lunedì 31 gennaio 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

UNA STORIA DI GUERRA


I destini incrociati di tre personaggi sono al centro del nuovo romanzo di Paul Dowswell, dedicato alla Seconda Guerra Mondiale. ‘Destini incrociati. 1944. Giovani, eroi, ribelli’, pubblicato da Feltrinelli, è il drammatico racconto di un aspetto particolare dell’ultima fase del conflitto mondiale: la costruzione, da parte dell’esercito tedesco, dei temibili missili V1 eV2, destinati, soprattutto, al bombardamento di Londra.
I protagonisti, dunque, sono tre, ma sono circondati da una serie di personaggi minori: Marikije è una ragazza olandese, fidanzata con un giovane, Thijs, implicato con la Resistenza contro l’occupazione nazista; Yvie vive a Londra, è di famiglia modesta, ma riesce a sostenere le spese scolastiche grazie ai loschi affari di uno zio; infine Tomasz è un prigioniero polacco, mandato a lavorare in una fabbrica sotterranea di missili.
Tutto ruota proprio intorno a questi missili; prima i V1, aerei senza pilota, poi i V2, razzi a lunga gittata lanciati dalle coste francesi verso Londra, furono protagonisti di un massiccio attacco contro la metropoli. Queste armi, via via sempre più perfezionate erano il frutto delle ricerche di Werner von Braun, e sono state le basi delle successive ricerche dedicate all’esplorazione spaziale.
Ma il centro della storia non è sicuramente questo. Dowswell, come sempre, piega l’accurata ricostruzione storica alle necessità narrative dei suoi romanzi. Il cuore della vicenda è la lotta contro il tempo di Marikije e Thijs per riuscire a far avere agli Alleati le foto dei nuovi missili, le cui rampe di lancio sono vicine al paese in cui vivono; Tomasz lavora proprio lì come saldatore; all’inizio, all’interno della fabbrica sotterranea, viene convinto da un capo squadra francese a sabotare i missili. Dopo la morte del suo capo, viene spostato nel luogo più pericoloso, la rampa di lancio, dove, a causa dei propellenti altamente infiammabili, gli incidenti non sono rari. Marikije riesce a fotografare il missile e far avere il rullino ad un aviatore inglese, che raccoglie anche Tomasz, dopo che questi ha sabotato il lancio del missile. Nel frattempo Yvie vive a Londra nella costante incertezza provocata dai bombardamenti a sorpresa, compreso quello di un grande magazzino da cui era uscita da poco. I destini, dunque si incrociano per il lasso di tempo di quei mesi cruciali, fra il ‘44 e il ‘45, che decideranno le sorti della guerra.
Dowswell dosa sapientemente i riferimenti ad episodi reali, come il bombardamento del Grande Magazzino, con invenzioni narrative che consentono quell’intreccio di destini che già aveva caratterizzato ‘L’ultima alba di guerra’.
Anche in questo romanzo, i protagonisti e la folla di personaggi che li circonda sono eroi per caso, o soldati riluttanti, incastrati nel meccanismo osceno della guerra. I giovanissimi soldati tedeschi, di sedici o diciassette anni, mandati a morire nelle batterie antiaeree, i prigionieri polacchi, trattati come animali e mantenuti in vita quel tanto che basta per farli lavorare, contrapposti alle tristi figure di spie, collaborazionisti e feroci occupanti, il contraltare di quella umanità dolente.
La vittoria contro il nazismo e il fascismo è dovuta sicuramente all’aspetto più direttamente militare, ma è anche il frutto dei piccoli eroismi, le scelte coraggiose che contribuiscono a facilitare l’esito della guerra.
Il grande merito di Dowswell è di non cadere mai nella retorica della guerra ‘giusta’, continuando a mostrare, libro dopo libro, tutti gli orrori che la guerra in quanto tale comporta.
Come sempre costruito con sapiente perizia, il romanzo è dotate di grande ritmo e la sua lettura è avvincente anche per un lettore o una lettrice attratti dall’azione.
Consiglio quindi la lettura a ragazze e ragazzi, a partire dai dodici anni, che amino la storia e l’avventura.

Eleonora

“Destini incrociati. 1944. Giovani, eroi, ribelli’. P. Dowswell, Feltrinelli 2022




 

venerdì 28 gennaio 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

(DON'T) LOOK UP! 

Undicesimo comandamento, Davide Calì, Tommaso Carozzi 
Kite Edizioni 2022 


 ILLUSTRATI 

 "Non sfidare la natura" 
 
Nei cieli di una metropoli, tra i grattacieli si fa largo, fluttuante nell'aria fumosa, il muso di una balena. La sua grande ombra si riflette al suolo su un tappeto di macchine intasate nel traffico. La gente per strada alza gli occhi al cielo, per questa oscurità improvvisa e inaspettata. Quello che i loro occhi vedono ha dell'incredibile: decine di grandi cetacei silenziosissimi attraversano il cielo, nuotano nell'aria, sgusciando tra i palazzi. Arrivano rasente i tetti delle auto, dalle finestre degli uffici li si possono guardare in quei loro occhietti sempre troppo piccoli. 
Un bambino dal finestrino della sua macchina le guarda affascinato. E al principio sono proprio queste le due emozioni che si diffondono tra la gente per strada con in mano il proprio cellulare per fotografare: meraviglia e terrore. Con lo scorrere del tempo, la notizia delle balene nel cielo di Melville, città dell'Australia, finisce sugli schermi delle televisioni. Allora non si tratta di un sogno collettivo - se lo dice anche la tv, deve essere vero! 


Mentre dietro i vetri, i cetacei continuano, imperterriti e pacifici, la loro invasione dello spazio aereo sulla città, le più alte cariche dello stato, compresi i vertici militari, studiano un piano per porre fine a questo assedio silenzioso. Scortato dai carri armati, un esercito di robusti balenieri marcia per le strade alla conquista di postazioni adatte per arpionare i cetacei e ucciderli. I colpi vanno a segno e hanno l'esito di far crollare i grandi mammiferi del mare su quello che c'è sotto: ora giacciono inanimati sui tetti dei palazzi, nei parcheggi affollati di macchine schiacciate, lungo le rive del ruscello nel giardino pubblico. 
Onore al merito, il generale a capo delle operazioni ha la sua medaglia e Melville parrebbe in salvo. Parrebbe... 

