'IN SOLITARIO'
Piccolo in città,
Sydney Smith
Orecchio acerbo 2021
ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni)
"Io so che vuol
dire essere piccoli in città.
La gente non ti vede
e i rumori forti possono spaventarti.
E sapere cosa fare a
volte è difficile.
I taxi suonano il
clacson. Le sirene vanno e vengono in ogni direzione.
I cantieri battono e
trivellano e urlano e scavano.
Le strade sono
sempre trafficate..."
Ma
chi sta dicendo tutto questo? E a chi si rivolge?
Sta
cominciando a nevicare, un bambino, seduto su un autobus che
attraversa una grande città, scende e comincia a camminare. Il suo
riflesso appare sui vetri dei grattacieli. Ha un piccolo zainetto
sulle spalle e un berretto calato sugli occhi. Il suo percorso sembra
conoscerlo. Passa davanti a vicoli deserti, dietro un cancello ci
sono grandi cani che abbaiano. Si arrampica su un albero e la neve
diventa sempre più fitta. Si ferma davanti a uno sfiatatoio
dell'aria calda, passa davanti a un pescivendolo, davanti ai
giardinetti e sul fianco della chiesa... Il suo cammino prosegue
verso un punto preciso.
Mentre
lo vediamo muoversi con una certa sicurezza per la città, la voce
non smette mai di dare consigli e di infondere coraggio...
Di
questo libro non va raccontato di più. Porta in sé un segreto che
sarebbe una crudeltà svelare a chi lo voglia leggere per la prima
volta.
Piccolo in città
è il primo albo di un autore che fino ad adesso ha 'solo' illustrato
libri di altri. Per dodici anni, e per circa dodici libri Sydney
Smith ha ragionato su come si concepisce un buon albo illustrato. In
questo tempo, oltre ad aver imparato molti meccanismi e aver imparato
a potenziarli al massimo, ha collezionato premi su premi. Ma, dopo
dodici anni, evidentemente ha pensato che fosse arrivato il momento
di mettersi alla prova. Su tre grandi questioni interconnesse che
regolano la costruzione di un albo illustrato di qualità: il
contrappunto, il montaggio e l'ambiguità.
Ma
prima di qualsiasi ragionamento, forse può valere la pena raccontare
un po' la genesi di questa storia.
Al
principio, è lo stesso Smith a raccontarlo in un'intervista, il
nocciolo della questione doveva ruotare intorno alla difficoltà di
un bambino che scava nella neve una sorta di labirinto in cui si
perde. In questo modo tutto avrebbe ruotato intorno all'emotività
del protagonista. In tal modo la storia non aveva un plot degno di
questo nome e sarebbe stato un libro di sola atmosfera.
Poco
convincente sia per Smith, sia per Neal Porter, suo futuro editore,
che con ironia gli suggerisce quello che spesso nei libri risolve
impasse del genere: aggiungere
un cane. Questo suggerimento non convince Smith, ma ha il merito di
continuare a ronzargli in testa. A questo si deve aggiungere un altro
episodio, un misunderstanding di un testo musicale, sentito durante
un suo viaggio in macchina, in cui una voce, tra lo struggente e il
protettivo, dice più o meno "perché non posso vederti di
nuovo?"
Ed
ecco che scatta la scintilla tra i due poli e nasce la storia di
Piccolo in città.
Il
bambino diventa coprotagonista e la neve si mette sullo sfondo
dell'intera vicenda, pur non perdendo il suo ruolo di elemento
drammaturgico fondamentale e imprescindibile per il finale.
A
questo punto, con la storia in testa, Smith sa di dover lavorare con
i tre fondamentali: contrappunto, montaggio e ambiguità.
Sa
anche che la città, quasi come la neve, è elemento di drammaturgia
importantissimo. Come la bufera di neve, la grande metropoli crea la
necessaria tensione emotiva.
Il
contrappunto, ovvero quel preciso rapporto dialogico tra testo e
immagine costruito sulla distanza più che sull'assonanza, è
evidente fin dal principio. Quello che vediamo e quello che sentiamo
sembrano in apparenza armonici, mentre invece - proprio giocando
sull'ambiguità costruita su un raffinatissimo montaggio di immagini
- a lungo andare si separano, creando uno iato, che è il 'segreto'
cui si alludeva prima. Un dettaglio fondamentale, a una prima
lettura, tende a sfuggire, perché Smith, come ogni bravo regista,
guida il nostro sguardo altrove, dove vuole lui.
Il
grande lavoro di ricerca lui lo ha fatto nel rendere la città con
molta onestà: servendosi spesso di vecchie foto che suo padre aveva
scattato quando lui era piccolo e scattandone di nuove lui stesso,
con quella stessa macchina fotografica paterna. La risultante è una
città molto vera, con i suoi angoli trascurati, e con una serie di
luoghi che il piccolo protagonista riconosce come familiari.
D'altronde ogni bambino ha in testa una mappa del proprio quartiere,
con qualche negozio, un giardinetto, un vicolo laterale, una chiesa,
ed è proprio quella cui vuole alludere Smith.
Impossibile
non notare soprattutto la luce, il tipo di disegno, il taglio di
alcune immagini e il ritmo dato dalle tavole di diverso formato.
Uno
dei talenti che Sydney Smith dimostra di avere è la sensibilità per
la luce e la sua resa attraverso il colore. In questo senso, al
principio vediamo le superfici a specchio dei grattacieli che
moltiplicano lo splendore della luce, poi il nitore di una giornata
di pieno sole si va attenuando via via con l'arrivo della neve che
lentamente va ottundendo, nei toni del grigio, tutte le superfici.
Piano piano la neve si mangia i colori e quei pochi che restano
visibili, si attenuano, fino ad arrivare a essere solo puntini rossi
di fari o fiorellini di una siepe.
Il
tipo di disegno, almeno in principio, dato dall'intreccio di linee
nere che si spezzano e si intersecano ha un preciso scopo di creare
tensione emotiva. Come pure la sequenza del bambino nell'autobus
raccontato con una silhouette nera è una pura citazione
cinematografica, in quella città sfocata al di là del vetro, ma ha
lo scopo di far intuire già molto del protagonista. La tavola intera
anticipa quella successiva che, per contrappunto, si compone di una
sequenza di 7+7, proprio con la funzione di creare spaesamento e
disagio nel lettore e nel protagonista.
I molti silenzi del testo, i
gap di cui si parlava a proposito dei libri di Wiesner, hanno il fine
di chiamare dentro i propri lettori e le proprie lettrici. E
inesorabilmente questo si verifica. L'ambiguità latente diventa
ipnotica e fa perdere l'orientamento al lettore, per poi
ricompensarlo alla fine, aspettandolo, in uno con il protagonista, in un abbraccio sul finale.
Ecco:
un autore che al suo primo libro 'in solitario' riesce a creare tutto
questo, a portare i propri lettori esattamente nel punto che lui si è
prefissato (la sua unica incognita è quella di non poter sapere
quando il lettore svelerà il segreto), coinvolgendoli emotivamente
fino alla pelle d'oca, merita un premio.
Premio
che infatti è arrivato, anche questa volta.
Carla
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