Grande, bro!, Jenny Jägerfeld (trad. Laura Cangemi)
Iperborea 2024
NARRATIVA PER GRANDI (dai 12 anni)
"Forse gli era arrivato addosso lo skate? Arretrai di un altro passo e mi preparai a tornare a razzo al portoncino dopo aver contato fino a tre. Uno, due... Ah già, il portoncino si era chiuso! Rimasi immobile.
Lui sputò a terra, si strofinò il mento e imprecò di nuovo.
'Porca di quella merda!'
Aveva un repertorio di imprecazioni notevole, e suonavano anche parecchio dure.
Poi tacque. Si avvicinò. Mi fissò. Dall’alto in basso. Aveva gli occhi marroni, ma dentro, vicino alla pupilla, intravidi un luccichio dorato. I capelli erano scuri, quasi neri, e ricci. La guancia era attraversata da una cicatrice che somigliava a una J, anzi, più che altro a un amo. Continuò a fissarmi, riuscendo a sembrare incazzato e perplesso nello stesso tempo. Poi mi premette forte lo skate contro il petto e disse qualcosa che, nonostante l’accento scanese, mi sembrò un «ci si vede». E non sapevo se fosse una minaccia o una promessa.
'Mi chiamo Måns', dissi tendendo di colpo la mano per stringergli la sua."
Måns e Mikkel si sono conosciuti così.
Måns, 12 anni, è temporaneamente a Malmö con sua madre, che fa la doppiatrice di cartoni animati: deve registrare per quattro settimane e lui la segue. Contento di andarsene da Stoccolma e di cambiare aria per un po'. Si insediano nella casa di un vecchio amico materno e Måns comincia ad esplorare i dintorni. Un grande cortile interno potrebbe essere un buon posto per sgranchirsi con lo skate. Perché Måns è un drago sullo skate. Eccezion fatta quando gli sfugge da sotto i piedi per eccesso di spericolatezza e finisce sul mento di Mikkel, poco più grande di lui e completamente coperto di tatuaggi, che ha avuto la sfortuna di trovarsi nel cortile del palazzo nel momento sbagliato.
Nonostante questo rovinoso esordio, Måns e Mikkel cominciano a frequentarsi, seguiti a debita distanza da Nora, che la madre gli mette alle calcagna come babysitter. Lei è la figlia diciassettenne dell'amico che gli affitta la casa. Si forma così una curiosa banda costituita da due ragazzini e due ragazzi di poco più grandi: Nora e Simpson, quest'ultimo il fratello maggiore di Mikkel, eccellente tatuatore.
Questo è il racconto delle loro giornate estive, tra grandi sfide con lo skate, tra ferite e patti di sincerità e lealtà eterna, una fratellanza siglata con il sangue, gelati e bagni al mare, tra grandi chiacchierate e tatuaggi temporanei. Måns e Mikkel diventano inseparabili. Prendono un buon ritmo quei due. Vanno veloci e sicuri con gli skate e nella loro grande amicizia, fino al momento in cui un 'sassolino' li fa inciampare e cadere...
Il sassolino in questione è un passaporto, quello di Måns, in cui è scritto a chiare lettere il nome con cui è registrata all'anagrafe, il nome che gli hanno dato i suoi genitori quando è nata: Michelle.
A una persona che nella sua più profonda profondità sa di essere maschio è toccato in sorte un corpo da femmina. Ad accettare questo fatto alcuni hanno fatto molta fatica, primo fra tutti proprio suo padre che, all'idea che Michelle richieda da sempre e a gran voce di essere trattata da Måns, non vuole abituarsi. Lo stesso, la nonna giustifica le stranezze di Michelle, poi Michi quindi finalmente Måns, considerandole solo una fase...
Del tutto diverso è il percorso che fa sua madre, la prima che prova a districarsi e a trovare una corretta postura, al principio solo 'formale', esteriore, ma poi sempre più intima e profonda. E in lei lentamente radica la sicurezza che Michelle davvero non sia mai nata, non esista, mentre è Måns il suo bambino. Ed è lui quello che le sta crescendo davanti.
Bella questione.
Centoventi pagine che, come sempre è successo con i libri italiani della Jägerfeld, si bevono a grandi sorsate. A libro chiuso, si percepisce la stessa sensazione di appagamento che si prova quando si ha tanta sete e si manda giù dell'acqua.
Ma la grandezza della Jägerfeld non sta solo nello spessore delle questioni che pone, ma anche nella leggerezza della sua architettura per raccontarle.
