DELLA SOGNANZA
La bambina di
ghiaccio e altre fiabe,
Mila Pavićević, Daniela Iride Murgia (trad. Elisa Copetti)
Camelozampa, 2019
NARRATIVA PER MEDI (dai
7 anni)
"Un tempo,
quando la gente credeva ancora alle fiabe ed elfi e fate percorrevano
la terra, si narrava la storia di una maschera di legno. La leggenda
viveva assai comodamente nelle chiacchiere di nani, maghe e draghi,
perché era molto semplice. Infatti diceva così..."
Un
re possedeva una maschera di legno, a dire il vero piuttosto brutta,
che tuttavia lo rendeva ogni giorno più ricco. Come spesso accade,
la ricchezza si sposa molto volentieri con l'avidità e così quel
re, oltre essere diventato disgustosamente ricco, era anche diventato
a tal punto avido che la sorellanza delle fate decise di punirlo,
sottraendogli ricchezze e maschera. Quest'ultima, viste le sue doti,
fu cercata da tutti ma a trovarla fu uno che dei suoi poteri magici
nulla sapeva: il principe Giorno la vide che galleggiava lungo un
fiume verde. Il giovane principe, incuriosito dalla forma di
quell'oggetto, lo prese e lo conservò nel suo castello. Quando suo
padre si ammalò gravemente, il principe in sogno seppe che proprio
quella testa di legno era l'unico rimedio utile per guarirlo. Niente
di più facile, andarla a prendere nella sua stanza, a patto che il
fato non abbia deciso una sorte diversa per quella brutta testa di
legno.
Questa
è una delle tredici fiabe, forse la più 'fiaba' di tutte, che
compongono questo piccolo libro Camelozampa che dimostra fin da
subito di contenere più di una manciata di elementi inconsueti.
E
dove c'è rarità e particolarità è buona norma dimostrarsi
interessati.
Tra
i molteplici elementi di originalità due spiccano più degli altri
e, a ben vedere, sono anche in buona armonia e dialogo fra loro:
sembrerebbe che la lingua parlata e quella disegnata condividano lo
stesso timbro di voce.
Esso
si caratterizza per un'ampiezza 'vocale' che al suo interno è in
grado, è capace, di contenere l'antico e il contemporaneo senza
alcuna contraddizione, senza alcuna stonatura.
Sempre con più di una
sfumatura di ironia.
Mila
Pavićević è poco più che trentenne e questo ha un'eco forte nella
costruzione delle sue fiabe, con le quali ha vinto già nel 2009 un
prestigioso premio. Sia che si occupi di danza e coreografia a
Berlino, sia che insegni, o abbia semplicemente studiato, letteratura
comparata a Zagabria poco cambia riguardo alla suo modo di trattare
il canone classico. Il primo dato di fatto è che lo conosce
profondamente. A tal punto da potersi permettere ogni poche righe
digressioni continue per poi rientrarvi in modalità di assoluto
rispetto.
In
tal modo ai sovrani e all'aristocrazia si sostituiscono gli statisti
e le fate sono femministe o dark. Nello stesso modo gioca con una
nomenclatura allusiva, Giorno, Oscura, Bianco, Nocti, Veglia e
attinge a un immaginario che valica i confini già ampi di quello
delle fiabe: senza tema inserisce cavallette e cerberi e clown. Per
ogni fiaba costruisce, forse sulla scia delle città calviniane,
universi a sé stanti, toponomastiche e usanze tutte nuove.
Tutti
questi continui riverberi letterari e queste invenzioni/incursioni
nel contemporaneo non possono che giovare a chi le legge, queste
fiabe. Sono frequenti campanellini che tintinnano nelle teste degli
adulti lettori un po' accorti e in quelle di bambini e bambine che
hanno voglia di farsi sorprendere e di sorridere per la delicata
ironia.
Fiabe
così funzionano da antidoto nei confronti di quelle altre pericolose
derive che invece si dirigono verso stereotipi da film di cassetta.
Mettere
a fianco di racconti del genere il repertorio figurativo di Daniela
Iride Murgia, e ancor di più l'immaginario che lo alimenta, è
stata proprio una bella idea (bel salto di qualità, se si guarda la
prima edizione della casa editrice croata datata 2006). Perché anche
lei, come si accennava all'inizio, nelle sue 'incisioni' stabilisce
lo stesso rapporto con il canone e la contemporaneità e quindi anche
lei si diverte ad attraversare il tempo, come se nulla fosse.
Come
accade quasi sempre nel soffermarsi a guardare le sue complesse
'architetture' visive, o le sue intricate botaniche, ci si perde, ovvero lo sguardo è soggetto a
un continuo canto di sirene che ti porta altrove, che ti solletica la
memoria di cose già viste, che da un lato ti confonde, ma
dall'altro ti rassicura nel suo essere 'classico', ovvero conosciuto
e condiviso (magari anche solo inconsapevolmente).
E
tutto questo esercizio di sguardo che senso ha per gli occhi di
bambini? Che ne sanno loro dell'equilibrio tra le
parti di un corpo umano, o della facciata a vela con il suo campanile
romanico o della dama da café chantant? La risposta è molto
semplice: tutto questo contribuisce a educarli (o per i 'più
ideologici' ad abituarli) al bello.
Non
è poco.
Carla
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