mercoledì 31 luglio 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (lbri per incantare)


IL NIDO
Il nostro albero, Mal Peet (ill. Emma Shoard) trad. Sante Bandirali
Uovonero 2019


NARRATIVA PER MEDI (dai 10 anni)

"'Allora, Benjamin' disse mio padre. 'Questo sì che è quello che si può chiamare albero. Un vero albero.'
Rivedo me stesso mentre gli prendo la mano e alzo lo sguardo. Vorrei riuscire a ricordare com'ero. Cosa indossavo e tutto quanto. Ma non ci riesco. L'albero era una grande torre grigia che puntava contro il cielo la chioma di foglie verde chiaro. Attraversandola, il sole faceva un caleidoscopio di luce."

Sono passati più di vent'anni. Vent'anni di lontananza da quella casa d'infanzia, venduta in fretta e furia. E ora, quasi per caso, Benjamin ci passa davanti con il suo furgone. Si ferma e parcheggia un po' più in là. E' strano vedere la sua vecchia casa abitata da altri, ma è soprattutto 'il Nido' andato in malora a spezzargli il cuore e a riaccendere i ricordi di quel tormentato periodo. Il Nido, così l'aveva battezzata suo padre, quella casa sull'albero e l'aveva anche costruita per farne un rifugio, un luogo sicuro, da condividere con il suo bambino.
Un uomo sensibile che chiedeva scusa all'albero per ogni chiodo piantato nei suoi rami, un uomo dolce che aspettava l'alba con il suo bambino arrampicato lassù per sentire il canto dei primi uccelli, un uomo ingegnoso che sapeva costruire un piccolo arredo perché le ore lassù trascorressero nel migliore dei modi.
Un uomo particolare. Di certo non adatto alle routine familiari cui non riesce a star dietro. Sempre più solitario è lui che si arrampicherà su quell'albero, in quel nido e che vi troverà rifugio da un malessere e da un amore finito. A terra c'è una donna che non ha più molto da dirgli e dalla finestra si limita a guardare il vecchio faggio e a stramaledirlo davanti a quel bambino, a Benjamin, che a dieci anni e non capisce. 
A tutto ci si adatta e così i due genitori trovano una routine che li tenga lontani l'uno dall'altra: unico punto di contatto quel ragazzino. Fino al momento in cui compare sul prato quel maledetto cartello con su scritto AFFITTASI.

Un racconto scabro e per questo interessante. Nessuna valvola consolatoria si apre per andare verso un lieto fine. Al contrario, la bellezza di questa storia risiede proprio nei grandi silenzi sul tempo trascorso, nell'incertezza dei sentimenti, nell'incertezza del finale. Benjamin ora è grande ed evidentemente quell'albero e quella casa sull'albero -ultimo nido del padre- sono ancora una ferita aperta che lascia spazio al racconto del passato, ovvero a un pezzo della sua infanzia che drammaticamente arriva alle immagini, ha quasi il tono della sceneggiatura, del disagio e della separazione dei genitori. 



Un altro iato e il racconto torna al presente e alla conferma della fragilità emotiva di quell'uomo di fronte a un dolore grande e ancora in cerca di pace. Comincia così una sequenza di verbi al condizionale - avrei voluto dire, sarei venuto, mi sarei portato... tutti riferiti a una ipotetica ricostruzione di quel nido ormai in pezzi - che si concludono con un gesto che solo apparentemente sembra routine, ma che qui può diventare un simbolo, raccogliere ' le cose da buttare' che lo circondano. Sedersi e infine sentirsi bene per fare conversione a U.
Detestabili, perché pericolosi, sono i libri a tema.
Sebbene qui il tema, o forse dovrei dire i temi pensando al male di essere di Sean, sia forte e di sicuro impatto sulle animule vagule e blandule di ragazzi e ragazze che la separazione tra genitori l'hanno vissuta in prima persona o ne sono stati testimoni, tuttavia Il nostro albero ha una sua bellezza che va al di là di tutto questo, saltando a piedi pari la retorica, lo stereotipo, la consolazione, la soluzione facile.
Al contrario, mette solide radici nella questione, pur mantenendo nei suoi confronti la giusta distanza che permetta a ogni lettore o lettrice di trovarsi il proprio margine di confronto. In qualche modo si è già detto del percorso che Mal Peet sceglie di intraprendere e che lo libera dal pantano del libro a tema. La ruvidezza e la giusta distanza e solide radici, tre caratteri che condividono con quel vecchio faggio. 
Il racconto lucido di una sequenza di fatti, la volontà di affidare quasi esclusivamente ai pochi dialoghi e agli scarni gesti la descrizione degli stati d'animo dei protagonisti, rendono Il nostro albero un piccolo meccanismo di grande efficacia. Emma Shoard ne centra il tono, sfumando ed evitando contorni precisi, facendo una scelta cromatica sapiente che, al pari delle scarne descrizioni del testo, ha il merito di far intuire più che di affermare.


Mal Peet si concede solo il tempo necessario per girare intorno alla storia con il suo taccuino, prendendo appunti su quello che immagina, tenendosi a distanza, abbassando lo sguardo con pudore, quando è necessario. Lontano da ogni voyerismo e da ogni morbosità. E poi, in silenzio, anche lui come Benjamin si allontana.
Emma Shoard fa esattamente lo stesso con il suo pennello bagnato in tanta acqua e pochi colori. 