Di queste centoventi pagine decide di dedicarne una prima cinquantina a costruire personaggi e contesto. Quello di partenza, ovvero Stoccolma, traspare qui e là, ma è soprattutto quello di Malmö a prevalere. Riguardo ai personaggi, conosciamo un padre goffo che si comporta da imbecille, sarà lui stesso ad ammetterlo, e una nonna, quella della fase, sullo sfondo.
A spiccare, invece, è soprattutto la madre e la gente nuova di Malmö. Sono loro i riferimenti della voce narrante, in questa prima parte. Rappresentano l'alternativa a una Stoccolma in cui essere se stessi è faticoso.
Su tutti loro, giganteggia lui, Måns: un ragazzino che se chiude l'occhio sinistro i colori li vede molto più intensi, mentre se chiude l'altro sono molto più sbiaditi.
Dov'è la verità? A quale occhio credere? si chiede sul treno che lo sta portando a Malmö.
Bella domanda.
Queste cinquanta pagine le sono sufficienti per costruire uno scenario solido, autentico e come sempre attraversato da un grande senso dell'umorismo.
Poi, nello spazio di due pagine, avviene la grande sterzata.
Tutto si ferma sul bordo della fontana dove Måns è seduto con un bel taglio in testa, procuratosi contro lo stelo della grande rosa di lamiera (!).
Lì tutto si blocca perché Mikkel, nel stringere con lui un patto di sangue, lo ha appena definito 'bro' - fratello.
A parte la bellezza intrinseca del gesto tra i due, che trasforma un'amicizia normale in una fratellanza "epica", Mikkel - inconsapevole come il lettore - attesta di fronte al mondo che Måns sia suo fratello.
Un fratello maschio.
Questo rende oltremodo felice Måns, nonostante il buco in testa.
In poche righe, la scena è congelata come in un fermo immagine, Måns esce dalla trama, dalla sequenza degli eventi, e ci dice che lui effettivamente è un maschio, ma in un corpo femminile. Un maschio con la vagina.
Altro che sberla contro la rosa di lamiera! La nostra visione d'improvviso si fa chiara. La Jägerfeld con la naturalezza, il garbo e la leggerezza che la rende strepitosa, ci costringe a fare il gioco dell'occhio sinistro che vede in un modo e dell'occhio destro che vede in un altro e ci illumina su come stanno in realtà le cose.
Da grande autrice, ancora una volta si fa attraversare dalla vita vera e poi la trasforma in scrittura.
"Parafrasando" Capasso, si potrebbe parlare qui dell'impronta dell'autore?
Ora che è tutto molto più chiaro, il fermo immagine non ha più senso di esistere e la storia riparte. Ma con una differenza: noi come quasi tutti i protagonisti del libro adesso sappiamo. L'unico che non sa è Mikkel.
Ritorna il racconto, ma si fa strada anche il rovello di Måns che non riesce a trovare il coraggio di essere per lui un fratello di sangue come si deve: sincero fino in fondo.
Ma è davvero così? Ha davvero mentito a Mikkel?
Arriva la scena del passaporto e tra i due amici si crea la frattura. Måns non riesce a spiegarsi con Mikkel, ma riesce a farlo una volta per tutte con suo padre, che, nel frattempo, lo ha raggiunto a Malmö. Un padre che finalmente pare aver capito.
Tra rimorsi e malinconie, si torna a casa, alla vita di prima.
La scuola e le solite fatiche riprendono.
Ma a un pizzico dalla fine, mancano una decina di pagine, il ritmo cambia di nuovo.
Madre e figlio ritornano a Malmö, per ultimare il doppiaggio e la Jägerfeld accende un grande faro per fare di nuovo luce. Mette in mano a Måns una matita rossa e gli fa scrivere un efficace riepilogo della questione. Si tratta di una lettera per Mikkel che Måns, con una inaspettata sicurezza, gli legge sulla porta della camera.
Ebbene: la purezza delle parole scelte rende questo breve monologo un piccolo capolavoro di semplicità e chiarezza e quindi di efficacia.
Non solo per Mikkel, ma per tutti. Si potrebbe stampare e diffondere ai semafori.
Ecco, a proposito di diffusione. Accanto all'impronta dell'autore, ma pare si veda chiarissima anche l'impronta dell'editore. Editore che decide di continuare lungo la propria strada - coraggioso, fiero e ambizioso - nello stampare e diffondere libri così importanti. Necessari.
E, a proposito di ambizione, torno a Calasso quando sostiene che un buon editore deve "fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato."
Mi pare che con Iperborea ci siamo.
Carla
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