IN CUI NON SIAMO MAI STATI
Non si può certo dire che avere un corpo, abitarlo, usarlo sia una faccenda che possa essere trattata in modo sistematico: questo è il luogo in cui primariamente si sperimenta la tridimensionalità. Se in un manuale anatomico il corpo può venire presentato con sistematicità, suddiviso per apparati coerenti, ognuno impegnato a gestire una concatenazione di funzioni sequenziali, ecco che nella vita, nell’esperienza, tutto si mescola e si sovrappone.
Si rimane a lungo così, da piccoli, sospesi tra gambe troppo lunghe e gabbie toraciche che dolgono per il fiatone e la paura, tra cervello in confusione e stomaco in subbuglio, con il cuore accelerato e il fiatone a cavallo tra una corsa e l’amore.
All’inizio, bisogna ammetterlo, il corpo è un luogo in cui non siamo mai stati. All’inizio, nel corpo tocca muoversi come farebbe un esploratore, tentando, lasciandosi guidare dalla curiosità e dalla fame, sbagliando e tornando indietro più volte prima di proseguire. All’inizio, il corpo è un’esperienza pionieristica in un territorio sconosciuto di cui a malapena si conosce l’estensione, ma che si ha la straordinaria occasione di visitare e percorrere dall’interno e in solitaria, raccogliendo informazioni sparse, talvolta grezze e materiche, provenienti da ogni dove: una messe personale e sconvolgente, che può apparire disarticolata, casuale, priva di direzione. E non è difficile immaginare – o ricordare – come questo andar vagando conduca con sé una certa dose di disorientamento che l’albo Dentro me cosa c’è? riesce a cogliere con grande sensibilità.
Innanzitutto le immagini: le tavole raccolgono il concetto di corpo come spazio e lo traducono in territorio occupato da piante e forme incomprensibili, braccia che si allungano simili a strade, funghi e arborescenze multicolori, boschi, stelle e pianeti. Una cartografia primaticcia fatta di pezzi e frammenti che la pagina non può delimitare, bagliori di consapevolezza che si accendono in modo subitaneo e altrettanto velocemente si spengono. Ogni esperienza è collocata nella cornice definita del qui e ora tipico del tempo dell’infanzia o meglio, dell’esperienza esplorativa in territori sconosciuti, quando si è ancora incapaci di collocare le singole scoperte in un sistema organico più esteso.
E poi c’è il testo. Non prova nemmeno a costruire una trama continua: si avvicina al corpo, poi se ne allontana, poi ci ricade dentro di colpo.
Funziona per immersioni brevi, quasi a strappi. Registra ciò che succede, mette in fila sensazioni, domande, piccole rivelazioni. Così prende velocità emotiva, una sorta di vertigine che è il ritmo stesso di chi sta facendo esperienza per la prima volta: uno spaesamento ancora abbagliato dalla contingenza.
Infine, il tema. Con la leggerezza esplosiva concessa dal linguaggio poetico, questo albo si permette di avvicinarsi a una questione delicata, di difficile nominazione. Il corpo non è solo un luogo intimo e segreto di unica pertinenza del singolo, ma anche una sostanza concreta e tangibile con cui quotidianamente ci presentiamo al mondo, dove siamo immersi in un contesto sociale e culturale che ha diretto controllo sulla legittimità e sul valore del modo in cui viviamo e nominiamo le cose. E tocca fare i conti con quello che gli altri vedono di noi.
L’albo porta a galla con levità la questione del pervasivo e viscoso racconto che viene elaborato sul corpo dall’esterno, dagli altri, soffermandosi sui territori del fastidio, del disgusto e della sgradevolezza, sulle puzze e gli odori, sui gesti proibiti, quelli che non si fanno in pubblico pena essere considerati maleducati, inaccettabili, non corrispondenti a un modello, in altre parole, mostruosi.
Il fastidio del maglione sulla pelle, la fame che acceca, l'ebbrezza disgustosa delle dita nel naso, il parrucchiere che tira e strattona i capelli fino a trasformare il senso dell’identità. Si tratta di emozioni che mal tollerano anche i grandi, trasformazioni che non smettono di sbalordire, gesti esplorativi normati e contingentati dalla buona educazione, atti riprovevoli che vengono comunque praticati dai bambini in una zona liminare di esperienza da cui si viene distolti. Tuttavia, passando attraverso i territori del fastidio, mettendoli in scena, scardinandoli dall’innominabilità, le due autrici suggeriscono la possibilità di un contatto più profondo con l’immanenza del corpo, fatto di tenero realismo, perché se è vero che è di un luogo che stiamo parlando, allora è solo accogliendo tutti gli scorci, anche quelli meno interessanti, che possiamo pensare di vederne l’interezza.
E questa è una cosa che fa bene a tutti.
Giorgia
“Dentro me cosa c’è?” Daniela Carucci, Giulia Pastorino, Terre di Mezzo 2022









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