IO NON SONO SOLTANTO (UN) CANE
Il cane dal cuore
giallo, o la storia dei contrari, Jutta Richter
(trad. Bice Rinaldi)
Beisler, 2019
NARRATIVA PER GRANDI
(dai 10 anni)
"È una porta
bella alta. La targa con su scritto D.O deve stare lì in cima. E una
cosa è certa: dove c'è una targa ci vive qualcuno, e se ci vive
qualcuno c'è qualcosa da mangiare. Come minimo c'è un bidone della
spazzatura. Come minimo. E infatti mi appoggio alla porta e non è
chiusa. Cigola un po'. Si apre una fessura. Mi ci infilo dentro e
sono nel giardino di D.O."
Così
racconta il cane parlante che i due fratelli, Lotta e Prinz Neumann,
stanno ospitando nel capanno degli attrezzi, fintanto che il nonno
Schulte è fuori. Il cane è nero, magro e con il pelo sporco. E
parla, non con tutti, ma solo con chi gli va a genio; conosce molte
lingue e ha girato parecchio; ha incontrato gente diversa e ha belle
storie da raccontare. La migliore, quella che racconta ai bambini, è
quella che lo ha portato da D.O, il grande inventore. Nel suo
giardino bellissimo, ha conosciuto la pace assoluta. In armonia con
gli altri animali e con la natura circostante, con il cielo sempre
sereno, ha passato la miglior parte della sua esistenza. In quel
giardino che tanto sembra un 'paradiso terrestre' -continua il suo
racconto - ha incontrato anche Lobkowitc, all'epoca collaboratore
stretto di D.O e suo interlocutore privilegiato per quel che riguarda
gli aspetti creativi che deve affrontare un grande inventore.
Lobkowitc, una creatura inquieta. A tal punto insoddisfatto da
decidere di andarsene per la sua strada, sebbene da D.O. si stesse
'da dio'.
Così
è la vita: un cane è spesso randagio e ancora più spesso si fa
pastore. E così è finita che diventa compito di quel cane narratore
recuperare la pecorella smarrita, Lobkowitc, anche a costo di
riprendere la porta del giardino, questa volta in uscita. Come ci ha
insegnato Peter Pan, però, non sempre le finestre (o le porte)
restano aperte per sempre. Una volta andati via dal giardino, sembra
impossibile tanto per il cane, quanto per Lobkowitc, potervici
tornare.
E a
entrambi non resta che trovarsi un proprio angolino nel mondo e un
briciolo di amore da coltivare nel cuore.
E
questa è la storia di tanti, ma sopratutto di quel cane nero, goloso
di pelle di galletto.
Cose
che questo bel libro, datato 1998!, non è.
La
prima, non è un libro semplice. Denuncia immediatamente la sua
complessità nell'articolazione e intreccio della narrazione. Un
racconto nel racconto nel racconto. Vi si accede dalla storia che il
cane riporta ai due bambini che lo accolgono. Si tratta
dell'avventura migliore che gli sia capitata: quella che lo ha
portato a conoscere D.O (G.Ott in originale!). A questo racconto si
intreccia quello che il cane ascolta da D.O su Lobkowitc, e di cui
diventa a sua volta narratore in seconda.
Intorno
ai due racconti che si intersecano, si sviluppa una sorta di storia
cornice, che riferisce della condizione attuale dei personaggi: due
bambini, un cane, un gatto, dei topi cattivi e un nonno di ritorno.
Questo
continuo passaggio da una narrazione all'altra prevede una cronologia
stratificata che fortunatamente funziona come un orologio (ammesso
che un orologio lo sia sappia leggere).
Da
qui la seconda cosa che questo libro non è: non è un libro sciatto.
Al
contrario è la risultante di un attento lavoro di precisione,
paragonabile a quello di un orologiaio che sta operando con la sua
lente su uno strumento di precisione. Basterebbe solo ragionare sulla
nomenclatura, così piena di ulteriori significati.
La
terza cosa: questo libro non è un libro che opti per un registro
unico. Al contrario, è costruito su continui passaggi tra una realtà
riconoscibile e il meraviglioso. È un susseguirsi di simboli che
generano una grande metafora di come potrebbero essere andate le cose
all'inizio del mondo.
E
di come ancora oggi per certi versi vadano.
Fin
dalla prima riga, la meraviglia di un cane parlante diventa la
normalità per quei due bambini e per i lettori. Si tratta di un
tacito patto di fiducia, di un dialogo, che chi scrive stabilisce con
chi legge. È una felice alternanza tra detto e non detto, tra
evidenza e ombra. Non è forse il libro dei contrari?
La
voce di chi narra prevede che chi legge ci metta tanto del suo per
entrare nelle pieghe del racconto per capirne fino in fondo il senso.
Chi
conosce la Richter, la ama anche per questo.
La
quarta cosa, che è un po' la risultante delle precedenti: non è un
libro liquido. Al contrario è pastoso e denso, carattere che
prevederebbe, lo si è detto, un consumo lento, ponderato, misurato
e attento. Se lo si vuole leggere tutto d'un fiato, come bere un bel
bicchier d'acqua, nulla osta. Ma sarebbe un vero Peccato...
La
quinta cosa che questo libro non è: 'manicheo'.
Mai
esserlo, soprattutto con i bambini. Suggerire loro che il mondo non
si può dividere in buoni e cattivi, anche se sarebbe tanto più
facile, è cosa buona e giusta.
Nonostante
tutta la storia affronti la questione degli opposti, dei contrari,
per quel che riguarda il Bene e il Male, non ne riconosce mai il
valore assoluto, checché se ne scriva.
Il
racconto si costruisce invece sulla consapevolezza che il mondo non è
l'arena dove i contrari si combattono. La bellezza di questa
architettura narrativa, leggera e allo stesso tempo articolata e
profonda, che Jutta Richter monta per i suoi piccoli lettori sta
proprio nella sua sensibilità e attenzione alla complessità della
natura umana.
La
Richter quindi decide di lavorare sulle sfumature di tono, più che
su colori assoluti. D.O, più che un Creatore, si comporta come un
vecchio padre saggio (che affinità con nonno Schulte!) e Lobkowitc
non è il Diavolo, ma un figlio fragile che sbaglia, inciampa.
A
tale proposito è impossibile non ricordare un altro suo grande libro, piuttosto ignorato, purtroppo, che intorno alla questione si
interroga ancora e ancora.
Giusto
per completare lo scenario.
Carla
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