Quando si concepiscono storie di questo genere, di portata così archetipica e allo stesso visionaria, in qualche modo distopica, e lo si fa in assoluta assenza di parole guida (a parte il titolo e le quattro parole della quarta di copertina, che ci portano in una direzione precisa) si offre al lettore una occasione ghiotta per costruire subito una rete di riferimenti e per darne una propria e personale lettura. 
L'intento dal tono biblico di Calì, alias Cornelius per l'edizione francese, sembra dichiarato e ha a che fare con il rapporto malato tra uomo e natura. 
I termini, in qualche modo la lingua utilizzata, in cui la questione viene posta suonano perentori: come lo sono i comandamenti, legge fondante per il Cristianesimo. In qualche modo si sfiora l'apocalisse.


Il nocciolo della questione, ossia l'approccio violento e rapace che l'umanità dimostra di avere nei confronti del pianeta su cui vive, è un tema molto caro a Davide Calì che da tempo crea occasioni, e quindi concepisce e racconta storie, mosso evidentemente dall'urgenza di porre la questione nelle mani e nelle orecchie di chi ha il merito di volerle ascoltare. 
Lo ha fatto per esempio, anche in una chiave decisamente più ironica di questo Undicesimo comandamento, con L'isola delle ombre. Mi piacerebbe non considerare una coincidenza il fatto che i riferimenti all'Australia, nella città di Melville, siano tanto in quel libro, quanto in questo. Molto più certa è, invece, la sua profonda riflessione sull'impatto dell'uomo nei confronti della natura, in particolare il mondo animale, riflessione maturata, è lui a raccontarlo, tornato da un lungo soggiorno in l'Australia qualche anno fa. 
Intorno a tutto questo non si può non cogliere il piacere e la volontà di avere uno sguardo visionario, che sposta tutto su un registro 'letterario' che ne smussa le inevitabili asperità e il rischio di diventare didascalico e troppo prescrittivo.
 

La scelta di raccontare questa storia senza parole, come si diceva, lascia aperta la porta a tutta una serie di fecondi ragionamenti, ognuno con radici e riferimenti diversi. 
Primo fra tutti, spicca quello di Tommaso Carozzi, che qui giganteggia (oltre a molto altro, per tecnica, per capacità di restituire la luce, per sensibilità nei tagli prospettici e nella composizione) al suo primo albo. 
A parte il dichiarato intento di connettersi a doppio filo con Herman Melville e il suo Moby Dick, citato qui e lì, nei balenieri come nei cingolati, c'è chi ha colto affinità con la storia per eccellenza del kolossal americano, King Kong del 1933; si può vedere un omaggio all'America di Hopper, al Surrealismo degli oggetti in volo di Magritte, oppure cogliere legami con l'immaginario di David Wiesner, nel concepire un attacco silenzioso quanto incredibile, dal cielo a una umanità che resta, almeno in un primo momento, inebetita. Per non parlare del finale... 
Si ispira anche a certa letteratura di fantascienza, fino a diventare profetico nei confronti del soggetto del film Don't look up! : in fondo il grido d'allarme, l'atmosfera di stupore misto a terrore, e il tipo di reazione messa in campo per risolvere il problema non sembrano tra loro molto distanti.
 

Ma questo voluto silenzio, al pari di quel tipo di bianco e nero dato dalla grafite, porta con sé anche molto altro. In primo luogo riflette la condizione umana nei confronti della natura. Lo dice molto chiaramente Davide Calì, affermando che la natura non usa parole per esprimersi e per colpirci. 
Inoltre il silenzio e il volo (l'alternanza di visione dall'alto e dal basso), in questo libro, non fanno che sottolineare la potenza di quei cetacei in aria e la pochezza delle prime razioni scomposte degli uomini, minuscoli al suolo. 
Fino a un preciso momento, ossia a quello della reazione violenta e prevaricatrice che, almeno temporaneamente, fa pensare a una vittoria schiacciante dell'uomo. 
Le balene, enormi ma di fatto inermi, planano morbide nei loro profili, sulla città senza evidenti intenti bellicosi, ma immediatamente accendono nell'immaginario delle persone che disegna Carozzi e in noi che le vediamo, finita l'incredulità,  lo stesso terrore negli occhi che dovettero generare i bombardieri in guerra o quei due aerei di linea che sono entrati, in una bella giornata di sole, dentro un paio di grattacieli di New York. 


Libri così ben concepiti e realizzati sono necessari. 

