Cara
Formica,
Mi
devo scusare con te per aver bruscamente interrotto la lettera senza
nemmeno salutarti.
Nella
mia mente una domanda pulsava come una ferita: “Dove? Dove? Dove è
Tasso adesso? “
Hai
notato che più definiamo il posto della morte nella vita, più
diventa quasi impossibile capire dove vanno i morti. Non ti fa girare
la testa, questa domanda?
E
io che pensavo di saper rispondere a tutte le domande sulla morte!
Ora non faccio che leggere e ragionare alla ricerca di spiegazioni
convincenti. Ma un libro in particolare mi ha fatto capire che forse
posso provare a rispondere da solo.
Si
intitola Il
paradiso di Anna
del
norvegese Stian Hole, che ha un approccio molto diverso da tutti gli
altri scrittori ed illustratori del Nord che abbiamo conosciuto.
La
piccola Anna ha appena perso la mamma, e lei ed il papà devono
affrettarsi ad andare in chiesa per il funerale. Ma prima di
partecipare al rito, Anna chiede del tempo per elaborare la sua
personale visione del Luogo in cui secondo la sua cultura vanno i
morti e provare a consolare il dolore del suo papà.
Lo
sguardo puro ed innocente che tanto somiglia a quello di Bruno è
puntato proprio lì, nell’aldilà.
Non
credo sia un caso che questo libro esista anche per noi lettori
mediterranei: la morte non viene nominata direttamente. Piuttosto è
la premessa per una indagine che avviene tutta oltre la sottile linea
che separa i morti dai vivi. Un confine netto che si trasforma in un
asse attorno a cui tutto può essere ribaltato.
È
difficile cambiare, Formica, e che cambiamento di prospettiva
sconvolgente deve comportare la morte di una madre. Ogni ordine viene
sovvertito, e in questo libro la vertigine di questa dolorosa
trasformazione è evidente. Per Anna però la possibilità di
trasformazione delle cose diventa una risorsa, un gioco. Anna
utilizza gli strumenti che la mamma le ha dato per trasformare,
ribaltare, interpretare e lenire: i chiodi che cadono dal cielo
potrebbero trasformarsi in fragole con il miele, Dio potrebbe non
essere smemorato come la nonna. In fin dei conti ogni cosa ha due
lati, come il suo nome.
Anna
e il papà si tuffano oltre la sottile linea di cui ti parlavo,
rappresentata dalla superficie di uno specchio d’acqua, alla
ricerca della mamma. Anche qui c’è una barca, ma i nostri amici
non ci pensano nemmeno ad usarla. Loro non vogliono allontanarsi dal
dolore scivolando sulla superficie, vogliono andare in profondità,
talmente in profondità da raggiungere il cielo.
Nuotano assieme ai
pesci volanti, ascoltano un canto che sembra provenire dal cielo,
vedono il nonno, e tanti altri morti famosi e sconosciuti, ma la
mamma non la trovano. Quando si arrendono a questa evidenza, tornano
a casa con una capriola, la stessa che gli permetterà di dare nuovi
nomi alla nuova vita che li attende. Finalmente il papà sorride, e
possono andare celebrare il rito funebre.
Cara
Formica, ho capito che le cose non sono solo quelle che sembrano:
tutte celano la possibilità di una metamorfosi. Ed esiste un luogo
preciso e sottilissimo in cui con molto coraggio e fantasia, si può
facilitare il cambiamento.
Forse
anche la morte può essere un inizio?
Scoiattolo
Ps.
Cara amica...ti avevo detto che i due protagonisti del libro non
riuscivano a trovare la mamma nel cielo, eppure... prova a guardare
meglio le illustrazioni...
Caro
Scoiattolo,
Tu
parli di cielo, io parlo di stelle...insomma sembra proprio che lo
sguardo delle persone debba alzarsi da terra, chissà, forse perché
la terra è, nell'immaginario di tutti, il posto che da sempre è
stato capace di accogliere le spoglie di chi è morto. La terra è
impenetrabile, è anche scura, è certamente fredda e nasconde a
perfezione ciò che contiene. Mentre il cielo, non importa se nero
della notte, o chiaro, o corrusco di nuvole, il cielo non nasconde,
lo sguardo lo attraversa, ma è una zona che non ci appartiene: noi
siamo terreni, terrestri, eppure nonostante non ci competa come
spazio naturale, non facciamo altro che desiderare di muoverci nella
sua trasparenza. Diamo alla terra ciò che non vogliamo vedere e al
cielo ciò che possiamo solo immaginare.