Impossibile non notare un'affinità, che trova conferma nelle poche parole entusiastiche sul libro, con David Almond.
Per entrambi si può parlare di una scrittura 'coinvolgente inquietante e splendida'.

Carla

Noterella al margine. Non si può non gioire del fatto che una storia così concepita sia in grado di attraversare intere generazioni, parlando a tutti quelli che la vorranno leggere o ascoltare, giovani o adulti che siano. Senza remore e con coraggio si va avanti nel testo illustrato, in un dialogo bello tra parola e figura.


lunedì 29 luglio 2019

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


UN SOGNO ATTUALE


‘Un sogno sull’Oceano’, di Luigi Ballerini, pubblicato dalle Edizioni San Paolo, è un romanzo dedicato alla vicenda del Titanic, il transatlantico naufragato, per la collisione con un iceberg, fra il 14 e il 15 aprile del 1912. E’ una vicenda ben nota, che ha ispirato registi e scrittori. Eppure qualcosa da raccontare c’era e Ballerini ha scelto di raccontare, in una trama a metà fra ricostruzione storica e narrazione, il punto di vista di chi lavorava nelle cucine.
In quella immensa nave da crociera, dove si affiancavano il lusso e la povertà, lavoravano schiere di addetti; fra questi i cuochi, i camerieri, il personale di sala e il direttore, Monsieur Gatti, che sul Titanic dirigeva il Ritz, ristorante destinato all’alta società, in funzione da mattina a sera, con piatti raffinati e ingredienti di prima scelta. A lavorarvi, a diversi livelli, molti italiani, fra i tanti che andavano cercando fortuna all’estero e che vedevano nell’ingaggio sul Titanic un fortunato trampolino di lancio verso future professioni.
I personaggi del romanzo sono reali e l’autore ne rispetta le biografie, romanzando quel che basta i caratteri, le aspirazioni, i legami sentimentali.
Tutta la vicenda è raccontata in soggettiva da due personaggi, che si alternano nel racconto: Monsieur Gatti, il grande manager della ristorazione, capace di mettere in piedi un ristorante perfetto nella forma e nella sostanza; e il giovane Italo, partito in cerca di fortuna e presto innamorato della bambinaia di una famiglia facoltosa. Tutto scorre nel migliore dei modi, l’immagine perfetta di un transatlantico a misura dell’alta società viene confermata ogni giorno. Ma, e credo questo sia vero, a bordo sono spariti i binocoli e i dispacci che segnalano la presenza di iceberg sono sommersi dalle comunicazioni private.
Sta di fatto che arriva la notte della collisione e i destini di tutti si compiono nel giro di poche ore. Gatti sceglierà di rimanere a fianco della sua brigata di cucina, destinata a non trovare mai posto sulle scialuppe di salvataggio.

Alcune considerazioni su questo romanzo, che si presenta come una cronaca distaccata di un disastro di un secolo fa. Intanto la rigorosa, dettagliata ricostruzione d’ambiente, che disegna l’immagine vivissima di un mondo profondamente classista, in cui viaggiare in prima classe è appartenere a un altro mondo, che entra in contatto con gli ‘altri’ attraverso la schiera di ancelle, servi, bambinaie, camerieri. E’ un mondo feroce, che non offre molte alternative a chi cerca di cambiare la propria condizione. Emigrare, appunto.
I ritratti di questo mondo di persone non miserabili, ma dignitosamente povere, sono efficaci: raccontano di sogni, speranze, progetti affidati al futuro e al duro lavoro. Li abbiamo lì davanti a noi, questi ragazzi in cerca di fortuna, armati di qualche mestiere e disposti a tutto pur di migliorare la propria condizione e quella della propria famiglia.
In questa lucida fotografia di un mondo che vorremmo tramontato, emerge la pacata dignità di un’ultima cena, una cena da signori, consumata dalla brigata di cucina insieme al suo capo.
Sarebbe molto facile fare parallelismi con il presente, ma penso che le lettrici e i lettori, dagli undici anni poi, sapranno sicuramente trarre qualche illuminante richiamo alle persone oggi in cammino, per cercare fortuna, e guarderanno con diversa consapevolezza alle vite, ai desideri, alle speranze di chi attraversa il mare.
Eleonora


“Un sogno sull’oceano”, L. Ballerini, Edizioni San Paolo 2019


venerdì 26 luglio 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


MENO MALE CHE IL LIBRO ERA BELLO...

Meno male che il tempo era bello, Florence Thinard
(ill. Veronica Truttero) (trad. Sara Saorin)
Camelozampa 2018


NARRATIVA PER GRANDI (dai 10 anni)

"Il direttore fu breve e diretto. Niente più telefono. Niente più Internet. Nessuna luce in vista, nemmeno dal tetto del palazzo dove era salito insieme a Saïd. Avevano anche provato a sondare l'acqua con uno scopettone stando sulla scalinata esterna: non erano riusciti a toccare il fondo."

