RARO COME UNA BRAMEA
Aiaccio, Biagio Russo,
Daniela Pareschi
Lavieri 2018
ILLUSTRATI PER MEDI
(dai 7 anni)
"Aiaccio,
questo il suo nome d'arte, non era più giovanissimo. Non era nato
per far ridere. Aveva iniziato come giocoliere, quindi funambolo, poi
trapezista. Non era un semplice acrobata, ma un angelo a cui
mancavano solo le ali. Con la rete o senza rete. Era davvero bravo.
Anzi di più."
Il
suo vero nome era Angel. Adesso invece, Aiaccio il pagliaccio. Manca
poco alla fine del suo numero in pista, sotto il tendone del circo
Aladin. Uno schiaffo del vento, un tappeto messo male e Aiaccio
finisce a terra: tutto il pubblico, a vederlo steso a gambe e braccia
divaricate da una ventata atterrare con il faccione sulla cacca
dell'elefante Menelik, ride così tanto da far gonfiare il tetto spiovente.
Che
cosa aveva trasformato il bravissimo acrobata Angel in un pagliaccio
goffo per le scarpe grandi? Un incontro. Era arrivata in un giorno di
giugno ed era bella, scura e gitana. Gli aveva messo il volto
nell'incavo del collo e non lo aveva più tolto fino al momento del
bacio. Quella mattina all'alba, Gipsy aveva volteggiato al trapezio
più alto, leggera come una rara bramea. Angel, sulla pista, la
ammirava. E poi la vide precipitare.
Angel va in mille pezzi e quando
finalmente ritrova la forza di rimettere assieme le parti della sua
vita, di Gipsy non sa più nulla. Con lei se ne è andata la
leggerezza del volo e la felicità. Angel dimentica il trapezio e
finisce in pista con il naso rosso di spugna: un pagliaccio triste.
Il tempo passa. Spettacolo dopo spettacolo il pagliaccio Aiaccio fa
ridere il pubblico. E oggi, con quella caduta, ancora di più. Solo
una persona non si unisce al coro di risa. E ora è lì, a terra, a
pulirgli il viso rugoso imbrattato di cacca di Menelik e a offrirgli
un braccio per rialzarsi. Quando i loro sguardi si incrociano, il
cuore stanco di Aiaccio parte a martello. Li hanno visti allontanarsi
e sparire per non tornare più.
C'è
chi dice che questa storia non sia vera, ma sarebbe una sciocchezza
non crederci.
È
la storia di una caduta di creature bellissime e fragili. Una caduta
che ha una sua nemesi.
È
anche una storia di circo che racconta se stesso, un mondo a parte in
cui a gioia e meraviglia si alternano malinconia e solitudine. Dal
più piccolo circo familiare itinerante che si sposta a dorso di
asinello per la Francia del sud al grande spettacolo del Cirque du
soleil, il circo è un luogo altro, un tempo e uno spazio sospesi. E
anche il circo Aladin non fa eccezione.
Se
così è, nascoste sotto la superficie di una bella e struggente
storia d'amore nata in un carrozzone, in questo libro è possibile
cogliere anche altre verità sotterranee, espresse attraverso la
lingua universale della metafora. Esse emergono lentamente e
attraverso parole e immagini: il cuore diventa catino che si riempie
di acqua, ma anche batte a martello come una campana; la panchina è
lo sgangherato luogo di incontro e di partenza di solitudini per
antonomasia; la bramea è icona di fragile e raro e la mangusta di
istinto selvatico. L'elefante, alla testa degli altri animali del
circo, muti testimoni, incarna la consapevolezza di chi sa di sapere.
E ancora il volo, con la sua fase aerea e la sua caduta e la sua
ripartenza, è archetipo per eccellenza dell'esistenza.
Massimamente
le ali, quelle che Daniela Pareschi disegna ovunque, sono
contemporaneamente simbolo di leggerezza, ma anche malinconico resto
di una vita trascorsa, nel costume di scena di Aiaccio.
Usare
la metafora per raccontare storie è cosa buona e giusta, ma non è
cosa semplice che tutti sanno praticare. Quello che si verifica qui
però è qualcosa di ulteriore: che ha a che fare con la rarità
della bellezza.
Almeno
tre sono le cose belle: la lingua parlata, la lingua illustrata, e il
loro dialogo armonico. Biagio Russo ha il coraggio di alzare il tiro
e di attingere a un vocabolario oscuro ai più piccoli ed evocativo
per i più grandi. Forse è consapevole del fatto che non sempre
tutto deve essere spiegato e che le parole possono essere terreno di
scoperta e poi di conquista, pagina dopo pagina, libro dopo libro.
Daniela Pareschi costruisce le sue architetture leggere dentro cui il
lettore si infila a guardare. Tende che si alzano, ombre che si
muovono, che creano suggestioni molto forti. Gioca sapientemente con
il testo, amplificando le metafore, dando loro forma concreta. Gioca
sulle scale dimensionali così come su prospettive e inquadrature
sempre diverse, in un'ottica vicina a quella cinematografica. La
testa del clown a terra ne è un eloquente esempio.
La
terza bellezza sta nel dialogo tra testo e immagini. Laddove il primo
tace, si insinua il secondo e comincia a raccontare, ma lo fa - ed è
qui la rarità - con lo stesso tono di voce: quello poetico.
Carla
Nessun commento:
Posta un commento