Carla

mercoledì 26 gennaio 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

IL GHETTO DI VARSAVIA


Il 16 ottobre del 1940 nella città di Varsavia l’esercito tedesco fece erigere un muro che circoscriveva il ghetto ebraico. Tutti gli ebrei che vivevano in città e quelli dei paesi limitrofi furono trasferiti lì, a patire la fame e le epidemie di tifo. Il romanzo ‘I ragazzi di Varsavia’ di Winfried Bruckner, pubblicato in queste settimane da Giunti, racconta la loro vita.
Si tratta di un romanzo corale, in cui si muovono diversi personaggi: il medico Lersek, le infermiere Rebecca e Irena, Pavel, ex pittore che ora spinge il carro che trasporta i morti, e Dov il poeta. Su tutti un gruppo di ragazzini intrepidi, guidati da Lolek, che di notte oltrepassano il muro per andare a cercare del cibo al mercato nero.
Le famiglie ebree vivono ammassate negli appartamenti, mentre nell’ospedale si moltiplicano i casi di tifo. C’è anche chi vive per strada e tutti hanno bisogno di cibo.
I tedeschi con la costruzione del muro avevano lasciato pochi varchi aperti da cui potevano passare solo gli ebrei con la tessera di lavoratori, utilizzati in diverse mansioni nelle fabbriche della zona. La gestione interna al ghetto era affidata ad un consiglio di ebrei. Le razioni alimentari destinate agli ebrei era un decimo di quella riservata ai soldati tedeschi. Per questo motivo, ben prima dei rastrellamenti e le deportazioni verso i campi di sterminio, la popolazione del ghetto fu decimata dalla fame e dal tifo. Nell’estate del ‘42 cominciarono i rastrellamenti e la popolazione del ghetto diminuì costantemente. Nel 1943 gli ebrei del ghetto si ribellarono, ma il nostro romanzo si ferma prima, accennando solo di sfuggita all’idea che alcuni stavano cercando di trasformare in realtà.
L’autore, giornalista e scrittore austriaco, più volte premiato in patria, ha scritto questo romanzo nel 1967 e, nella premessa, chiarisce quale fosse il suo intento: raccontare, nel limite dell’invenzione narrativa, gli stati d’animo di persone comuni, normali, di fronte al progredire del Male: prima l’incredulità, le false speranze, l’ingenuità. Un esempio di questa ingenuità è la partecipazione volontaria di molti alle prime spedizioni verso i campi di stermino, presentate come gite. Poi, progressivamente, la disperazione, la rassegnazione, ma anche la rabbia, l’odio verso i tedeschi, tutti. E quel germe di reazione che nel ‘43 darà vita alla rivolta del ghetto di Varsavia.
Alcune domande circolano fra le righe in questo testo: perché gli ebrei si ribellarono così tardi, ma anche perché la Germania nazista concepì questo specifico calvario, questa realtà sospesa che non era ancora una condanna a morte, ma non era più vita; come distinguere fra nazisti e tedeschi, quando l’occupazione militare e i progetti di sterminio si sovrappongono e sono portati avanti con disciplina dai soldati così come dalle SS.
Alcuni personaggi sono indimenticabili: la piccola Patye, che sgusciava sotto il filo spinato per andare a comprare alla borsa nera; Wanda, la bambina che tutti pensano sia una santa, che in realtà cova un odio implacabile verso i tedeschi, Michele il bambino convinto di essere protetto dalle statue di santi, al di là del muro. Tutti destinati alla stessa fine.
Anche questo romanzo, come altri presentati nei giorni scorsi, richiede un lettore e una lettrice maturi: la durezza della situazione descritta, ma anche la complessità dell’argomento, richiedono una lettura motivata e preparata ad affrontare uno degli episodi più tragici della Shoah. Si tratta in ogni caso di una lettura importante, documentata, avvincente su un aspetto forse meno conosciuto, dai nostri ragazzi, dell’Olocausto.

Eleonora

“I ragazzi di Varsavia”, W. Bruckner, Giunti 2022



lunedì 24 gennaio 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

IL CIELO SOPRA CRACOVIA

L'aquilone di Noah, Rafael Salmerón (trad. Daria Podestà, Sante Bandirali) 
Uovonero 2022 


NARRATIVA PER GRANDI (dai 12 anni) 

"Nacque piccolo, magro, come un coniglio scuoiato; ma con gli occhi grandi e neri, talmente aperti che in loro si potevano vedere la vita e la morte. Non pianse. Non pianse mai, neppure quando sua madre , cercando di svegliarlo da quell'angosciante silenzio, lo faceva aspettare ore e ore prima di attaccarlo al suo grande e straripante seno. E quando, passato il tempo, arrivò il momento di farfugliare, di strillare, di ripetere le sillabe in continuazione, il piccolo Noah continuò a mantenere il più profondo dei silenzi." 

Per sua madre, fin dalla nascita, è sempre stato un peso, qualcuno di cui vergognarsi, mai un pensiero affettuoso nei suoi confronti. E così è anche per la sua sorella maggiore, Hannah, che come sua madre Dora, di lui non vuol nemmeno sentir parlare. 
Il suo piccolo e misero padre, Leopold l'orologiaio ebreo, non ha le forze per potersene occupare, pieno solo della sua frustrazione, maturata nel corso di una intera vita accanto a una moglie che non lo ha mai amato, ma sempre disprezzato. Per questo omino contano solo i meccanismi minuscoli degli orologi che ripara. 
L'unico che si prende cura di lui è il fratello maggiore, Joel; con lui condivide la maggior parte del tempo, con lui si sente al sicuro e protetto, perché Joel è l'unico che i suoi silenzi li accetta, i suoi sguardi li intende. 
Nella loro misera casa di Cracovia, la famiglia ebrea dei Baumann conduce un'esistenza sempre uguale: madre e figlia si vergognano della loro povertà, che imputano alla ignavia dell'orologiaio, che da parte sua, evita i contatti con il mondo esterno, rifugiandosi nei sui ingranaggi; Joel accudisce il suo fratellino fragile che ha un'unica grande passione: far volare il suo aquilone. 
Appena un refolo di vento glielo permette, Noah parte per la collina al di là della Vistola, un po' troppo lontano dal suo quartiere di Kazimierz, e con le sue manine ossute e sapienti dimostra al mondo intero di quanto sia bravo e capace a governare il volo di quell'incrocio di stecche di legno su cui è fissato un rombo di stoffa. 
Essere ebrei a Cracovia, come in moltissimi altri luoghi, non è mai stato facile, ma alla fine dell'estate del 1939, lo diventa ancora di più. 
Il primo di settembre, la Germania di Hitler, lo si apprende dalla radio, ha appena invaso il paese e, sebbene i polacchi pensino che cacciare i tedeschi sarà solo questione di giorni per il governo, la situazione sembra andare in tutt'altra direzione. 
A meno di una settimana anche per le strade di Cracovia l'esercito tedesco sfila trionfante. 
Come sono andate le cose è storia nota. 
Sullo sfondo dell'occupazione della Polonia, di una guerra alle porte, di un popolo che in parte si allea con l'invasore, di una guerra che diventerà presto mondiale, di una persecuzione capillare di tutti gli ebrei, prima privati di ogni diritto o libertà, chiusi nei ghetti, poi deportati nei campi, si compone la storia di questa famiglia, i Baumann, le loro poche amicizie, il loro incontro con gli Hiller, la famiglia con cui devono condividere una stanza nel ghetto: due finestre e un numero di letti nemmeno sufficiente a ospitarli tutti. 
Questa è la loro storia, ma è anche la storia di tutti. 

