lunedì 9 agosto 2021

IL RIPOSTIGLIO (libri belli e impolverati)

'IN SOLITARIO'
 
Piccolo in città, Sydney Smith
Orecchio acerbo 2021

ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni)

"Io so che vuol dire essere piccoli in città.
La gente non ti vede e i rumori forti possono spaventarti.
E sapere cosa fare a volte è difficile.
I taxi suonano il clacson. Le sirene vanno e vengono in ogni direzione.
I cantieri battono e trivellano e urlano e scavano.
Le strade sono sempre trafficate..."
 
Ma chi sta dicendo tutto questo? E a chi si rivolge?
 
 
Sta cominciando a nevicare, un bambino, seduto su un autobus che attraversa una grande città, scende e comincia a camminare. Il suo riflesso appare sui vetri dei grattacieli. Ha un piccolo zainetto sulle spalle e un berretto calato sugli occhi. Il suo percorso sembra conoscerlo. Passa davanti a vicoli deserti, dietro un cancello ci sono grandi cani che abbaiano. Si arrampica su un albero e la neve diventa sempre più fitta. Si ferma davanti a uno sfiatatoio dell'aria calda, passa davanti a un pescivendolo, davanti ai giardinetti e sul fianco della chiesa... Il suo cammino prosegue verso un punto preciso.
Mentre lo vediamo muoversi con una certa sicurezza per la città, la voce non smette mai di dare consigli e di infondere coraggio...


Di questo libro non va raccontato di più. Porta in sé un segreto che sarebbe una crudeltà svelare a chi lo voglia leggere per la prima volta.
Piccolo in città è il primo albo di un autore che fino ad adesso ha 'solo' illustrato libri di altri. Per dodici anni, e per circa dodici libri Sydney Smith ha ragionato su come si concepisce un buon albo illustrato. In questo tempo, oltre ad aver imparato molti meccanismi e aver imparato a potenziarli al massimo, ha collezionato premi su premi. Ma, dopo dodici anni, evidentemente ha pensato che fosse arrivato il momento di mettersi alla prova. Su tre grandi questioni interconnesse che regolano la costruzione di un albo illustrato di qualità: il contrappunto, il montaggio e l'ambiguità.
Ma prima di qualsiasi ragionamento, forse può valere la pena raccontare un po' la genesi di questa storia.
Al principio, è lo stesso Smith a raccontarlo in un'intervista, il nocciolo della questione doveva ruotare intorno alla difficoltà di un bambino che scava nella neve una sorta di labirinto in cui si perde. In questo modo tutto avrebbe ruotato intorno all'emotività del protagonista. In tal modo la storia non aveva un plot degno di questo nome e sarebbe stato un libro di sola atmosfera.
Poco convincente sia per Smith, sia per Neal Porter, suo futuro editore, che con ironia gli suggerisce quello che spesso nei libri risolve impasse del genere: aggiungere un cane. Questo suggerimento non convince Smith, ma ha il merito di continuare a ronzargli in testa. A questo si deve aggiungere un altro episodio, un misunderstanding di un testo musicale, sentito durante un suo viaggio in macchina, in cui una voce, tra lo struggente e il protettivo, dice più o meno "perché non posso vederti di nuovo?"
Ed ecco che scatta la scintilla tra i due poli e nasce la storia di Piccolo in città

 
Il bambino diventa coprotagonista e la neve si mette sullo sfondo dell'intera vicenda, pur non perdendo il suo ruolo di elemento drammaturgico fondamentale e imprescindibile per il finale.
A questo punto, con la storia in testa, Smith sa di dover lavorare con i tre fondamentali: contrappunto, montaggio e ambiguità.
Sa anche che la città, quasi come la neve, è elemento di drammaturgia importantissimo. Come la bufera di neve, la grande metropoli crea la necessaria tensione emotiva.
 

Il contrappunto, ovvero quel preciso rapporto dialogico tra testo e immagine costruito sulla distanza più che sull'assonanza, è evidente fin dal principio. Quello che vediamo e quello che sentiamo sembrano in apparenza armonici, mentre invece - proprio giocando sull'ambiguità costruita su un raffinatissimo montaggio di immagini - a lungo andare si separano, creando uno iato, che è il 'segreto' cui si alludeva prima. Un dettaglio fondamentale, a una prima lettura, tende a sfuggire, perché Smith, come ogni bravo regista, guida il nostro sguardo altrove, dove vuole lui.
 

Il grande lavoro di ricerca lui lo ha fatto nel rendere la città con molta onestà: servendosi spesso di vecchie foto che suo padre aveva scattato quando lui era piccolo e scattandone di nuove lui stesso, con quella stessa macchina fotografica paterna. La risultante è una città molto vera, con i suoi angoli trascurati, e con una serie di luoghi che il piccolo protagonista riconosce come familiari. D'altronde ogni bambino ha in testa una mappa del proprio quartiere, con qualche negozio, un giardinetto, un vicolo laterale, una chiesa, ed è proprio quella cui vuole alludere Smith.
Impossibile non notare soprattutto la luce, il tipo di disegno, il taglio di alcune immagini e il ritmo dato dalle tavole di diverso formato.
Uno dei talenti che Sydney Smith dimostra di avere è la sensibilità per la luce e la sua resa attraverso il colore. In questo senso, al principio vediamo le superfici a specchio dei grattacieli che moltiplicano lo splendore della luce, poi il nitore di una giornata di pieno sole si va attenuando via via con l'arrivo della neve che lentamente va ottundendo, nei toni del grigio, tutte le superfici. 
 

Piano piano la neve si mangia i colori e quei pochi che restano visibili, si attenuano, fino ad arrivare a essere solo puntini rossi di fari o fiorellini di una siepe.
Il tipo di disegno, almeno in principio, dato dall'intreccio di linee nere che si spezzano e si intersecano ha un preciso scopo di creare tensione emotiva. Come pure la sequenza del bambino nell'autobus raccontato con una silhouette nera è una pura citazione cinematografica, in quella città sfocata al di là del vetro, ma ha lo scopo di far intuire già molto del protagonista. La tavola intera anticipa quella successiva che, per contrappunto, si compone di una sequenza di 7+7, proprio con la funzione di creare spaesamento e disagio nel lettore e nel protagonista. 
 

I molti silenzi del testo, i gap di cui si parlava a proposito dei libri di Wiesner, hanno il fine di chiamare dentro i propri lettori e le proprie lettrici. E inesorabilmente questo si verifica. L'ambiguità latente diventa ipnotica e fa perdere l'orientamento al lettore, per poi ricompensarlo alla fine, aspettandolo, in uno con il protagonista, in un abbraccio sul finale.
 

Ecco: un autore che al suo primo libro 'in solitario' riesce a creare tutto questo, a portare i propri lettori esattamente nel punto che lui si è prefissato (la sua unica incognita è quella di non poter sapere quando il lettore svelerà il segreto), coinvolgendoli emotivamente fino alla pelle d'oca, merita un premio.
Premio che infatti è arrivato, anche questa volta.
 
Carla

 

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