Non
credo che sia un caso che in molte religioni è il cielo il luogo
ideale per ciò che l'umanità sogna ci sia dopo la morte. E allora
pare quasi naturale che il nostro sguardo si sollevi dal luogo che
accoglie i corpi di chi non c'è più, che il nostro sguardo non
regga la visuale della morte, e cerchi un nuovo respiro nel cielo,
con il naso puntato in su, per aria.
Penso
a quel papà, che al suo bambino che ha appena perduto la mamma e non
riesce a dormire senza, propone una passeggiata notturna per lasciar
da mangiare ai pettirossi, alla volpe e guardare in su. Neve nei
piedi, silenzio intorno, nessun colore nemmeno sulla pagina, e
disegni così affilati da essere ritagliati nella carta stessa...
Il
libro norvegese di cui ti sto parlando è Eg
kan ikkje sove no,
Non posso dormire senza..., di Stein Erik Lunde e Oyvind Torseter.
Gli
adulti perdono spesso la parola, sopraffatti dal dolore. Questo papà
con il filo di fiato rimasto riesce a dire le cose giuste e laddove
non sa dire, usa il corpo: accoglie, abbraccia, contiene. Tra le sue
ginocchia il bambino si accoccola. Le guance si toccano, la barba un
po' lunga che sfiora la fronte...
Nella
loro casa, seppure così insolitamente silenziosa, c'è un fuoco che
brucia nel camino. Rimane punto di riferimento, luogo conosciuto dove
i due si muovono nelle loro consuetudini, anche se ora tante
consuetudini non ci sono più. In casa c'è la capacità di
progettare semplici cose per domani: il taglio dell'albero. Piccoli
passi, obiettivi di corta gittata. E per curare l'insonnia, e la
malinconia ci sono i pettirossi da nutrire. I pettirossi, che come
dice la nonna, sono i morti che tornano a trovarci.
Fuori
c'è il mondo notturno che aspetta papà e bambino e che li
racchiude, come loro si avvolgono reciprocamente: quel bambino in
braccio al suo papà, che con il suo corpo si incunea negli spazi
liberi di quello paterno: la testa nel collo, le gambe che penzolano
dalle braccia. Il nero della notte li rende ancora più piccoli e
inermi, ma li unisce in un unico profilo che è più robusto.
Fuori
li attende la volpe, una macchia rossa in tanto bianco, che ha fame
anche lei. In un susseguirsi di percezioni tattili raccontate a
parole, arriva la domanda, secca, diretta, che non lascia dubbi o
false interpretazioni nel lettore e, ancora meno, scappatoie nella
risposta: la mamma sta dormendo e non si sveglierà più?
La
risposta è onesta: dove si trova ora, no.
Tanta
onestà richiede, tuttavia, il ricorso a qualcosa di più grande, di
più alto verso cui guardare per poter essere sopportata: il cielo
stellato, ancora una volta. Le connessioni tra la risposta e la
proposta di andare a vedere le stelle le può creare il lettore, se
vuole. Oppure può lasciare il cielo e le stelle dove stanno e
rimanere giù a terra, vicino a quel bambino in braccio al suo papà,
che lui immagina come una barca - al pari della luna - che naviga e
attraversa la notte..
Ancora
abbracciati, l'uno dentro l'altro, dopo aver condiviso, forse, lo
stesso desiderio davanti a una stella cadente, tornano a casa. Sul
divano davanti al fuoco, nonostante il sonno, il bambino ripete 'non
posso dormire senza...'
'Tutto
andrà bene' 'Ne sei certo?' 'Ne sono certissimo'.
A
entrambi resta, dunque, il compito di progettare un nuovo domani.
Insieme.
Ecco,
domani.
Ti
aspetto
Formica
(in cerca di un proprio divano)