E' ufficiale: senza capirne il modo, la biblioteca Jacques Prevert sta navigando avvolta in un nero irreale. Si è sentito un suono secco ed elettrico e poi, poco dopo, un lento sciabordio di acqua alla base della biblioteca che, lentamente ma inesorabilmente, sta galleggiando e muovendosi verso chissaddove.
A bordo si contano 4 adulti: la bibliotecaria, il direttore, un professore di tecnica e la donna delle pulizie. E con loro la 1F, ragazzini e ragazzine di prima media che si trovavano in biblioteca con il loro insegnante. Oltre a loro c'è Saïd, di qualche anno più grande, che come ogni giorno stava passando il suo tempo alla Jacques Prevert, non leggendo o studiando, ma gironzolando e bighellonando, visto che non ha di meglio dove stare.
Questa è la loro avventurosissima storia: quella di un gruppo di persone che, prigioniere in un cubo di cemento che si comporta come un veliero, navigano per giorni e giorni sulla superficie del mare, in bonaccia e tempesta.
Ma è anche il racconto di come saper usare la testa, saper fare squadra, saper riconoscere la buona letteratura, e saper essere ottimisti nella cattiva sorte si rivelino competenze utili per tornare a casa.

Il topos letterario che Florence Thinard ha scelto è già di per sé garanzia di successo.
Associato a una piacevolissima scrittura che sa dosare tensione e climax e a una evidente dimestichezza nel campo della divulgazione per ragazzi (da lì arriva il know-how di questi marinai improvvisati: a lungo Thinard ha scritto di questi argomenti) Meno male che il tempo era bello è una lettura a dir poco avvincente.
Mettere un gruppo di persone in balia del mare, o su un'isola deserta (i riferimenti letterari non sono casuali), comunque lontano da tutti e da tutto e senza alcuna possibilità di contatto con la vita di un tempo, è già di per sé una porta aperta sull'avventura.
Mettere a loro disposizione una serie di oggetti perché ne facciano il miglior uso, solleticando così non solo la loro inventiva, ma anche quella del lettore è un altro elemento di sicura riuscita. O, ancora meglio, insegnare loro come costruirli e come servirsene. Cosa ci può essere di più divertente e interessante? Se svegli e un po' fantasiosi e comunicativi, non sono forse gli insegnanti di tecnica, come l'appassionato Daubigny, quelli che i ragazzi e le ragazze adorano nei loro tre anni di medie perché insegnano loro ad applicare un pensiero a una cosa che poi concretamente hanno nelle mani e possono utilizzare?
Ma a parte tutto ciò, il libro è molto di più.
Come nel meraviglioso romanzo di Saramago, La zattera di pietra, cui questa storia della biblioteca natante sembra in qualche modo riconnettersi, magari inconsapevolmente, anche in Meno male che il tempo era bello, a margine dell'avventura in sé, si delinea un'interessante lettura metaforica.
Non è casuale che si tratti proprio di una biblioteca con il suo contenuto di saperi. E metaforica è anche la condizione di cattività in cui individui, piccoli e grandi, tra loro molto differenti possono mettersi a confronto. Chi lo vorrà leggere trarrà le proprie personali conclusioni.
Molto meno metaforica pare invece la scelta dei personaggi. Arriva da una esperienza personale che la Thinard ha avuto con una classe di ragazzini e ragazzine di una scuola media di La Reynerie, periferia 'dimenticata' di Tolosa, dove, come insegna la storia di Saïd, la biblioteca rappresenta forse l'unico polo di attrazione accogliente.
Ma il fattore che fa di questo libro un bel libro, risiede nella sua architettura. Thinard è riuscita a creare un guscio tanto sottile quanto surreale, ma di grande tenuta, dentro cui cresce, come in un uovo vero, una creatura piena di realtà, dove è visibile l'autenticità delle relazioni interpersonali, delle dinamiche sociali, dei caratteri con forze e fragilità, tutte molto umane e riconoscibili.

Carla



mercoledì 24 luglio 2019

UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)


LE DIVERSE FORME DELL’AVVENTURA

Avrei dovuto dire, i diversi modi di raccontare l’avventura, perché il filo del discorso che seguirà è proprio mettere a confronto due approcci in realtà piuttosto diversi al riscoperto (evviva!) genere del racconto avventuroso.
Il progetto editoriale dei Libri Corsari risale a quasi un anno fa, a opera dell’editore Solferino, che si era affacciato nel mondo dell’editoria per ragazzi proprio con questa collana.


Qui vorrei mettere a confronto due storie, una firmata da Giuseppe Festa, ‘Hiro delle scimmie’, l’altra da Piedomenico Baccalario, che è anche curatore di collana, dal titolo ‘In viaggio con lo zar’.