Una storia di tutti. È forse questo il tratto che più colpisce durante la lettura di questo romanzo: a prescindere dall'ovvia necessità di Salmerón di testimoniare nel racconto di un pezzo di storia che come umanità non dovremmo ignorare, men che meno dimenticare, e che, al contrario, dovrebbe riguardarci tutti, esiste un ulteriore registro narrativo che dal contesto storico si allontana per andare in una direzione molto più intima, direi personale, e si insinua e scava, scava e va giù nelle profondità dell'emotività di ogni lettore. E forse risiede in questo la sensazione di piacevole aspettativa che si crea ogni volta che si riprende in mano il libro per proseguirne la lettura.
Fatta salva la ricostruzione di un contesto che già di per sé non può e non deve lasciare indifferenti, io credo che la qualità migliore di questo libro si costruisca, pagina dopo pagina, nel racconto della varia umanità che agisce tra le maglie della Storia. E, in particolare, nella capacità di Salmerón di dare spazio alla complessità di pensiero e azione dei tanti piccoli e grandi personaggi che abitano il romanzo e che, fatta eccezione per quelli che rappresentano il Male assoluto, non sono mai facilmente classificabili come completamente buoni o completamente cattivi. 
L'intreccio di relazioni che tiene insieme questa piccola comunità è un affresco davvero commovente, profondo e talvolta anche scomodo da guardare. 
Il piccolo Noah, sebbene per lunghi tratti della storia lo si veda conquistare silenziosamente lo sfondo, non perde mai il suo ruolo di perno intorno a cui tutto in qualche modo ruota: conosciamo suo fratello Joel, sua sorella Hannah, suo padre e sua madre, nonché i genitori Hiller e sopratutto la loro figlia Sarah, attraverso il loro modo di interagire o costruire un rapporto personale con lui. 
In qualche modo anche il vecchio giocattolaio Rosemfeld, in questo senso, a lui deve molto. Per paradosso anche alcuni ufficiali e soldati dell'esercito tedesco prendono profondità nel confrontarsi con i suoi silenzi e il suo sguardo che 'buca' le uniformi. 
A parte la tenera bolla d'amore che racchiude al suo interno Joel e Sarah e che farà felici tutti coloro che nelle storie hanno bisogno anche di questa valvola di sfogo - bolla che per un lungo tratto fluttua senza troppe scosse - tutte le altre relazioni interpersonali sono riconoscibili, anche quando sono scomode. 
Il riferimento all'anaffettività di Dora Baumann nei confronti dei maschi fragili della sua famiglia è difficile da accettare, quasi quanto la viltà del marito che pare derivarne, ma è lì a dimostrare che la mente umana non è cosa piana. Al contrario l'incrollabile, o quasi, volontà propositiva, la potente affettività della seconda famiglia al di là del lenzuolo che divide lo spazio, quella degli Hiller, è lì a dimostrare che anche nella peggiore delle situazioni è possibile trovare un gancio per tentare di uscirne. Accanto a questi nove protagonisti, ai loro continui aggiustamenti di pensiero e di emozioni nei confronti di ciò che accade, ruotano alcuni personaggi 'satellite' che non devono per nessuna ragione al mondo, passare in secondo piano o, peggio, essere trascurati. 
Il primo dei quali, ma attenzione non è il solo, è il signor Ezra Maisel, cui Salmerón dedica un intero capitolo, la cui lettura può valere da sola l'intero libro. 
Da non perdere.

Carla

venerdì 21 gennaio 2022

FAMMI UNA DOMANDA!

NANO


Sembra un accostamento azzardato quello fra il tema, abbastanza ostico, delle nanoscienze, e le illustrazioni barocche di Melissa Castrillón, ma è esattamente questa la scelta operata in ‘Nano. La spettacolare scienza del molto (molto) piccolo’, i cui testi sono firmati dalla scienziata e divulgatrice Jess Wade. Si tratta di un bel libro illustrato, ora proposto da Editoriale Scienza, dedicato ad uno degli aspetti più affascinanti della ricerca scientifica contemporanea.
Per farlo, l’autrice parte dai rudimenti della chimica, la struttura della materia, gli atomi, gli elementi e le loro caratteristiche, per descrivere poi quelle che sono alcune discipline di frontiera, come appunto la tecnologia che lavora con materiali sperimentali e che ha applicazioni, almeno potenziali, in moltissimi aspetti della vita quotidiana. Un esempio è il grafene, materiale derivato dalla grafite, ma ridotto ad un unico strato atomico, costituito da una serie di esagoni collegati fra loro. Si tratta di un materiale leggerissimo e resistentissimo. Ma le applicazioni potenziali sono molte e giustamente l’autrice conclude il testo invitando la giovane lettrice o lettore ad immaginarsi nei panni di chi farà progredire ancora di più questa branca della ricerca scientifica.
Chiude il libro un riepilogo delle principali figure professionali che di questi argomenti si occupano.


Su un testo di questa natura, difficilmente riconducibile all’esperienza quotidiana, che ruolo svolge l’immaginifica illustrazione della Castrillón?
Qui, infatti non è possibile tradurre in forma ‘narrativa’ quello che dice il testo: l’illustrazione deve rispettarne il contenuto, che in questo caso è anche piuttosto astratto; in alcune pagine l’illustrazione funziona come cornice che circoscrive il testo, in altre esplicita, rappresenta creativamente il contenuto tecnico del testo. Per dare un’idea della particolarità del grafene, la Castrillón immagina un elefante camminare su un sottilissimo cavo di questo materiale, sotto l’occhio vigile e compiaciuto della bambina che ci guida da una pagina all’altra.


