"Per i bambini e le bambine moken, il silenzio è un segno di rispetto e un modo per comunicare
con gli animali. Il destino degli inuit è legato a doppio filo a quello dell’oceano Artico. Popoli
come gli ngāti hau, gli anangu o gli mbuti hanno lottato per decenni affinché i loro luoghi sacri
– fiumi, montagne, boschi – venissero rispettati. La vita collettiva di questi popoli si basa sul
principio della reciprocità, ovvero sulla solidarietà e sul mutuo aiuto, sulla moderazione e sulla
gratitudine per quel che si ha.
Le comunità indigene si prendono cura della natura perché la percepiscono come un essere vivente in cui vivono e che vive in loro, che è parte di loro stessi: è famiglia, madre, sorella, antenata."
Questo si legge nella introduzione a questo libro, dal titolo così ricco di significati.
La parola origine racchiude tanto la complessità del pianeta su cui viviamo e nello stesso tempo allude al fatto che ogni creatura che lo abita parte da un medesimo ingrediente condiviso, la polvere delle stelle.
Una sola origine per tanti popoli differenti.
Se si riflette su questo, accade che contemporaneamente siamo di fronte a tante diversità, eppure, davanti a un punto di inizio che è unico.
Ah, se i più potesse tenere a mente questo pensiero... forse sarebbe tutto più semplice.
Ma.
Nel grande libro Origine, pubblicato per la prima volta da una delle più significative case editrici di lingua spagnola, Libros del Zorro Rojo, il ragionamento e lo studio decennale fatto da Nat Cardozo, magnifica illustratrice che lavora in Uruguay, su questo concetto così importante e complesso ha come esito questa magnifica galleria di ventidue diversi volti di bambini o bambine.
Ognuno di questi diventa ritratto di una appartenenza a un territorio, a una cultura.
Ventidue popoli, detti originari, ossia che si sa abbiano abitato il luogo in cui vivono ancora oggi, fin dal principio, fin dall'origine appunto.
Una selezione durissima e dolorosa deve essere stata per Nat Cardozo, visto che, gli studi di antropologia, attestano che a oggi le popolazioni originarie sono più cinquemila.
Da piccole comunità di poche migliaia di individui, fino a più di un milione, tutti loro sono tenuti insieme non solo dalla comune radice "stellare", ma anche e soprattutto dal senso di rispetto e gratitudine nei confronti della natura che li circonda. E, purtroppo, nell'essere tutti tenuti socialmente ai margini da parte delle società più forti, nell'essere stati oggetto di allontanamento dalla loro terra, di imposizioni di credo religiosi diversi dai loro, di lingue che non sono quella originaria.
Leggere per credere.
Il libro, questo prezioso catalogo di facce e paesaggi, nelle sue pagine è così organizzato: in quella di sinistra, un titolo che allude alla popolazione e poco sotto la sua collocazione geografica e qualche dato sul numero di appartenenti alla comunità e la lingua parlata. Poi su due colonne c'è una narrazione che racconta il territorio, l'alimentazione, le abitudini, i rapporti all'interno del gruppo e le relazioni con ciò che li circonda. E ancora più in basso, perfettamente speculare alle quattro righe su geografia, popolazione e lingua, ci sono altre quattro righe in cui si regala al lettore un altra piccola informazione.
A destra, l'intera pagina è occupata dal volto di bambini e bambine, attraversato ogni volta da un paesaggio differente.
Sfogliandolo si scopre che tra i !Kung vale la regola di non affezionarsi a oggetti o utensili, perché il loro nomadismo attraverso il deserto del Kalahari gli ha insegnato che è meglio "viaggiare leggeri" e si scopre anche che un sopracciglio piò diventare l'ombra di un baobab e le colline in lontananza sono capelli crespi. Si impara che il nomadismo acquatico della ragazzina moken, le fa dire che la barca su cui vive, il kabang, una vera e propria casa galleggiante, se ben curata sarà in grado di portarla dove lei vorrà. Solo in alcuni periodi dell'anno è saggio abbandonarla, ossia quando è più sicuro costruire e abitare piccole capanne sulla terraferma, aspettando che il monsone passi. E i coralli le circondano un orecchio.
Anche il bambino Evenki, nella taiga della Siberia, è nomade perché lui e la sua gente, popolo di pastori, seguono le renne e per le quali cercano i percorsi più sicuri. Dormono in tende e partono che non è ancora l'alba per andare a caccia, non prima di aver chiesto all'anima dell'animale che si vorrebbe catturare di stipulare con il proprio cacciatore un patto di lealtà. Il fiume al disgelo gli attraversa la fronte.
Nel mondo della bambina Cherokee sono sette i punti cardinali per orientarsi e tre i livelli dell'universo. E come darle torto: est ovest nord sud il sopra il sotto e il centro, e poi un mondo superiore, uno inferiore e uno di mezzo, in cui vivere. E due bisonti pascolano sulle sue sopracciglia.
Una meraviglia dietro l'altra, viso dopo viso, luogo dopo luogo.
Ed è proprio in questo modo di concepire l'immagine che non posso non pensare a tre cose.
La prima, Tullio Pericoli e ai suoi paesaggi.
La seconda, quello che ho visto accadere anni fa, durante uno dei festival cagliaritani di Tuttestorie, in cui Elena Iodice ha sussurrato nelle orecchie di frotte di bambine e bambine di immaginare i volti delle persone come fossero paesaggi ("Quaranta anziane/i sono stati fotografati per divenire volti/paesaggi, ispirati al lavoro dell’artista Tullio Pericoli, e poi “lavorati” dai piccoli con la loro fantasia e il loro sguardo unico. Ed ecco che le due età così diverse – infanzia e vecchiaia – assumono ognuna e entrambe un significato nuovo [...] per “entrare” nella grande poesia dell’incontro fra le due estremità del Tempo.")
Ma la chiave, geniale, è proprio lì: i volti delle persone sono paesaggi.
E qui entra la terza grande cosa: noi siamo la nostra storia.
Io ci credo fermamente, e di questo mi sono convinta leggendo uno dei migliori libri di sempre (ovviamente fuori commercio), Gli ultimi giganti di François Place, pubblicato - sarà un caso? - da L'Ippocampo.
Tutta la superficie del loro corpo, la loro pelle, era coperta di tatuaggi, che cambiavano nel corso del tempo, raffigurando, di fatto ridisegnando con i loro segni, gli accadimenti vissuti da ciascuno di loro.
Va da sé che l'uomo troppo curioso che li ha scoperti, ha portato alla loro scomparsa.
Beh, mi pare che qui il cerchio - quasi - si chiuda.
Stando a quanto scrive Nat Cardozo, con la supervisione di María José Ferrada, c'è da chiedersi quanto il destino di Inuit, Bribri, Musuo, Ngati Hau e gli altri quasi cinquemila popoli originari sia affine a quello degli ultimi giganti...
Carla
"Origine", Nat Cardozo, testi a cura di María José Ferrada
L'Ippocampo 2024