Il primo è solidamente calato nel presente, non solo per l’ambientazione contemporanea, ma anche per l’aggancio a tematiche forti del nostro presente, come lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e la conservazione della fauna selvatica in Africa. Tutto questo in meno di 90 pagine? Naturalmente si, e tutto sommato senza nulla togliere ad una storia avvincente, che racconta di un giovane ricercatore che sostituisce il suo Maestro, morto in circostanze misteriose in Congo, mentre era intento a studiare una popolazione di scimpanzé. Hiro, il giovane protagonista, si trova solo a combattere contro i loschi traffici di una compagnia mineraria, alla ricerca dei preziosi materiali che fanno funzionare i nostri cellulari, cercando di salvare l’habitat naturale delle grandi scimmie. E’ evidente il riferimento al lavoro sul campo delle grandi scienziate Jane Goodall e Dian Fossey, e forse un personaggio femminile ci sarebbe stato bene, e alla lotta che hanno condotto in difesa dei primati da loro studiati.
Tematiche attuali e una rappresentazione delle contraddizioni della nostra civiltà che potrebbero interessare lettori e lettrici anche di età superiore a quella che si immagina più vicina a queste letture, ovvero oltre i nove dieci anni che rappresentano il lettore/lettrice tipo per questo tipo di collane di narrativa.
Pierdomenico Baccalario ci porta in un passato più recente, all’inizio del ‘900, per essere esatti all’inizio della costruzione della Transiberiana. Le sue atmosfere sembrano essere più direttamente ispirate alla tradizione letteraria: come non sentire qualche eco di ‘Michele Strogoff’? Il protagonista è il giovane allievo di una guida che conosce a menadito ogni angolo della Siberia e a cui viene dato l’ingrato compito di guidare l’erede al trono della famiglia Romanov in un pericoloso viaggio che lo riporti alla civiltà, mentre già si profilano all’orizzonte i bagliori delle rivolte contadine e poi della Rivoluzione d’Ottobre. Il racconto di questo viaggio è denso di atmosfere magiche, di sciamani, di spiriti guida, ma nello stesso tempo c’è un sottotesto importante, che guida il lettore e la lettrice a confrontarsi con l’Etica e la Storia, con il destino che conduce comunque verso un esito non voluto. Il lettore, dunque, si misura con suggestioni che vanno oltre il racconto dell’avventura di un ragazzo, alle soglie di cambiamenti epocali e costretto a svolgervi un ruolo. Il personaggio principale, Jakov, è preso dalla Storia, è colui che eseguì la sentenza di morte nei confronti della famiglia Romanov, immaginato qui giovanissimo in un ruolo opposto.
Dunque, nella diversità di approccio al tema dell’avventura, nella diversità di stili, vi è comunque un’idea di racconto che contiene innumerevoli spunti di riflessione, più espliciti in Festa, più nascosti in Baccalario. Si può raccontare di ragazzi, e ragazze, avventurosi e , nello stesso tempo dire qualcosa sul mondo, porre domande non necessariamente esplicite, non necessariamente indirizzate ad una risposta univoca. Ed è una gran cosa, avere della narrativa accessibile a lettori e lettrici riluttanti che non li costringa alle letture eticamente corrette che solitamente propone la scuola.
Un ultimo accenno alla ’confezione’ di questi libri: ho apprezzato i commenti finali, che sono affidati ad altri autori del team di Book on a tree, e la piccola raffinatezza, e non è l’unica, di porre in copertina, nell’angolo in basso a sinistra, un oggetto significativo del racconto. Ai lettori e alle lettrici il compito di individuarlo.

Eleonora

“Hiro delle scimmie”, G. Festa, Solferino 2019
“In viaggio con lo zar”, P. Baccalario, Solferino 2018



lunedì 22 luglio 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


DELL'AMORE
 
Katitzi e il piccolo Swing, Katarina Taikon (ill. Johanna Hellgren)
(trad. Samanta K. Milton Knowles)
Iperborea 2019


NARATIVA PER MEDI (dagli 8 anni)

"Katitzi indossava un cappotto di parecchie taglie in più e in testa aveva un cappello con i paraorecchie fissati sotto il mento con una spilla da balia. Ai piedi portava gli stivali di suo fratello Paul. Invece l'abbigliamento di Lena, ereditato da Rosa, era proprio della sua taglia e le stava benissimo.
'Lena, e adesso dove andiamo?' chiese Katitzi quando furono alla stazione. Faceva freddo. C'erano quasi trenta gradi sotto zero e le bambine tremavano."

Per la prima volta in una città sconosciuta, per la prima volta da sole con il compito di vendere ciotole di rame stagnato, per guadagnare qualche corona da mettere sul gruzzolo familiare. Nella famiglia Taikon tutti (tranne una) devono contribuire al sostentamento della comunità, così il papà Taikon ha spedito a Umeå le due ragazzine perché si impegnino a vendere quante più ciotole possibile: c'è la guerra e sono tempi duri per tutti, ma soprattutto per ebrei e rom. Lena e sua sorella piccola Katitzi se la cavano egregiamente. Anche troppo, a giudicare dal fatto che Rosa parte sulle loro tracce e le trova al cinema a guardare per la centesima volta un film romantico.
Riportatele a casa, la vita nell'accampamento prosegue con i soliti spostamenti, le solite difficoltà, le solite serate di divertimento, le solite fatiche e angherie delle signora. Ma per Katitzi sono in agguato una serie di sorprese: gli smarrimenti (temporanei) del suo cagnetto Swing e del fratellino Lennart, un incontro ravvicinato con la corrente elettrica e un bel taglio sul sopracciglio e il distacco dalla sorella Rosa, che va in sposa a Milo.
Tuttavia, tutto questo crea le giuste occasioni per ragionare sull'amore, che si declina per Katitzi nella scoperta 1) dell'affetto sincero del suo papà e delle sue sorelle e fratelli, 2) di una pellicola melensa, 3) di un ragazzino fuggito dalla città, 3) di uno sposalizio rom e 4) di una nonna che non sapeva di avere.
Non poco.