Si susseguono pagine coloratissime, con immagini sorprendenti in grado di risvegliare l’attenzione anche dei più pigri, in cui la piccola protagonista, una perfetta alter ego della lettrice e del lettore, viaggia fra i materiali della vita quotidiana per poi appollaiarsi sulla perfetta struttura geometrica di un atomo.
Il risultato è un bel libro, pensato per suscitare curiosità e meraviglia per qualcosa che non è immediatamente percepibile, stimolante e divertente per lettrici e lettori a partire dai sette anni. Non sfugge all’occhio adulto la presenza preponderante di soggetti femminili nei ruoli di scienziate e ricercatrici. Jess Wade, giovane e brillante fisica britannica, è autrice di numerose pagine di Wikipedia dedicate a scienziate e studiose, attività volta ad incoraggiare le ragazze ad intraprendere la carriera scientifica. Evviva!

Eleonora


“Nano. La spettacolare scienza del molto (molto) piccolo”, J. Wade e M. Castrillón, Editoriale Scienza 2022





mercoledì 19 gennaio 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

IL 'SALTO DI SPECIE'

Povero Amleto
, Barbro Lindgren, Anna Höglund (trad. Giola Spairani) 
Iperborea 2021 



ILLUSTRATI PER PICCOLISSIMI (dai 3 anni) 

"Guarda Amleto. Amleto non contento. 
Mamma di Amleto cattiva. Papà di Amleto morto. 
Amleto si becca altro papà. Altro papà supercattivo. 
Papà di Amleto adesso spettro. Spettro che parla.

La storia, così come l'ha concepita Shakespeare, è nota: Il re di Danimarca è morto; il figlio ed erede al trono, il principe Amleto, sugli spalti del castello di Elsinore, ne vede lo spettro che gli rivela di essere stato avvelenato dal proprio fratello Claudio che ne ha poi sposato la vedova, la regina Gertrude, e ha usurpato il trono. Amleto giura al padre di vendicarlo e comincia a fingersi pazzo per poter scoprire la vera verità, ma è tormentato da dubbi e indecisioni. 
In uno dei suoi raptus, respinge anche Ofelia, figlia del ciambellano Polonio, che pur ama e da cui è riamato; mentre interroga in un drammatico colloquio la madre, già che c'è, uccide Polonio, sorpreso a spiare dietro una tenda. 
Ofelia, intanto, impazzita dal dolore, si annega; suo fratello Laerte decide di vendicare la sua morte e quella del padre. Di questa situazione approfitta Claudio, che invita i due giovani a confrontarsi in un duello incruento; in realtà fa avvelenare la punta della spada di Laerte, nonché il vino da offrire ad Amleto, in caso di sua vittoria. 
Il giovane principe viene ferito, ma riesce comunque a uccidere sia Laerte, che prima di morire gli rivela la verità, sia lo zio usurpatore; e come se non bastasse, la regina Gertrude muore per aver bevuto, inconsapevole, il veleno destinato ad Amleto. 


Totale dei morti: il padre di Amleto, la madre di Amleto, lo zio di Amleto, Ofelia, suo fratello Laerte, suo padre Polonio e, naturalmente, Amleto. 

Forse una delle storie più raccontate al mondo. Una delle tragedie di Shakespeare che ha valicato i confini dei teatri ed è entrata nel nostro immaginario per fermarcisi. 
Se si dice Amleto, immediatamente viene in mente quel ragazzo malinconico, cereo e vestito di nero, che si aggira tra le nebbie che avvolgono Elsinore con un teschio in mano, nella sua inguaribile e perenne incertezza, sussurrando frasi, che sono diventate l'espressione per eccellenza del macerarsi nel dubbio. 
Shakespeare si sarebbe detto una roba da adulti o, tutt'al più, da ragazzi già grandicelli. 
Vista la bellezza della storia, ne esistono infatti interessanti riduzioni letterarie, talune anche magnificamente illustrate, tutte però immaginate per lettori che superano ampiamente il metro di altezza. Eppure. 
E qui arriva il colpo di genio, l'ennesimo verrebbe da aggiungere, di Barbro Lindgren. 


Consapevole dell'impatto emotivo che questa storia ha dimostrato di avere nel corso dei secoli, quanto meno nel nostro emisfero, consapevole altresì del fatto che, al pari delle più grandi narrazioni, l'Amleto parla una lingua universale, quella della fiaba e del mito, in grado di dire sempre qualcosa a ciascuno di noi, la Lindgren ha azzardato il 'salto di specie' e lo ha trasformato in un racconto per bambini piccolissimi. 
Ossia quei bambini e bambine che sono ancora lì a prendere le prime misure del mondo e dell'umanità circostante e che per maggiore efficacia (ben lontani dal manicheismo dei grandi) ragionano per macro categorie: buono, cattivo; bello, brutto; grande, piccolo; triste, allegro; freddo, caldo. 
L'unico modo possibile per rendere questo grande classico della letteratura accessibile a dei bambini davvero piccoli è quello di provare a entrare in sintonia con loro, raffinando - setacciare pulire sfrondare limare - la lingua fino a farla diventare talmente leggera, scevra da ogni impurità, in altre parole, talmente esatta nei confronti del concetto che ne è la base, da trasformarla in un codice che capirebbe anche un marziano (e sto pensando al marziano per antonomasia, che si faceva capire con un codice elementare ma di tale efficacia che, a distanza di quarant'anni, il suo lessico è ancora scolpito nelle nostre memorie). 
Trovata la lingua adatta, si potrebbe però obiettare che sono i contenuti dell'Amleto di Shakespeare a non essere adatti a un pubblico poco più che infante: tutta questa carneficina molti adulti la potrebbero considerare inappropriata per piccolissime orecchie e teste. Eppure. 


