Mio padre è stato un insegnante di educazione artistica. Mi era chiaro che fosse un grande insegnante, molto amato, perché succede ancora spesso che mi chiedano se io sia figlia del professor Mosna. Tuttavia, a parte il breve periodo in cui mi portava con sé in classe e di cui ho un ricordo molto vago, ho assistito personalmente a una sua sola lezione.
Stava davanti alla lavagna, plastico e autorevole: con un gesso in mano bandiva la paura dell’errore, e chiedeva a tutti di avventurarsi fiduciosi nello spazio bianco concesso dal foglio per andare a cercare il cerchio. Non sarebbe stato il primo segno, ma sarebbe venuto a furia di tentativi. Non sarebbe stato frutto della volontà, muscolo sopravvalutato che rendeva il braccio fragile e indeciso, ma sarebbe emerso da una consapevolezza lontana, quasi rabdomantica, a cui bisognava solo facilitare la strada.
Nel silenzio del sottotetto ampio in cui avveniva la lezione, si sentiva solo il rumore di mio padre che girava e girava il braccio, energico, lieve. Poi, piano piano, lo vedevi: il cerchio. L’occhio lo individuava tra tutte le altre linee fragili e imperfette. Allora la mano si faceva più decisa, escludeva ciò che non doveva essere considerato e il segno diventava più fermo.
Poi lui si girava, e diceva a tutti: e ora, provate. Sapete tutti cosa è un cerchio.
Sul valore pedagogico dell’errore e del clima psicologico favorevole al suo utilizzo mi limito a una prosaica riflessione, ovvero che se al tempo dei primi passi avessimo ricevuto facce scure e giudizi severi al posto di sorrisi e incoraggiamenti e gioia incondizionata a ogni caduta per terra, beh…con difficoltà ci saremmo alzati nuovamente e avremmo imparato a camminare. Per tale motivo, questa raccolta di poesie mi pare particolarmente interessante: per come distoglie l’attenzione dalla correttezza formale, procedendo nella salvifica direzione di legittimare tutte quelle azioni che ognuno di noi può fare sulla lingua, spingendo per leggera emulazione verso il gioco di sbagliare apposta, verso la libertà di scardinare le regole, o meglio ancora di cavalcare quegli errori involontari e quegli scavallamenti divergenti del senso che accadono quando un meccanismo sbiellato si mostra nei suoi meccanismi interni.
Invece che correre ai ripari, correggere e aggiustare, pare che a Iñigo Astriz piaccia piuttosto accogliere il deragliamento del senso sancendo per sé e per gli altri il diritto di fare con la lingua un po’ quello che ci pare, delimitando in tal modo un territorio sicuro, un laboratorio poetico-pedagogico in cui si disattivano i freni della norma per restituire alla lingua il suo potere originario: evocare, deviare, creare, sbagliare.
La mente, salvata dal terrore delle conseguenze per una doppia di troppo o una lettera mancante, può (finalmente) perdere il controllo per dirigersi dove crede, esplorare, sperimentare, costruire attraverso la propria autonomia di pensiero una più intima relazione con la lingua.
Il poeta non si preclude nessuna delle strade che la poesia concede: gli sbandamenti, le onomatopee, l’utilizzo funzionale dello spazio fisico della pagina, l’interazione tra parola e segno grafico, il gioco del surreale. Trovano spazio nella raccolta un indice letterario che stimola l’indice della mano a seguire gli arzigogoli che uniscono il titolo delle poesie alla pagina in cui dovrebbero stare, ci sono parole scomparse per la troppa neve, l’apparizione enigmatica dei numeri scritti in cifra, ma anche un incidente tra un canguro e una pulce che si incontrano in centro alla pagina…
Questa poesia non era scritta male si pone nel territorio divertito e divertente della sperimentazione divergente vera e propria, bandendo quelle inibizioni di carattere pedagogico che a volte imbrigliano la lingua, quel timore che sia meglio imparare tutto e bene e subito, quelle precauzioni che finiscono per irrigidire la relazione con la materia linguistica che invece qui appare, pagina dopo pagina, come una meravigliosa scatola di costruzioni fatta di pezzi tanto inossidabili quanto versatili.
Parole scritte da destra a sinistra, versi bucherellati da gragnuole di punti che paiono proiettili, sparizioni di intere parti del testo oppure, anche, suoni e lettere che si ripetono al punto da non lasciare più spazio al senso. In un'atmosfera che ricorda un po’ Palazzeschi, un po’ Scialoja, il lettore viene spinto verso una felice anarchia riguardo a quello che lo circonda, ed esortato, come ben si conviene a un volume appartenente a una collana di poesia chiamata “Poesia a vela” ad accogliere e mutuare un po’ di questa libertà. Componimento dopo componimento, il meccanismo linguistico viene mostrato come un marchingegno da adoperare senza imbarazzo, senza paura che esploda nelle nostre mani o meglio: che è doveroso poter maneggiare in modo divertente e divertito fino a farlo effettivamente deflagrare, confidando per la salvezza non tanto sulla competenza manifesta, coerente e misurabile di grammatica e tempi verbali, ma piuttosto su qualcosa di più profondo, depositato in ognuno dal momento in cui nascendo veniamo immersi in un preciso contesto linguistico di cui sperimentiamo l’essenza ben prima della comprensione.
Una consapevolezza non ancora acquisita, ma pronta a emergere, un senso della lingua che ci precede, che ci costituisce ben prima di quando lo consolidiamo sui libri, poiché si tratta di un patrimonio che ci tiene insieme così come i filamenti sottili di radici e miceli innervano e consolidano il terreno. Una conoscenza immisurabile, che permette di riconoscere il cerchio prima di conoscerne le leggi geometriche, che concede di tornare dritti a camminare dopo (quasi) ogni caduta senza conoscere la funzione del menisco.
Perché prima di essere competenza, il sapere è in noi a ogni passo, riflesso di spiagge lontane, come suggerisce la poesia
“Granello di sabbia”
C’è una spiaggia
che mai più nessuno
ha calpestato
sappiamo che esiste
perché nella scarpa
il suo granello di sabbia
portiamo nascosto.
Giorgia
“Questa poesia non era scritta male” Iñigo Astiz, Massimo Pastore (traduzione di Ilaria Rigoli), Edizioni La Linea 2025
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