IN BILICO SULLA MEZZALUNA
La ricetta della
strafelicità, Matteo Razzini, Alessandro Ferraro
(trad. del
testo in inglese Sylvia A. Notini)
Corsiero editore 2018
ILLUSTRATI PER MEDI
(dai 7 anni)
"L'estate era
il periodo dell'anno che Michele amava di più, perché poteva
passare molto tempo da solo con la nonna Isa: la sua gioia più
grande era di vederle cucinare la strafelicità. La nonna la
preparava seguendo una ricetta segretissima, che custodiva
gelosamente tra le pagine di un quaderno a quadretti.
'Un pomo d'amore
sopra al tagliere:
trita, sminuzza, poi
stallo a sentire;
La voce suadente
induce al pianto
che infine fiorisce
e diventa incanto!'"
Comincia
così la ricetta della strafelicità. Occorre pesare la gioia e il
ricordo di un succo d'arancia, aggiungere il burro alla nebbia e, tra
vulcani di farina che covano uova, tutto si mescola con il cielo
azzurro. È una ricetta che mischia ingredienti comuni a ricordi,
sensazioni, emozioni e odori. Ma come tutte le ricette per cui valga
la pena, deve passare di mano in mano. La nonna lo sa bene e la
custodisce fino al giorno in cui il signor Lafine, avvolto nel suo
grande mantello, con quella testolina scheletrica, la porta via con
sé. '...ma tu continua a cucinare la strafelicità'...
In
un inseguimento che ha il sapore del sogno, Michele attraversa grandi
spazi, incontra mille cuochi e una giovane donna che lo riporta al
punto di partenza, la casa della nonna Isa e soprattutto al quaderno
a quadretti. Nelle sue pagine però non è segnato nessun
ingrediente: spetta a lui, che viene dopo, scriverla, la ricetta.
Ripercorrere
con la mente i sapori, gli odori, i giochi e il tempo passato con lei
guideranno la sua penna. E Michele, il bambino che era maldestro,
oggi è un cuoco al suo primo giorno di lavoro. In tasca, la ricetta
e una foto.
I
libri, come molti altri manufatti, hanno bisogno di precisi
ingredienti e di un po' di arte nel metterli assieme.
I
buoni libri nascono da buone ricette e da buone materie prime. Hanno
bisogno di un testo (non sempre), di figure (non sempre), di carta,
di colore, di cura e attenzione e di un buon cuoco che li sappia
dosare con sapienza.
Prendendo
in mano La ricetta della strafelicità,
ancora prima di aprirlo, ci si accorge che c'è qualcosa che ha a che
fare con l'equilibrio, ovvero con la labilità dello stesso: un
braccio di stadera da cui pende un donnone in altalena entra da
sinistra (da contrappeso in quarta di copertina c'è un ragazzino e
una mongolfiera che regge il tutto). Unica nota a colori, a parte
titolo ed editore, in un mare di grigio in cui caracollano bilance
tra mucchietti di farina che nascondono tuorli per l'impasto.
Ecco,
l'equilibro mi sembra una dote che una buona ricetta, così come un
buon libro devono avere.
Se
apriamo il libro, ancor prima del frontespizio, appare la pagina
della dedica, a Gianni De Conno, allagata in un cielo di notte, con
un ragazzino, di nuovo in bilico su un pomello di legno della
mezzaluna. L'anomalia è che non sia una pagina bianca, come spesso
succede. No, questa è la pagina della cura, ovvero quella che,
forse, Alessandro Ferraro ha composto pensando ai cieli notturni di
De Conno, oppure che l'editore ha voluto ricreare in vitro proprio
qui per permettere a chi legge di fare un grande respiro silenzioso
prima di oltrepassare la soglia che lo porti alla storia.
Comunque
sia andata, la cura e l'attenzione sono lì, palpabili, nella carta
uso mano che ti senti tra le dita, nei colori pastosi e tenui, nelle
ombre ripassate a tratteggio. Nella legatura cucita. Stiamo entrando
in un libro di altri tempi, in cui il tempo per la cura del dettaglio
è valore in sé. Continua il gioco di equilibri che Ferraro immagina
per il testo di Matteo Razzini, a sua volta oscillante tra prosa e
poesia. Anche il bambino Michele, d'altronde, è uno che rovescia
ogni cosa, non ne combina mai una per dritto. Nulla, o ben poco, in
questo libro è perfettamente dritto. L'instabilità è nei castelli
di oggetti che Ferraro gli fa costruire e nella corsa verso la pagina
che segue. Tutto oscilla, tutto si muove e va avanti. A questo si
aggiunge lo stupore per gli oggetti, i moltissimi oggetti, messi in
scena: diventano grandi, si personificano e si animano, camminano
anche loro e vanno.
Cambia
sempre la visuale, lo spazio tra testo e immagine: spesso tavole a
piena pagina in cui Ferraro inventa un mondo tra la metafisica e il
surrealismo, e, mi pare, ricordi un maestro di molti, Tullio
Pericoli. Si sovvertono le proporzioni, si apprezzano i panorami
aperti verso un grande orizzonte, si gode l'invenzione che fa
viaggiare sull'acqua padelle come piroscafi, che trasforma i cuochi
in Pulcinella giganti dalle maschere nere naso-beccute.
E
su tutto si diffonde l'aroma del caffè appena fatto. Mentre questo
accade davanti al nostro sguardo, il testo va avanti a raccontare,
quasi si potrebbe dire, a cantare tanto la voce deve rimanere alta
nella lettura. Questo è il merito di Matteo Razzini: quello di
immaginare un testo nella sua oralità e di riportarlo, qui con una
qual sapienza, sulla pagina scritta. A lui vanno anche riconosciuti
due altri meriti: di aver saputo mescolare cose anche molto diverse e
di aver dato un 'tono sempre in bilico' alla storia che passa per il
sogno, l'assurdo, l'emotività e che nei disegni trova una
meravigliosa quanto originale interpretazione.
Carla
Noterella
al margine. Del tutto inspiegabilmente, Matteo Razzini ripone in me
grande fiducia e stima. In nome di questa responsabilità, devo ammettere che nel testo, a mio personalissimo parere, ci sono
sei righe di troppo: come al solito, le ultime. Per la precisione sole
ventitré parole che sono lì a spiegare tutto ma proprio tutto e a
rimettere in ordine ciò che era rimasto, meravigliosamente, in
sospeso.
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