E qui, purtroppo, a parte ribadire fino allo sfinimento il concetto che non esiste nulla che non possa essere raccontato a un bambino (compresa la morte, anche cruenta), a patto di farlo con le necessarie modalità, mi vedo costretta a raccontare due piccoli pezzettini della mia vita personale. 
Per etica professionale e pudore, cerco sempre di lasciare fuori le mie esperienze, perché hanno valore 1; ma qui potrebbero essere illuminanti. 
Primo pezzettino: mio padre a spasso con mia figlia margherita di tre anni a cui raccontava, schiacciando pinoli, di Sigfrido (da Wagner presumo), di Achille, di Orlando (furioso), passando allegramente dalla mitologia classica a quella norrena, attraverso l'epica cavalleresca: niente Cappuccetto Rosso, ma Nibelunghi. A distanza di ben più di quindici anni quella stessa margherita apprese che tutta quella gente che aveva abitato il suo nascente immaginario di allora, oggi esisteva 'davvero' sulle pagine di grandi libri, nei libretti di grandi opere...
Bel corto circuito, bravo nonno! 
Secondo pezzettino: per ragioni che non è importante spiegare qui, nel 2018 su fotocopie in bianco e nero traduco all'impronta e leggo a un preciso bambino di meno di 3 anni Titta Hamlet, per vedere l'effetto che fa. L'unica cosa che mi prendo l'arbitrio di aggiungere, nella lettura ad alta voce, è la parola zacchete a ogni colpo di spada. 
Risultato: il bambino è entusiasta e, alla terza lettura consecutiva che pretende, è già lì che brandeggia una spada immaginaria e all'unisono con i miei zacchette, l'affonda nell'aria circostante. 
E a ogni finale, ridiamo di gusto insieme dicendo: buona notte, buona notte! 
Per prevenire qualsiasi commento bacchettone o purista, io posso solo replicare: signori, ma questo è Shakespeare. 
A tutto questo si è poi aggiunto un finale ulteriore. 
Il libro dopo poco esce con Thule in spagnolo, lo compro e su pezzetti di carta incollo la traduzione (gli zacchete restano) fatta all'epoca, coloro a pastello (una sorta di rigatino da restauratori) i pezzetti di testo che sono nelle belle tavole della Höglund e lo regalo a quello stesso bambino ormai quattrenne. 
Ancora a due anni di distanza, il libro esce finalmente anche in italiano per merito di Iperborea (Odino li protegga). 
Ne ricevo una copia, la metto nello zaino e la porto a casa di quel bambino che ormai ha 5 anni compiuti e chiedo alla madre se per caso abbia ancora il libro homemade. Va alla libreria, lo prende e me lo mette in mano. Lo sfoglio e lo rileggo. 
Continuo a pensare che sia un piccolo capolavoro di Lindgren che ha il coraggio di raccontare Shakespeare con tanta esattezza e di Höglund che non ha paura della cupezza del grigio e del rosso sangue e non teme di scrivere il nome Amleto con le ossa. 
 E, per parte mia, sono molto orgogliosa di averlo messo nelle piccolissime mani di quel bambino che quando sarà più grande, di Amleto ricorderà la triste storia. 
Ne sarà valsa la pena: provare per credere.

Carla 

Noterella al margine: molto immodestamente non riesco tuttavia a staccarmi dalla mia traduzione del cuore. A parte il valore affettivo, Iperborea mi perdonerà se in nome di quella esattezza di cui si parlava, continuerò a leggere, invece di Buona nanna!, un più shakespeariano e onesto Buona notte! (Buona notte!)

lunedì 17 gennaio 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

TEREZÍN


Le testimonianze dirette, e i libri che ne sono tratti, hanno un valore inestimabile: intanto perché sono narrazioni prive di retorica, non ne hanno bisogno; poi per la molteplicità di sguardi che illuminano un periodo della Storia a noi vicina che continua a sorprenderci.
‘Il sole splende ancora. Un ragazzo a Terezín’ è appunto la testimonianza di un sopravvissuto, Michael Gruenbaum, raccolta da Todd Hasak-Lowy, tradotta da Matteo Corradini per i tipi di Lapis.
Nella postfazione dell’autore, che ha raccolto la testimonianza di Misha, viene spiegata chiaramente la metodologia seguita: non tanto storicizzare le vicende vissute dal protagonista nel tristemente noto campo di Terezín, quanto riportare con la massima fedeltà possibile il punto di vista di un bambino di dodici anni, calato in una situazione incomprensibile, in cui fino alla fine la realtà dell’Olocausto non è nemmeno immaginata.
La famiglia Gruenbaum vive a Praga; il racconto di Misha inizia con l’occupazione nazista nel 1939, registrando via via le restrizioni, gli oltraggi, i divieti che fanno di ogni ebreo un perseguitato. Il padre è un avvocato e nel 1941 viene arrestato e restituito alla famiglia, qualche giorno dopo, dentro una bara, con una motivazione implausibile. La vita degli ebrei, ormai marchiati con una stella gialla cucita sui vestiti, peggiora rapidamente. Nel novembre del ‘42 tutta la famiglia è deportata nel campo di Terezín, la famiglia è separata: la mamma e la sorella Marietta da una parte, Misha in uno stanzone con moltissimi altri ragazzini, guidati da un giovane liceale, Franta.
La vita, durissima, è scandita dal lavoro per il campo, qualche attività sportiva, delle rappresentazioni teatrali clandestine. Franta è un capo che ha ben presente quale sia il suo compito: dare ai ragazzi un forte spirito di corpo, la loro camerata si chiama Nesharim, le Aquile, renderli solidali fra loro, unica possibile resistenza di fronte all’incrudelirsi del trattamento loro riservato. In realtà quel campo è solo un passaggio verso i più letali campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau.
Cominciano presto le partenze, che all’inizio non sono percepite per quello che sono realmente; la famiglia di Misha si salva grazie all’intuito della mamma, che usa tutte le sue conoscenze presso gli ebrei che dirigono il campo, per evitare di salire su quei treni. Alla fine, quando verso la fine del ‘44 la soluzione finale accelera il suo meccanismo di morte, la famiglia Gruenbaum riesce a salvarsi grazie agli orsacchiotti di pezza che la mamma cuce con grande perizia e che servono agli ufficiali nazisti per mandare doni alle proprie famiglie. Grottesco e feroce nello stesso tempo.
C’è poi l’arrivo di un treno da Auschwitz, carico di fantasmi, di disperati esseri umani che hanno ben poco di umano, che precede di poco l’arrivo dei carri armati russi. E poi c’è il ritorno alla vita.
Con il ricordo dei tanti, tantissimi, che non sono tornati.
Un racconto così resta impresso non solo per le descrizioni dolorose delle privazioni, le violenze subite da tanti innocenti, soprattutto per lo sguardo limpido di un bambino, del tutto ignaro dell’immensità del Male che lo ha ghermito e che solo per caso lo lascia andare.
Matteo Corradini, che ha curato la traduzione, si è occupato da tempo del campo di Terezín, e dai suoi studi è tratto il romanzo ‘La Repubblica delle Farfalle’.
Un libro così, intenso e commovente proprio per l’ingenuità del protagonista, dovrebbe essere letto come un tassello importante di quella indispensabile ricostruzione di una memoria collettiva consegnata ai più giovani.
Consigliato caldamente a ragazze e ragazzi a partire dai dodici anni.

