L’ODORE DEL FERRO
Non è proprio recentissimo, ma forse
proprio per questo mi piace ripescarlo fra le belle uscite editoriali
di quest’anno: sto parlando di ‘La prima cosa fu l’odore del
ferro’, racconto scritto e illustrato da Sonia Maria Luce
Possentini, che Rrose Selavy pubblica con una introduzione di
Maurizio Landini.
Racconta i tre anni che l’autrice ha
passato lavorando in una fonderia nell’Emilia fra pianura e
Appennino; esperienza che non ci si aspetterebbe nella biografia di
una delle più brave e premiate illustratrici italiane. Ma per
necessità e per curiosità, ha dovuto imparare la dura realtà della
fabbrica, i suoi ritmi totalizzanti, entrare e uscire col buio; gli
odori, quello del ferro su tutto, che si stampa sulla pelle e
impregna ogni oggetto della fabbrica; la solidarietà e la distanza
dagli altri operai, tutti maschi, la vita comune e l’alterità.
Tre anni sono lunghi, se son fatti di
buio e di fatica, di odori persistenti e di ritmi sempre uguali,
senza comprendere se quella è proprio la strada giusta.
La nonna, la persona che maggiormente
la comprende, le dice che bisogna saper fare tutto e imparare da ogni
esperienza, essere pronti ai casi della vita e lo dice a ragion
veduta, lei che ha visto due guerre, momenti buoni e momenti tragici.
Imparare a fare tutto, anche quello che non piace, anche quello che
non appartiene al futuro, come suggeriscono i sogni e le fantasie che
strenuamente resistono.
Poi arriva il messaggero di speranza,
un cane nero che gironzola intorno alla fabbrica e che con Sonia
instaura subito un rapporto di complicità: lui che si accuccia
vicino agli scarponi da lavoro, che si fa abbracciare e alla fine
indica la via di una nuova vita.
Cosa mi ha colpito di questo libro: in
primo luogo, il racconto onesto, in presa diretta, del lavoro di
fabbrica, del lavoro manuale, della sua fatica, dei suoi odori, della
sua etica; poche cose uniscono più del lavoro, del lavorare insieme,
il condividere ogni giorno la pesantezza materiale e quella del
comando, la gerarchia spersonalizzante. E vediamo ogni giorno
l’effetto del disperdersi di questa etica del lavoro, del
difendersi tutti insieme e del lavorare onestamente.
In secondo luogo, ho trovato efficace
la rappresentazione di una scelta di vita non facile: la vita in una
fabbrica dal lavoro durissimo non è cosa da ragazze e misurarsi con
questo non è poca cosa; misurare le proprie capacità, la propria
resistenza, la distanza e la vicinanza con gli altri operai. Cosa si
è disposti a fare per sopravvivere, quali prove si è in grado di
affrontare senza dimenticare i propri sogni, per quanto ancora vaghi.
C’è poi la presenza di questo cane
nero, che diventa suo malgrado il grimaldello per cambiare vita,
voltare le spalle per sempre al mondo della fabbrica e cominciare una
nuova avventura. Bella la sintonia fra i due, entrambi sottoposti al
comando, entrambi desiderosi di fuga. In fondo, sono poche le parole
dedicate a questo incontro, ma rendono alla perfezione il parlarsi
senza parole, il condividere il richiamo del profumo del vento e del
guardare lontano.
Questo racconto è materiale
incandescente, proprio perché parla di vita vera, di un’esperienza
forte ed è reso da immagini in cui domina il grigio, un grigio
sporco, con pochi tratti di bruno, che evoca l’ambiente della
fabbrica e il suo odore. Immagini nello stile della Possentini, che
alludono e descrivono, creano atmosfere che più di tante parole
restituiscono l’idea di fatica e di sporco, di sudore e stanchezza,
fino al colore, chiaro, che si intravede sul finale.
Proprio perché è un racconto onesto,
capace di rara sintesi e del tutto alieno alla retorica, non è
pensato per i bambini e le bambine; ma lo userei per raccontare loro,
e ai ragazzi e alle ragazze più grandi, un’esperienza di vita che
ha molto da insegnare sul lavoro e le sue leggi, sul comando, che
significa dover obbedire a una logica e un ritmo estranei.
C’è un
grande bisogno di aderire anche alla realtà e alla sua durezza.
Eleonora
“La prima cosa fu l’odore del
ferro”, S.M.L. Possentini, Rrose Selavy 2018
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