Da un parzialissimo quanto autentico e gagliardo osservatorio, quello composto da un nutrito numero di bambini e bambine tra gli otto e i dieci anni di molte scuole elementari di Roma, il libro Katitzi ha avuto un successo strepitoso. Eletto in forma quasi plebiscitaria come miglior libro nell'ambito del Premio Scelte di classe 2019, la storia di Katitizi ha conquistato il suo pubblico per una serie di ragioni. Una storia che coinvolge il suo pubblico emotivamente, visto che nel primo libro si racconta del grande cambiamento che questa bambina è chiamata a fare: da un orfanotrofio a un campo rom, con la sua famiglia di origine. Una scrittura lineare, priva di qualsiasi asperità, che scorre come acqua sotto gli occhi di lettori tutto sommato alle prime armi. Una finestra aperta su una questione 'spinosa' come quella dei rom e su quello che è il punto di vista dell'altro.
Nel primo libro, proprio riguardo alla questione rom vengono a galla le molte difficoltà che la Svezia fece con l'intento di rendere il più difficile possibile la permanenza e quindi la convivenza pacifica tra rom e gagi. Ragione per cui la stessa Katarina Taikon ha sentito l'urgenza di raccontarle ai bambini e alle bambine di tutto l'Occidente per sensibilizzarne le coscienze e dire loro la storia come è andata veramente.
Tutto questo non è passato inosservato e i bambini e le bambine ci hanno ragionato sopra e, c'è da augurarsi, abbiano tirato le loro conclusioni, smettendo così di credere che gli zingari rubino i bambini...
Oggi più che ieri, in tempi di oscurantismo e sonno indotto di coscienze e cervelli, la lettura di questo preciso libro di Katitizi può creare un ulteriore squarcio su un punto di non ritorno: l'umanità non dovrebbe mai dimenticare la propria missione di essere, prima di tutto, umanità.
Illuminante in tale prospettiva è il racconto iniziale del libro, ovvero della missione di quelle due bambine a Umeå per vendere ciotole di rame stagnato.
Quale variegata umanità loro incontrano? E quale è la gamma delle possibili azioni che queste persone possono mettere in atto? E quale il loro livello di umanità?
Unica perplessità eventuale risiede nella un poco sopravvalutata importanza di Swing all'interno del romanzo, a parte quella di occupare il cuore e i pensieri di una bambina. Gancio editoriale elettivo per andare a pesca di piccoli lettori, tutto sommato è poco più che una comparsa, anche se gli va riconosciuto il merito di aver ringhiato al momento giusto, circostanza che lo riconferma come prediletto nel cuore di Katitzi.
Si consiglia a tutti di mettersi in trepidante attesa dell'incontro con la vecchia mamì.
Ancora una saga, a conferma di quanto si diceva pochi giorni fa.

Carla

 






venerdì 19 luglio 2019

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


A CACCIA DI PAURE


E’ uno schema frequente, nei film o nelle fiction a sfondo horror, quello per cui in un gioco si insinua la paura e, in qualche caso, la morte.
Con questo schema, e con un riuscito colpo di scena finale, gioca l’autrice olandese Maren Stoffels, in un romanzo breve pubblicato da Pelledoca, l’editore che con maggior coraggio esplora le frontiere delle storie di paura.
‘Il gioco della paura’ fa riferimento alle cosiddette Fright Night, notti in cui un drappello di attori camuffati in modo orribile spaventano in tutti i modi possibili i giocatori, che pagano per farsi spaventare, all’interno di messe in scena particolari.
Nel nostro caso, due gruppi di giocatori si ritrovano su un percorso che qualcuno ha alterato di proposito, portandoli esattamente dove un clown dai denti acuminati e uno zombie li attendono.
E’ una semplice storia horror, che tiene incollato il lettore o la lettrice? No, come si capisce subito ci sono molti umanissimi misteri, molte cose non dette nelle vite dei diversi personaggi, tutti ragazzi e ragazze giovanissimi.
La narrazione procede proponendo in soggettiva il punto di vista di ciascun personaggio, come se una camera da presa girasse loro intorno: c’è Dylan, un ragazzo con un passato traumatico che vive a casa dell’amico Quin; Sofia, di cui Dylan è innamorato, ma cui ha mentito su aspetti molto importanti della sua vita. A loro si aggiungono Martijn e la sua amica Neele. E’ proprio per seguire lei che la coppia ‘omicida’, cioè i due figuranti che dovevano spaventare i giocatori, cambia le regole del gioco e rapisce il gruppo, chiudendolo in un bunker.
Non si può dire di più della trama, senza svelarne il colpo di scena finale. Quello che è interessante è la capacità dell’autrice nel cambiare velocemente registro man mano che si sviluppa la trama: da classica situazione horror, in cui si possono immaginare pazzi sanguinari in azione, si vira verso il dramma psicologico, legato alle vicende del personaggio principale Dylan. La parte finale è la rivelazione di verità nascoste, che fanno pensare che a far paura è spesso l’apparente normalità di situazioni familiari malate.
In particolare, l’autrice mette in scena un dramma in cui è la famiglia, con la sua facciata per bene a nascondere malattie e nefandezze, il luogo principe del dramma, con personaggi che affondano nelle loro nevrosi. Con padri per lo più assenti, sono le madri, in questo caso, a svolgere il ruolo di protagoniste, in negativo.
‘Il gioco della paura’ è un romanzo interessante, scritto con abilità e, direi, mestiere, con tutti gli ingredienti dell’horror, ma spiazzerà senz’altro quei lettori e quelle lettrici a caccia di emozioni forti. In realtà troveranno materia di riflessione sulla natura dei rapporti familiari, e non è poco.
Come si può immaginare, è una lettura per ragazze e ragazzi maturi, a partire dai tredici anni.