Eleonora


“Il sole splende ancora. Un ragazzo a Terezín”, M: Gruenbaum e T. Hasak-Lowy, Lapis edizioni 2022



venerdì 14 gennaio 2022

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA VOCE DELLA VERITA'

Ellen e il leone, Crockett Johnson (trad. Sara Saorin) 
Camelozampa 2022 



NARRATIVA ILLUSTRATA PER PICCOLI (dai 5 anni)
 
"Ellen si sedette sul poggiapiedi e osservò pensierosa il leone, steso a terra a pancia in giù. 'Ogni volta che noi due facciamo conversazione, parlo sempre io, vero?' gli disse. Il leone rimase in silenzio. 'Non ti lascio mai dire una parola' disse Ellen. Il leone non disse una parola. 'Il mio problema è che parlo troppo' continuò Ellen. 'Immagino di non essere stata troppo educata. Ti chiedo scusa.' 'Oh, non ti preoccupare, Ellen' disse il leone. Ellen balzò in piedi e cominciò a fare i salti di gioia. 'Hai parlato!'" 

Grande è lo stupore di questa bambina quando sente il suo leone di pezza parlare. Lo stupore, prosegue lei rispondendo al leone che si schermisce con modestia e la mette in guardia su dove saltare, sta soprattutto nel constatare che il leone ha una voce calda e profonda. 
Sebbene il leone pensi che la sua voce sia molto simile a quella di Ellen, lei sostiene il contrario. Ne nasce un piccolo battibecco ed Ellen ha di nuovo paura di aver urtato i sentimenti del leone, che la rassicura anche questa volta, dicendole che lui è di pezza e di sentimenti non ne ha. 
Per alleggerire l'atmosfera, Ellen propone di cantare qualcosa assieme, Nella vecchia fattoria, ma non funziona: o si sente la voce di Ellen o quella del leone nel ritornello... 

Comincia così il primo dei dodici racconti che nel 1959 fu pubblicato da Harper con il titolo Ellen's Lion, con una magnifica quanto insolita copertina nera. 
La storia editoriale di questo libro che ora Camelozampa mette con grande merito a disposizione anche dei bambini italiani è presto detta. Johnson in principio aveva scritto solo quattro di questi racconti, li aveva sottoposti a Ursula Nordstrom, l'editor di Harper che aveva pubblicato le sue storie di Harold, e il suo immediato entusiasmo lo convince a scriverne altri: dodici in tutto. 
C'è da presumere che il modo di raccontare l'infanzia di Johnson ancora una volta collimi con quello della Nordstrom, sebbene su Spiaggia magica - di poco posteriore - i due la pensino in modo molto diverso e non riescano a trovare un accordo.
In questo primo racconto si concentra gran parte della poetica di Johnson, di cui ampiamente si è detto a proposito di Harold e del Seme di carota
Ma se in Harold tutto passa per il disegno che è decisamente preponderante rispetto all'impatto della parola, qui accade l'esatto contrario. Sono le parole qui a fare la differenza. 
E ancora una volta il silenzio che sta loro intorno fa il resto. 
Se in Harold il ruolo di demiurgo di quel bambino in pigiamino è subito evidente, qui la questione è più sottile e rimbalza di continuo fra un fuori e un dentro la storia che lascia senza fiato per 'intelligenza emotiva' dell'autore. 
Cerco di spiegare, attraverso questo primo racconto che non a caso apre il libro, e che è esemplare per individuare i singoli passaggi tra quello che accade nella storia e quello che accade nella testa di chi legge. E se chi legge è un adulto, in questa osmosi si può anche arrivare alle lacrime di commozione. Tutto comincia con Ellen che si rivolge al proprio leone di pezza. 


Lui lo abbiamo già visto con lei in copertina e da solo nel frontespizio. Attraverso quello che lei gli dice non si dice espressamente che lui è un pupazzo, ma si capisce che lei sa che lui non parla e si capisce anche che lei imputa questo suo silenzio a un ipotetico malessere del leone provocato dal suo parlare, parlare, parlare. 
Il lettore bambino si allinea con lei: il leone non parla perché non ne ha voglia. 
Il lettore adulto pensa che il leone non parli perché è di pezza. 
Quando il leone in modo del tutto inaspettato parla, scompiglia le supposizioni di tutti, quelle di Ellen con tutti i bambini e quelle dell'adulto. Non siamo neanche alla fine della prima pagina e già c'è stata la prima capriola. 
Si gira pagina e arriva la prima immagine di quello che sta avvenendo, ma nulla toglie o cambia nella nostra percezione di come stiano andando le cose. Il dialogo prosegue e il lettore capisce qualcosa di più di Ellen e del suo leone di pezza. 
Il piccolo lettore è sempre allineato al pensiero di Ellen e segue i suoi ragionamenti sul tono di voce del leone. Mentre l'adulto inevitabilmente si gode le risposte sottili del leone, il quale si assume l'onere di essere 'la voce della verità', ossia dalle sue parole si può cominciare a sospettare un altro fatto sottaciuto: l'unica voce che si sente in quella stanza è quella di Ellen che sta parlando per sé e anche per il leone, in un dialogo tutto inventato. 
Se Harold era un demiurgo con la voce, ma soprattutto con la matita in mano, Ellen è una demiurga che crea con il suono, con la sola voce. Seconda capriola. 
Terza giravolta la si fa quando il leone dice a Ellen che 'il re è nudo': lui è di pezza e non ha sentimenti. A questo punto un adulto è già lì commosso (in uno con il leone che tira su con il naso) a pensare la delusione che tra un momento proverà Ellen, ma Ellen -e con lei tutti i bambini che se lo sentono dire - va diritta per la sua strada di creatrice di mondi e ignora la verità, perché poco interessante e produttiva per il suo progetto. 
Ellen decide di cantare Nella vecchia fattoria con il leone. Il testo si dilunga per ben undici righe prima che il leone instilli un secondo dubbio alla domanda perentoria di Ellen, non possiamo cantare tutti e due assieme? E lo fa rispondendo con un'altra domanda, proprio come avrebbe potuto esprimersi una sibilla o un bravo psicanalista: "Non credo che potremmo. Tu ci riesci?" 
Nuova accelerazione in avanti della geniale Ellen, che suggerisce di ricominciare a parlare, perché è più facile. E i bambini, tutti dietro a lei. Gli adulti si commuovono nuovamente. 
Sul vero e proprio finale si può tacere, sapendo però che si sta assistendo a un'altra autentica rappresentazione di quello che è l'infanzia: si è davanti a un repentino quanto silenzioso abbandono del gioco nella testa di un bambino, pronto a fare posto, come se nulla fosse accaduto, a qualcosa d'altro. 


