venerdì 28 giugno 2019

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


DI ANATROCCOLI BELLI (I)

Il brutto anatroccolo, H.Ch. Andersen, Veronica Ruffato
Zoolibri 2018



ILLUSTRATI PER MEDI (dai 6 anni)

"Che estate quell'estate!
Il grano dorato, l'avena verde, il fieno tagliato e imballato: tutto risplendeva.
Folti boschi circondavano i campi nascondendo specchi d'acqua calmi e profondi. Una vecchia cascina battuta dal sole spiccava, contornata da un ampio fiume.
Tra le sue mura e il corso d'acqua crescevano foglie di cavolaccio così alte che i bambini potevano nascondersi all'ombra delle più grandi.
In quel luogo isolato e protetto un'anatra covava il suo nido, in attesa della schiusa.
Covare richiedeva tempo e pazienza."

Questo è l'incipit, lievemente riveduto e adattato (è sparita la cicogna che biascica egiziano) della fiaba di Andersen, Il brutto anatroccolo.
Come la vicenda va avanti è noto a tutti. L'uovo che richiede la cova più lunga contiene un pulcino più grosso degli altri, decisamente sgraziato agli occhi degli animali del pollaio, dove mamma Anatra orgogliosa, ha appena portato in parata i suoi piccoli. 


E' un drago nel nuoto, quindi è escluso si tratti di giovane tacchino, tuttavia tutti pensano sia un intruso e come tale da tenere a distanza. E anche di mala grazia.
Lui fugge convinto di essere uno scarto e come tale si comporta per tutto il tempo che girovaga, dalla palude, alla casa della vecchia o a quella del contadino che lo salva dal ghiaccio del lago in inverno. Perennemente maltrattato, il brutto anatroccolo, che nel frattempo è cresciuto, è ormai convinto della propria bruttezza e del fatto che al mondo non ci sia posto per lui. Solo una volta nella sua vita aveva sentito un tepore nel cuore quando, al sopraggiungere del freddo, aveva visto uno stormo di cigni volare nel cielo diretti verso territori più caldi.
Ma per lui tutto cambia allo sciogliersi del ghiaccio delle acque che diventano specchio: al brutto anatroccolo capita di vedersi riflesso e quindi capire finalmente chi lui sia. A seguire, un coro unanime di persone che lo acclamano, per la sua bellezza. A chiudere, la felicità fino a quel momento mai provata!

Le fiabe sono terreno adatto all'esercizio. Le fiabe portano con sé un immaginario ben costruito, solido e soprattutto condiviso e diffuso e nel contempo, proprio perché illustrate già da moltissimi, sono luogo favorevole alla sperimentazione e all'interpretazione di detto immaginario. 


Fabian Negrin, che di fiabe se ne intende parecchio, parlando delle sue illustrazioni per le diverse collane di Donzelli, afferma che uno dei suoi obiettivi è proprio quello di andare in cerca di aree inesplorate tra le pieghe del racconto, in modo da garantirsi una visione originale rispetto a chi come illustratore lo ha preceduto sul medesimo terreno.
E dato che Negrin è Negrin, una delle sue maggiori abilità sta proprio nel aver saputo trovare chiavi di lettura e risvolti inediti che abbiano sempre qualcosa di nuovo da aggiungere a una storia vecchia di secoli.
Le fiabe però sono anche altro, ovvero sono terreno ideale per giovani illustratori, a patto che questi abbiano dalla loro una buona capacità interpretativa e un poco di coraggio.
Tuttavia in caso diverso, alla robustezza del testo poco potranno nuocere.
Qui con Veronica Ruffato siamo davanti a un ottimo esempio di talento all'opera su un materiale che ovviamente vanta precedenti illustrissimi.
E la giovane illustratrice, presumibilmente come lavoro di conclusione del suo Master a Macerata nell'ambito di Ars in Fabula, è chiamata a illustrare una delle fiabe più universali nella sua attualità.
E come lo fa? Dimostrando sostanzialmente tre cose: una buona dose di coraggio nell'invenzione, un indiscusso talento nel disegno e nella composizione, una grande sensibilità nel cogliere il nocciolo della questione.