Eleonora

“Il gioco della paura”, M. Stoffels, trad.A. Patrucco Becchi, Pelledoca 2019


mercoledì 17 luglio 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


MINUSCOLI

La Banda del Silenzio, Alex Cosseau, Charles Dutetre
(trad. Federico Appel)
Sinnos 2019


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni)

"Per noi non c'è mai abbastanza silenzio.
Nella grande casa dove stiamo, ogni rumore è un nemico da sconfiggere.
Noi cerchiamo i rumori. Li isoliamo. Li facciamo smettere.
Il rumore peggiore di tutti è quello dell'aspirapolvere.
L'aspirapolvere può farci diventare matti."

Questa è la ragione per cui i membri della Banda del Silenzio raccolgono con molta cura la polvere e la nascondono sotto i tappeti o dietro il termosifone, la mettono nei calzini o nei vasetti di yogurt. I batuffoli di polvere li governano sotto il letto come fosse un gregge di polvere.
Sono in quattro in famiglia, Mamma Bu, Papà Tom, Zio Jo e un ragazzino, il sergente Pok. 


Vivono nella casa dei Giganti, in una scarpa di cuoio che non puzza troppo di piedi. Tutti membri della medesima banda, hanno però caratteristiche singolari: la mamma inventa e costruisce, Zio Jo è un po' alternativo e piuttosto permaloso e Papà Tom piuttosto burbero, ma cuoco eccellente. Il Sergente Pok, l'io narrante, è allergico alla polvere. Il loro secondo peggior nemico è il grosso Chester, cane giallo dall'aria tonta. Rumoroso e fastidioso quasi quanto l'aspirapolvere. 


Si sa però che in una casa, per di più di giganti, i rumori non finiscono mai. E se sei la Banda del Silenzio e ami la discrezione avrai un gran daffare. Quindi dopo l'aspirapolvere bisogna combattere con il lavandino otturato e con quella bambina, arrivata un giorno nella scarpa di qualcuno, che non smette mai di ridere e di parlare con troppi punti esclamativi. Ma forse Lizzy non è poi così male...

Ci sono libri che nascono da un disegno e ci sono libri che nascono da una storia. Talvolta la differenza, a libro finito, non si coglie. Talvolta, anche solo impercettibilmente, sì. Dutetre racconta che il punto di partenza è stato determinato dal suo desiderio di realizzare un libro con molto disegno, abitato da personaggi minuscoli che avessero a che fare con l'utilizzo di piccoli oggetti di uso quotidiano e che avessero un buon rapporto con la meccanica, in modo da poter concedere a Dutetre la costruzione di complessi marchingegni di fondo.
Con il suo amico Alex Cousseau, complice una manifestazione di piazza cui hanno assistito mentre ragionavano sul progetto, hanno deciso che tutto avrebbe ruotato intorno al fastidio per il frastuono. E così è nata la Banda del Silenzio, una allegra brigata di banditi (inglesi!).



E questa è la prima puntata di quella che si preannuncia una serie.
Continua forte il desiderio diffuso da parte di chi ha storie da condividere, del racconto a puntate che, per struttura, mette insieme la complessità (per esempio nella costruzione del personaggio) e la brevità di fruizione. E se davvero la Banda del Silenzio sarà in azione per del tempo, come è auspicabile, è difficile non istituire un parallelismo con gli Sgraffignoli di Mary Norton. Anche loro minuscoli e creature di fattezze umane, anche loro all'ombra dei Giganti e non necessariamente in conflitto aperto, ma in regime di vigilata prudenza. La Banda del Silenzio con loro condivide l'ingegno  nell'utilizzo della minutaglia di oggetti che in una casa giacciono abbandonati e inutilizzati, ovviamente con usi del tutto alternativi che dell'oggetto stesso tengono in conto solo la forma e non la funzione. 


Ma condivide anche un'altra caratteristica fondamentale che riguarda le relazioni interpersonali. Gli Sgraffignoli e i membri della Banda sono a tutti gli effetti persone in miniatura e quindi rappresentano due famiglie con legami che tanto assomigliano a quelli che tengono insieme, o dividono, le famiglie umane. Si litiga, ci si offende, si fa pace, ci si dimostra affettuosi o severi, ci si viene in aiuto e si fa amicizia.


