'LIFE IS BEAUTIFUL'
Farfariel, Il
libro di Micù, Pietro Albì
Uovonero 2018
NARRATIVA PER GRANDI
(dai 12 anni)
"La luna di
colpo si spostò, o forse si spostò la finestra colpita da uno
spiffero di vento, e Micù vide una figura nel vetro sporco; desiderò
per un lungo istante che quella cosa non fosse l'immagine riflessa di
sé stesso: c'era un bambino lì dentro, con gli occhi pieni di
lacrime.
Un bambino che
assomigliava a un ragnetto."
Ha 'gli occhi neri e
molli come quelli di un agnello' e tutti lo chiamano Micù ma nel
registro della chiesa di Canzano, al 2 luglio 1928, giorno della sua
nascita, è segnato come Domenico. A tre anni l'ha beccato la polio
che non gli ha mangiato il cervello, ma gli ha fatto la gamba destra
sottile e fiacca.
Zoppica, non può
correre e saltare. Ma è attaccato alla vita con forza.
Adesso di anni ne ha
quasi dieci e continua a essere gracile e molto basso di statura, il
più piccolo di tutti. Il suo corpo non cresce, ma la sua testa,
invece, funziona a meraviglia: è il primo della classe, nonostante
tutti lo prendano in giro chiamandolo Bagonghi.
Quando non è sui
compiti, il resto del tempo lo passa dietro al nonno Tatà, un omone
che parla lamericano, perché lui in Lamerica c'è stato veramente.
Quel ragnetto guarda con ammirazione e timore il padre, Pietro che,
al contrario di lui, è un altro gigante infaticabile nei campi del
padrone, Don Ottavio. Nella nonna e nella madre Micù cerca rifugio
quando è in fuga dai suoi incubi e dalla Spiritosa, la strega più
temuta di tutta Canzano.
Il libro di Micù
racconta la sua storia, che si intreccia con quella del suo paese e
dei suoi paesani. Come quasi tutte le storie è fatta di realtà e di
sogno, di vero e immaginato. E a raccontarla ci sono due voci: quella
di Pietro Albì e quella di Farfariel, 'diavolo comico', probabile
discendente della stirpe del Farfarello dantesco.
Robusto e denso, questo
libro di Micù.
Consistente nella
forma: è alto quasi tre dita, mancano poche pagine per arrivare a
trecento e di buon peso perché la carta è di pregio, come di pregio
è l'allestimento e la cura tipografica e iconografica, compresi alcuni vezzi
formali.
Se l'intento era quello
di apparire come un libro segnato dal tempo, l'obiettivo è stato
raggiunto.
Consistente nelle
immagini: un prologo e trentasei capitoli con trentasei titoli che si
aprono su trentasei foto cartolina, quasi tutte di un'Italia
contadina e periferica -l'Abruzzo- negli anni del fascismo imperante,
il 1938.
Una carrellata di
scenari desueti eppure evocativi.
Solido nella trama, che
si costruisce attraverso lo sguardo di Micù su una intera comunità,
la famiglia, la scuola, il paese, la campagna intorno.
Le relazioni, le storie
che tengono insieme i singoli personaggi sono il contesto in cui Micù
vive la sua infanzia e che in qualche misura determinano il suo modo
di stare al mondo.
Si tratta di un
racconto corale: un periodo storico, una terra di povera gente e di
signorotti, una società piena di conflitti e di ingiustizie e un
gruppo di personaggi magnifici e indimenticabili.
Densa è la scrittura:
perché a una voce principale, quella di Albì in verde, si
aggiungono chiose, cancellature e richiami in inchiostro rosso, che
sono la voce di Farfariel.
Mentre la voce di
Farfariel è comica, sempre in falsetto, e gioca con il lettore,
quella di Albì ha registri molto diversi.
Sa essere diretta nel
rigore della descrizione di molte crudezze raccontate nel dettaglio.
A un passo dal raggelante.
Sa essere profonda e
spesso severa. Di quel microcosmo, seppure lontano nel tempo e nello
spazio, racconta la quotidianità e, attraversandola, fa luce sul
Bene e sul Male che c'è nell'umanità, senza avere mai uno sguardo
pietoso o giudicante.
Canzano nel 1938 diventa così patrimonio che
riguarda tutti.
Ma sa essere anche
lieve e ironica, nell'uso di una lingua pastosa quanto originale,
frutto di un intreccio di dialetto (la lingua dei padri), inglese
(imparato in Lamerica e sdoganato in Abruzzo) e italiano (la lingua
di tutti).
Un lessico molto
interessante che offre spunto per riflessioni ulteriori sul senso del
comunicazione in termini anche più generali: sto pensando, per
esempio, alla costante 'interpretazione' di Micù del lamericano del
nonno. Geniale.
E ancora.
Questa densità e
profondità mi pare percepibile anche emotivamente, nella narrazione
di infanzie e vite difficili.
In primo luogo quella
di Micù, mite sognatore, che piano piano scopre il mondo e la sua durezza. Quel
ragnetto che nonostante tutto non vuole arrendersi alla sorte, pur rimanendo sempre
indietro di qualche passo, alla fine trova la forza di
opporsi a un destino cui il padre contadino sembra volerlo legare. 'La vita è bellissima, Tatà!'
Denso nel racconto
della realtà di un singolo che, nella sua potenza, sconfina
nell'universalità: sto pensando alla durezza del capitolo dedicato a
Bagonghi che, sebbene ancorato saldamente a un'epoca e a un contesto,
è di agghiacciante attualità per molti ragazzini e ragazzine, sopra
il metro e cinquanta.
Pastoso e di grande
impatto 'visivo', pur rimanendo su carta, il racconto del lato
immaginato, ovvero i sogni, ovvero gli incubi che si creano nella
testa di Micù.
Le pagine dedicate
all'orrore, cioè il racconto più strettamente connesso al Libro -
la luce che si fa nero e buio, il sogno che si trasforma in incubo,
la superficie che diventa sotterraneo - quelle pagine, in cui tutto
può accadere e puntualmente accade, sono preziose per i cultori del
genere.
Imputo ai miei quasi
sessant'anni l'essermi smarrita un paio volte in detti passaggi. Mi
sono data però un orientamento di massima nel pensare che il Libro,
intorno a cui molto del racconto ruota e che è oggetto di perenne
ricerca e ambito trofeo per alcuni, costituisca una sorta di bussola
in grado di orientare e quindi determinare il percorso di molti
destini.
Se le cose però non
dovessero essere proprio così, sia noto a tutti che vivo serenamente
nell'illusione che lo siano.
Un peccato non leggerlo.
Carla
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