L'invenzione. Il suo coraggio sta nell'essere riuscita a infilarsi nelle maglie di un contesto preciso: la campagna con le sue fattorie, le sue case di contadini, i suoi stagni e laghetti attraversati dalle stagioni danesi. Un gran freddo e un gran ghiaccio. Andersen descrive i luoghi con un certo gusto per il dettaglio: lo stesso incipit è costruito sul colore di quella estate e di quell'angolo tranquillo di Danimarca. Lo stesso fa in seguito: "fra i rami degli alberi protesi sopra i giunchi; il fumo azzurrino passava come nuvola tra gli alberi scuri e restava a lungo sospeso sull'acqua; nel fango comparvero i cani da caccia..." oppure "si trovò in un grande giardino, dove i meli erano in fiore e i cespugli di lillà odoravano e piegavano i lunghi rami verdi fino all'acqua del canale serpeggiante."
Veronica Ruffato di tutto questo decide di cogliere solo alcuni aspetti, citandoli, ma costruisce un contesto originale per allontanarsi dal rischio di essere didascalica.


Gli animali non sono solo quelli da cortile, ma un variegato quanto unico 'corpo vivo', da cui escono tigri, tucani, pappagalli, fenicotteri, manguste e anche un piccolo dinosauro (giocattolo). Questa idea di mettere insieme in un unico oggetto scenico, tante forme e corpi diversi che si incastrano tra loro come i pezzi di un puzzle, mi ricorda esempi illustri come alcune magnifiche pagine di Carll Cneut (non ultimo nella scelta di 'tagliarli' con il taglio della pagina). 


Veronica Ruffato per tenere su questa grande 'macchina scenica' ha bisogno di una architettura in cui collocarla e lo fa continuando a giocare, inserendo una torre rovescia composta di elementi sempre più grandi e sempre più pesanti, sfidando ogni legge della fisica: si parte da un castello di carte alla base per arrivare a un cassettone di legno al vertice. Usa una paletta di colori ristretta che sembra più fedele alla Venezia del tardo Cinquecento che non alla realtà danese, pur rispettando i blu e i verdi scuri delle acque fredde.
La palude in cui incappa l'anatrino si trasforma in una giungla percorsa da una improbabile battuta di caccia, ma già nella pagina successiva il grande muso di cane sbuca 'fedelmente' tra le canne di bambù.
Il talento. Della composizione in qualche modo si è già detto nella sua capacità di muoversi all'interno della pagina, non sentendola mai come una gabbia, quanto piuttosto potenziandone i limiti. È brava nell'alternanza tra vuoto e pieno, tra minuscolo e grande, tra bianco e colore. E sa disegnare molto bene perché nel suo segno si riconosce la sicurezza necessaria per poter 'deformare' i profili originali, rendendoli grotteschi. Anche in questo caso si permette la libertà di giocare con i suoi lettori. E a proposito di gioco sa essere ironica, punteggiando sempre le tavole di dettagli extravaganti, compreso il disegno del mio adoratissimo uccellino oscillante dalla pancia di vetro e dal becco di spugna e di un soldatino danese con la sua giubba rossa e la bandoliera bianca incrociata e il tipico colbacco di pelo (lo conservo ancora dall'infanzia).
La sensibilità. E sto alludendo principalmente alla costruzione di un personaggio che deve avere alcune caratteristiche imprescindibili: deve essere sgraziato, ma nello stesso tempo deve ispirare tenerezza. Deve essere buffo, ma nello stesso tempo evitato da tutti. Deve avere le caratteristiche di un cucciolo.


Il suo anatroccolo ha zampe e becco sproporzionati (e collo forte!) si muove sempre ai margini del foglio. Parte a testa in giù per poi attraversare in lungo e in largo le pagine. Lui è l'unico a non avere colore, o meglio ad avere un colore che lo ricopre da capo a piedi, grigio bluastro, colore che mantiene anche a metamorfosi avvenuta. Un po' come a voler ribadire che ciascuno di noi è il risultato del proprio passato.


Noterelle a matita punteggiano le tavole (come se fossero disegni ancora in via di definizione) e fanno riferimento a l suo immaginario cinematografico (si direbbe una vera passione). Diversi dettagli sono lì a ricordarci altre fiabe di Andersen.
Tutto questo contribuisce a fare di Veronica Ruffato una illustratrice di talento e sperabilmente in ascesa, ma anche a dare qualità e originalità a questa bella edizione della fiaba classica più autobiografica che sia mai stata scritta.


Carla

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