La qualità del disegno e il gusto per colore ma soprattutto per forma che deve esserci stato nella fase realizzativa si esprime in quel complicato meccanismo di corde e snodi dentro cui è una gioia andare a scovare i tantissimi piccoli oggetti assemblati secondo un unico criterio: quello del puro divertimento. Criterio che è sotteso a ogni costruzione inventata da una mente di bambino o bambina ingegnere che abbia a disposizione solo oggetti e cianfrusaglie. Insomma quanto di più lontano si possa immaginare dal costruire un'astronave con i Lego seguendo passo passo le istruzioni. 
Che va bene anche quella, ma è un'altra cosa.

Carla

lunedì 15 luglio 2019

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


IN COMPAGNIA DI UN GATTO NERO


Un gioiello, piccolo e prezioso, ci viene regalato dalla casa editrice LiberAria: una storia breve, un racconto del grande e compianto Osvaldo Soriano, che qui realizza una storia per bambini, ‘Nero, il gatto di Parigi’.
La storia è semplice: il ragazzino protagonista ci racconta la storia di Nero, il suo gatto parigino. Sì, perché il nostro ragazzino è fuggito con la famiglia dall’Argentina, ai tempi di Videla, lasciando là un po’ di ricordi e una gatta, Pulqui, affidata al nonno.
Questa sì è una separazione triste, è difficile stare senza la sua compagnia.
Per questo arriva Nero, un gattino nero preso al rifugio degli animali abbandonati. El Negro è un gatto di carattere, che la notte gira per i tetti di Parigi, corteggiando gattine e combattendo con i rivali; col suo amico umano fa lunghe conversazioni, non proprio uguali a quelle degli umani, ma che alla fine si rivelano decisive.
Il nostro ragazzino cresce e col tempo riesce ad ambientarsi a Parigi, ad apprezzarne la lingua, ad andar bene a scuola; dell’Argentina il ricordo più vivo è della gatta Pulqui, che è là ad aspettare. Nell’83, con la fine della dittatura e la riorganizzazione dello stato democratico, il papà e la mamma organizzano il ritorno in patria; ma come sarà Buenos Aires e lo stadio de la Plata?


Ma a vedere l’Argentina da Parigi ci vuole poco: basta salire, dopo aver sconfitto una temibile banda di cani, in cima alla Torre Eiffel insieme a un gatto coraggioso. Com’è bella Buonos Aires vista da lassù! Ora è possibile riconoscere le strade, le piazze, si può addirittura vedere Pulqui che gioca con un gomitolo di lana nel soggiorno del nonno.
Ecco, la magia è fatta, i fili interrotti dall’esilio si sono man mano riannodati e ora è possibile tornare, con il cuore gonfio di speranza.
Il racconto di Soriano è perfetto, intorno al filo narrativo che racconta di una fuga e di un ritorno, cresce un’atmosfera magica, dove la presenza del gatto, El Negro de Paris del titolo originale, permette al bambino di rivedere la sua città, di ritrovarla per un futuro ancora incerto, ma pieno di promesse. La lettrice e il lettore, anche ai primi passi della lettura, salta prodigiosamente dal registro realistico al fantastico come solo i bambini, e i grandi scrittori, sanno fare. E’ vero, a guardar bene, un bambino argentino può vedere, dalla cima della Torre Eiffel, la sua casa lontana, la gatta che lo aspetta, curiosa di incontrare il nuovo amico parigino.
In questa storia c’è molto della vita di Soriano, anche lui esiliato, anche lui stregato dai gatti. C’è la nostalgia, struggente come un tango di Gardel, c’è la speranza del ritorno, e c’è la magia della scrittura, che racconta con singolare sobrietà le tristi vicende dell’Argentina sotto Videla, la diaspora, la necessità del ricordo. Più di tante spiegazioni, rende immediata l’idea della ferita immane causata dalla dittatura: è un sentimento, una struggente nostalgia, una lontananza non voluta, una consapevolezza del dolore che non consente di voltare pagina.
E’ un libro prezioso, molto curato nella traduzione, di Ilide Carmignani, nella veste grafica e nelle illustrazioni, di Vincenza Peschechera, che questo piccolo editore, LiberAria ci regala; una lettura per tutte le età, anche per quegli adulti che possono smentire il gatto Nero che afferma che ‘a la gente grande le falta imaginacion’. Leggetelo!

Eleonora

“Nero, il gatto di Parigi”, O. Soriano, LiberAria 2019


venerdì 12 luglio 2019

OLTRE IL CONFINE (libri dall'estero)

I LIBRI NECESSARI

Zu Maria die mir nicht vergessen hat!

Worauf wartest du? Das Buch der Fragen, Britta Teckentrup
Jacoby and Stuart 2016


ILLUSTRATI

"Wie werde ich di Welt sehen, wenn ich gross bin?
Werde ich mein Platz finden?
Wieso spüre ich, dass du da bist?"

Come vedrò il mondo quando sarò grande?
Troverò il mio posto?
Perché riesco ad accorgermi che tu sei lì?