E questo è solo il primo dei dodici, alcuni dei quali altrettanto magnifici (Due paia di occhi, su tutti). 
Ma è quello che più di tutti rende onore all'infanzia. 
Tirando due somme, in queste prime tre pagine e mezzo di testo (+ una figura) conosciamo una bambina e il suo leone di pezza. 
Lei incarna la verità ma si nutre di immaginazione, lui 'incarna' l'immaginazione, ma racconta appena può la verità. 
 Questa è la storia, ma dietro c'è qualcuno che ha concepito tutto questo: semplicemente un genio. 
Libro necessario. 

 Carla

mercoledì 12 gennaio 2022

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

NEL NOME, UN DESTINO

‘Dopo la notte. In fuga dall’Olocausto’ è un libro illustrato dall’autore, Uri Shulevitz, e pubblicato da Einaudi Ragazzi. Racconta con semplicità esemplare le vicissitudini di una famiglia ebrea polacca, durante la Seconda Guerra Mondiale e poi nel dopo guerra.
Si tratta di un racconto del tutto privo di retorica, di enfasi, di sottolineature emotive anche dove descrive situazioni estreme, disperate.
Uri ha quattro anni quando inizia il calvario della sua famiglia, come di tante altre, nel 1939, anno in cui la Germania invade la Polonia. La prima reazione è la fuga nella Russia sovietica ed è per puro caso che al padre di Uri viene impedito di tornare indietro; così come per puro caso avviene che l’intera famiglia non riesca ad ottenere documenti sovietici. Così vengono internati in un durissimo campo di detenzione nel nord della Russia, per poi arrivare a Turkistan, in Kazakistan. Ovunque lavori durissimi e fame, una fame senza rimedio, malattie.
La permanenza in Unione Sovietica è contrassegnata da questa costante precarietà, in cui si alternano momenti migliori, in cui magari il padre di Uri può sfruttare le sue doti di decoratore e scenografo, a momenti di assoluta disperazione. Tutta la famiglia è consapevole che la permanenza nell’Unione Sovietica ha consentito la loro sopravvivenza, ma non vogliono certo rimanere lì alla fine della guerra. Comincia così un lunghissimo viaggio di ritorno, che li porta a Varsavia, la loro città, in cui però l’accoglienza è apertamente ostile. E dunque è necessario ripartire, fino ad arrivare a Parigi, dove finalmente possono abbracciare un fratello del padre, anche lui scampato all’Olocausto. Qui le cose vanno meglio, ma è qui che Uri rischia davvero la vita, ammalandosi di difterite e a salvarlo è quella penicillina da poco entrata nella medicina, o forse, come ironicamente chiosa l’autore, sono state le preghiere di un rabbino a salvargli la vita.
Uri a Parigi cresce, studia, coltiva il suo naturale talento artistico; emigra con i genitori in Israele e poi va a studiare a New York, dove si fermerà, diventando uno dei più apprezzati autori di libri illustrati per ragazzi, vincitore di numerosi riconoscimenti, fra cui la Caldecott Medal.


Questa è la trama, per pochi accenni, che possono far pensare ad una di quelle uscite editoriali di rito, che ricordano con maggiore o minore efficacia l’Olocausto. Questo libro, però, non ha niente di rituale. Racconta le vicende di una famiglia ebrea polacca durante la guerra da un punto di vista particolare: non i campi di concentramento, ma le vicende drammatiche di chi è riuscito a sfuggire alle strette maglie della Soluzione Finale. E quindi conosciamo la vita da rifugiati nella Russia sovietica, tutt’altro che accogliente ed essa stessa travolta dalla povertà e dalla fame. Conosciamo delle condizioni di vita che ci sembrano inimmaginabili e che pure hanno consentito di sopravvivere ai pochi sfuggiti ai nazisti. E l’antisemitismo che sembra pervadere ogni angolo dell’Europa dell’est, compresa quella Polonia che ha dato un così grande tributo di sangue alla macchina infernale dell’Olocausto. Qualcosa che dovrebbe farci riflettere attentamente quando parliamo di Europa e dei suoi valori.


In tutto questo, lo sguardo di Uri, con la sua ingenuità, la sua semplicità, è uno sguardo limpido, lucido, consapevole di aver fiancheggiato la tragedia, senza esserne totalmente travolto.
Lui, bambino pieno di talento, che disegnava sui muri con pezzi di carbone, che annotava caratteri e personaggi incontrati sulla sua strada, salvato dalla sua arte e dalle storie, prima solo ascoltate, poi lette nei libri.
Perché non si perda la memoria delle tragedie patite da milioni di persone durante la Seconda Guerra Mondiale, questo è un libro necessario, uno di quelli che metterei in ogni casa, in ogni scuola, per la sua semplicità e il suo rigore. Adatto a lettrici e lettori dai dodici ai novantanove anni.

Eleonora

“Dopo la notte. In fuga dall’Olocausto”, U. Shulevitz, Einaudi Ragazzi 2021