loro anche l'anziana proprietaria dell'intero stabile di più di venti piani, la signora Rotterdam-Bottom. 
a seconda cosa che succede è che per questa profumata novità, non solo Bunchley non perde il posto per la sua insipienza nel baseball, ma riceve anche un aumento di stipendio. Potere delle connessioni. 
Un edificio di ventidue piani nell'East Side costruito ai primi del Novecento da due valenti architetti, uno strutturista e uno creativo che potrebbe essere definito neo-proto-azteco-egizio-gotico con elementi vichinghi qui e lì. Questo è il contenitore, tutt'altro che silenzioso nelle sue strutture (dall'ascensore alla caldaia), in cui agiscono, si muovono entrano in connessione tra loro i diversi inquilini: musicisti jazz (a due e a quattro zampe), coppie inseparabili, ragazzine con la passione per l'idraulica e della maglia, signore che hanno a cuore il decoro, vecchi piloti di jet che hanno a cuore, invece, la gravità e i piccioni, cantanti d'opera con la passione per i dolci, psichiatri (a due e quattro zampe), oltre naturalmente all'amministratore, il manutentore e lui, il portiere. 

Riconosciuto come uno dei migliori illustratori contemporanei, due Caldecott (2006 e 2012) e una Honor (1994) già messe da parte, Chris Raschka dimostra di essere anche un eccellente scrittore. 
Due (ma forse anche cinque) principalmente i fattori che a mio avviso lo rendono tale: da una parte la capacità di costruire una trama, una griglia narrativa davvero molto robusta. 
Un romanzo corale in cui vediamo agire un buon numero di personaggi che entrano ed escono di scena, come accadrebbe nella vita vera, da un grande palazzo di 22 piani a Manhattan, Upper East Side. 
Il topos del palazzo come contenitore delle singole storie e dei reciproci intrecci non è certo una novità, ciò nonostante spicca la sua volontà di fare un passo ancora ulteriore e di dare voce al contenitore stesso, come se fosse personaggio tra i personaggi, in una sorta di animismo meraviglioso in cui anche un ascensore può contribuire a far sbocciare un amore e una caldaia sa reagire dal punto di vista fisiologico allo stesso modo di una ragazzina di quarta elementare, quando beve latte scremato.
Questa sua attenzione rivolta al contenitore è la stessa che lui va sostenendo quando si parla di albi illustrati: l'arte di un libro con le figure, non la fanno solo le figure e le parole (e la loro relazione reciproca), ma anche il libro stesso: il contenitore, appunto. 
A parte questo, che comunque è segnale di un profondo ragionamento di un genio creativo, nel romanzo si coglie all'istante una sua grande capacità di dare corpo - e soprattutto anima - a tutti quelli che transitano sulla pagina. E di farlo, ed è qui lo scatto di qualità, senza spendere neanche una parola su quello che esula dal mero accadimento. 
Mi spiego. Noi capiamo chi sia Theo solo attraverso quello che Theo fa o dice. Lo stesso accade per il signor Bunchley, per la piccola Victoria, per il signor Jones e il signor Norton e per tutti gli altri: da un punto di osservazione distante quanto basta li vediamo agire, li sentiamo parlare o tacere, dialogare o arrabbiarsi, lavorare, dormire, uscire, tornare, pranzare... e lentamente ma inesorabilmente sappiamo chi sono fino in fondo. 
Non una parola spesa da Raschka per spiegarci le cose. Lui, semplicemente, le fa succedere. Nessuna 'voce fuori campo' che spieghi. 
L'intelligenza del lettore è fatta salva. E non potrà che esserne grato all'autore.
Un esempio eclatante è il racconto, a mio avviso il migliore per quanto sappia essere emblematico in tal senso, Acqua caldaCome raccontare, con leggerezza e ironia, cose giganti (su cui fiumi di inchistro e di retorica sono stati spesi) come  l'amicizia, l'amore, la paura, la solitudine. E farlo attraverso una semplice sequenza di accadimenti in sole scarse 24 pagine che ruotano in sostanza intorno a dell'acqua calda, appunto. 
Quella di una vasca da bagno e quella contenuta in una teiera. Chapeau!
E qui arriva la seconda ragione per cui Raschka scrittore eguaglia se non supera il Raschka illustratore. 
E a proposito di illustrazione, devo per forza fare riferimento a un amico di Raschka e suo estimatore, David Wiesner. Si potrebbe dire che abbiano un punto di vista analogo e un medesimo tono nel raccontare. 
La capacità dimostrata da quest'ultimo nel creare l'impossibile dal possibile, di creare l'invisibile nel visibile si ritrova con Raschka anche nella narrativa. 
Tanto Wiesner costruisce per i suoi albi (soprattutto quelli senza parole) strutture narrative pervase di una logica stringente, tanto ragiona perché ciascun dettaglio delle sue tavole abbia un preciso senso e ragione di esistere, tanto il suo progetto mentale, che parte da un'immagine anche la più assurda di sempre -delle rane che volano su delle foglie di ninfea attraverso la notte nel cielo cittadino o dei porcellini su una pagina di un libro di fiabe- deve appoggiarsi sulla solidità di quella logica, di una realtà riconoscibile come tale. Solo in tal modo i lettori possono dargli fiducia, credergli e farsi quindi condurre verso un altrove, per assistere convinti all'impossibile che si manifesta. 
Ecco, altrettanto fa Raschka nel raccontare la vita che accanto a situazioni in cui ci ciascuno si può riconoscere, mutatis mutandis il portinaio che commenta o non sa commentare la partita della Nazionale, riempie con la sua inventiva sacchi di meraviglia. 
In altre parole si tratta di un uso sapientissimo della propria immaginazione che sa insinuarsi e poi crescere e, prendere forma e corpo. Secondo motivo per ringraziarlo.
Ma c'è anche uno scatto in avanti ulteriore. 
Raschka come Wiesner studia, si documenta e riempie di informazioni il racconto. Dopo aver letto le quasi trecento pagine, accanto all'accresciuto immaginario, il bagaglio di conoscenze è decisamente più pesante che alla partenza. 
E qui parte il terzo ringraziamento.
In ultimo due parole sul tono che Wiesner (fin troppo misconosciuto questo suo lato al quale lui tanto invece tiene) e Raschka ancora condividono: l'ironia che attraversa i loro racconti. E il quarto grazie sorge spontaneo.
In ultimissimo apprezzare la cura che ancora tiene insieme questi due giganti. La cura che mettono in ogni dettaglio, la cura del segno e della parola: un atto di grande rispetto di cui esser loro grati. Cura che in questo romanzo raggiunge il suo vertice nelle pagine finali, perfettamente speculari all'inizio e che sono di nuovo un elenco di fatti per dimostrare il nocciolo dell'intera storia. Che non dirò qui.
Da non perdere, per nessuna ragione al mondo.

Carla