I libri con le domande dentro - a patto che le domande siano autentiche, quindi belle - sono di solito libri necessari. Ovvero sono libri senza i quali sarebbe peggio vivere.
Esistono sostanzialmente due categorie di libri che fanno domande. Alla prima, decisamente più diffusa, appartengono quei libri che contengono una storia, una vera narrazione che nel suo svolgersi e nel suo presentarsi complessa e stratificata, di fatto pone questioni al proprio lettore o lettrice e lo fa 'semplicemente' lasciando libertà al ragionamento di interrogarsi ed eventualmente di trovare soluzioni che siano personali. Chi mi frequenta sa che la mia naturale predilezione va verso libri del genere, perché una storia concepita in tal modo educa al ragionamento e al sentimento e offre altresì molteplici prospettive di lettura, allenando (per non ripetere educando) il pensiero.
Ma non è di queste storie che voglio discutere, ma della seconda categoria di libri che fanno domande, ovvero di quelli che la grande domanda, il punto interrogativo ce l'hanno fin dal titolo.
Senza produrre alcuno sforzo mnemonico, mi vengono in mente due titoli che con questo bellissimo libro di Britta Teckentrup dimostrano di avere più di una analogia. 

 




















Il primo è un libro spagnolo, Libro de las preguntas, e il secondo è un libro nato in Francia (ma tradotto e pubblicato qui da Feltrinelli) Perché io sono io e non sono te?
Il Libro de las Preguntas è pubblicato da Media Vaca (2006) ed è una magnifica edizione illustrata da Isidro Ferrer del testo di Pablo Neruda.
Siamo nella poesia pura, tanto verbale quanto visiva.
Il secondo è la risultante -nero su bianco pubblicato da Diogenes- di un progetto nato da un'idea di Alexandre Delacroix, editore di Philosophie Magazine che chiese a Tomi Ungerer "di tenere una rubrica per rispondere alle domande dei bambini".
Siamo nella filosofia pura, tanto verbale quanto visiva.
Questi due elementi, poesia e filosofia, ovvero metafora e indagine sul senso del mondo, sono due ambiti che riguardano (o dovrebbero riguardare) il mondo dell'infanzia e lo fanno (o lo dovrebbero fare) con modalità che sono per bambini e bambine del tutto naturali. Intendo dire che ragionare per metafore e indagare sul senso delle cose che li circondano sono (o dovrebbero essere) le attività che per molta parte della giornata tengono (o dovrebbero tenere) occupate le giovani menti. Non a caso la Teckentrup privilegia il disegno del pensiero che prende forma in una testa di profilo (Laurent Moreau docet).


Il terzo elemento sta in quel preciso modi di porsi, ovvero nella scelta consapevole dei tre autori di assumere quella posizione del tutto funambolica, di chi si fa delle domande. Nel chiedere, nel chiedersi, è insita la grande incertezza, il dubbio, la non conoscenza, la tensione verso la scoperta. E la possibilità di cadere nel vuoto.


Tutti e tre i libri sono incardinati a questi tre punti.
Il libro della Teckentrup, in altre parole, condivide con gli altri due il fatto di camminare su un filo con passo incerto, il fatto di muoversi su un linguaggio metaforico, il fatto di porre questioni a cui non vuole o non sa dare risposte univoche.
Con il libro di Ungerer condivide la voce. Una voce 'bambina' che Ungerer (per la verità, sua moglie) definisce di arrested development. Si tratta di una voce che con la stessa dignità si chiede se da grande farà il calciatore o se quando un'aquila va in cerca di cibo per il suo piccolo è un po' come se andasse a lavorare ma anche si chiede se il sogno è reale come lo è la realtà? o, subito dopo se si può anche sognare in due?


Una voce che è in grado di spiccare il volo verso le stelle e affondare al centro di un bosco con la stessa facilità e velocità. Una voce che non sa che cosa siano le gerarchie, non si cura delle priorità, ma spazia in lungo e in largo in assenza di confine.
Con il libro di Neruda accade sostanzialmente lo stesso. E non solo nell'impostazione poetica di alcune domande, come per esempio Quando ci si mette uno sull'altro il primo è sempre il più coraggioso e l'ultimo svolge sempre il compito più facile? o ancora Tu mi puoi sostenere? Sempre?
Ma anche, e soprattutto, nella relazione potente che la Teckentrup intesse tra testo e immagine.


Ma anche, e ancora, nella declinazione figurativa in se stessa che spesso e volentieri è espressione di puro lirismo. Colori e forme, sempre un po' attraversati da una nebbia che crea indefinitezza di contorno come se fosse l'esito di un lavorio lento e complesso quale è quello della stampa serigrafica, fatto di tanti passaggi, come abbiamo visto fare a BlexBolex, con il preciso intento di restituire alla pagina stampata 'l'imperfezione' del processo creativo, la matericità della carta e dell'inchiostro, che ormai grazie alle tecnologie, e in nome di una presunta qualità assoluta, si è da tempo superata.


Descrivere bellezza e poesia è cosa da non fare per non vedersela sbriciolare tra le dita.
Quindi il suggerimento è, in silenzio, guardate qui.



Carla