L'indovinello della tigre, Fabian Negrin
Edizioni Corsare 2022
ILLUSTRATI PER MEDI (dai 6 anni)
" 'Guardate i miei occhi può uno così bello essere cattivo?' chiese la tigre.
'Suvvia candide pecorelle, vi sporcherete tutte lì dentro.'
La pecora più vicina all'entrata guardando gli occhi della belva le domandò:
'Ma se noi usciamo, bellissima tigre, non è che poi ci mangi?'
'Mangiarvi? Io? Come potete pensare una cosa simile?' 'A chi mai può venire in mente una tale cattiveria?' si lamentò la tigre offesa.
Commossa, la pecora uscì per consolarla ma appena fuori la tigre la divorò."
Un gregge di pecore è nascosto all'interno di una miniera di carbone. All'entrata, troppo angusta per permetterle di entrare, c'è una tigre affamata. Il solo modo che ha per arrivare alle pecore è quello di convincerle a uscire da lì. Le pecore, seppure molto impaurite dalla presenza della belva, credono sempre alle sue parole, alle sue lusinghe. Il terrore sembra coglierle solo nel momento in cui la tigre le divora, una dopo l'altra: dal buio della miniera vedono quello che accade alla luce del sole. Ma sembra non essere sufficiente.
Se la prima volta, a sentire la tigre, si è trattato di un malaugurato errore, la seconda morte è stata piuttosto un'illusione ottica, un miraggio.
Poi arriva l'indovinello.
In tutta onestà sono davvero pochi coloro che a un indovinello riescono a resistere. Le pecore non fanno eccezione.
Un indovinello un po' in rima e un po' no che parla di sassolini, di lumache chiuse in casa, di cagnolini di guardia e di un topo con un sacco, di aragoste, di insalata e anche di un'amatissima crostata.
Via via le pecore tentano con le loro risposte, ma i continui errori costano loro molto caro. Fino al momento in cui la più sagace del gregge dà la risposta esatta.
Il fatto è che la tigre ancora una volta non sa resistere e la mangia in un amen, salvo poi scusarsi per essersi distratta.
La sequenza di abboccamenti della tigre non ha fine fino a sera, l'ora dell'ultima vittima. Satolla, a fine giornata, nell'abbeverarsi allo stagno, trova il suo destino. Fatale.
Gli occhi della tigre e lo sguardo di Negrin. Ammalianti i primi, leale il secondo.
Tanto la tigre è determinata ad arrivare con ogni mezzo possibile, quindi anche la più bieca disonestà, a ottenere il suo scopo, tanto Fabian Negrin si dimostra determinato a essere onesto nel raccontare la natura delle cose.
A costo di apparire scomodo, posizione per lui spesso confortevole, racconta qui - secondo il canone della favola - la natura di un animale, ma nello stesso tempo la natura di certa umanità.
Sull'istinto di una tigre affamata non c'è bisogno di aggiungere molto. Nessuna commozione nei confronti del suo pranzo. Lo dice bene il 'proverbio islandese' che apre il libro: La tigre non ha un interruttore per spegnerla quando ci fa comodo...
La tigre è tigre e fa la tigre. La sua furbizia è nella sua fame. Non ci sono distinguo da fare.
Tuttavia, come in ogni favola, dietro quella tigre, dietro quelle parole seducenti e spesso bugiarde, si nasconde il potere, ossia la protervia di tutta quell'umanità scaltra che la esercita nei confronti dei più deboli, dei più ingenui, degli inermi.
La furbizia, il ricorrere all'inganno, l'eloquio che confonde, sono tutti strumenti per arrivare al proprio obiettivo senza tenere conto di una complessità maggiore, senza considerare l'altro da sé.
In sostanza, la furbizia della tigre sta nel cercare di soddisfare il suo più impellente e primario bisogno, senza curarsi troppo delle conseguenze.
In questo senso, la tigre della favola che Negrin inventa dimostra a tutti la sua furbizia, ma non la sua intelligenza.
Nessuno è perfetto.
Ci sta quindi che lui per lei progetti quel finale senza scampo. E a ulteriore conferma porta in salvo, in extremis, anche le pecore che come unica colpa hanno avuto quella di essersi fidate.
E dalla favola si arriva a un finale da fiaba. Ma questa è un'altra questione.
Negrin ha molte espressioni, che si riconoscono diverse nei suoi tanti libri. Ma su una cosa dimostra di essere fortunatamente uguale a se stesso: coraggioso nel dire la verità. In questo senso, ha saputo mettere in crisi intere schiere di adulti disegnando le loro debolezze, i loro limiti e la loro estraneità patente nei confronti dell'infanzia. Di questa, invece, ha saputo vedere il coraggio e l'intraprendenza e la capacità immaginativa e una salvifica, quando consapevolmente esercitata, estraneità al mondo dei grandi.
Di un genere a lui congeniale, la fiaba, ha sempre saputo e voluto rappresentare il lato 'oscuro', spesso inquietante, affilato e tagliente, proprio quell'aspetto che dall'inizio dei tempi ce l'ha resa necessaria.
Negrin fa una scelta molto netta di campo.
Altrettanto si può dire che faccia sul versante visivo. Un sottile ma tenace filo sembra tenere insieme questo libro a un altro di qualche anno fa, apprezzato mai abbastanza, La lingua in fiamme (2014) poesie e nonsense che sarebbero piaciuti ad Edward Lear.
Qui come lì parrebbero vicine le scelte compositive, la tecnica (forse), la sintesi del tratto, la scelta di un colore guida, qui qualcosa come un pantone blu petrolio (mentre all'indovinello e ai risguardi è la carta a diventare verde e il disegno bianco) là invece le fiamme pretendevano il rosso.
La grande qualità del disegno è evidente, in quella tigre che prende mille pose diverse, in perenne movimento, che quasi scompare o esce di scena e poi ritorna in primo piano senza mai perdere la sua forza corporea di grande e possente felino, compresa l'eleganza nel giorno delle ipotetiche nozze.
Ma il suo talento irriverente è anche nella resa del vello delle spaurite pecore, linea ondivaga, ghirigoro continuo, un po' confuso, tremebondo ed esitante che si distingue dalle righe sicure e nette della spregiudicata tigre.
Carla
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