VERO
Emonsraga 2025
NARRATIVA PER GRANDI (dagli 11 anni)
"Ho raccontato dell'altra guerra, dell'omicidio, degli annegati, della vita triste del paese. Di come i ragazzi stessero ancora su in montagna, di come, dopo la morte della nonna, mi fossi ritrovata ad avere due case, quella del babbo e della mamma e quella della Madrina. Di come io e Celso fossimo diventati amici e di come mi avesse raccontato di quella nebbia che nascondeva il paese, della Bocca dell'Orco, del fiume, della strega e delle morti dei bambini. Di come trovassi consolazione in Vero e nella Iolanda. E anche di tutta la rabbia che mi aveva portato a disubbidire alla mamma..."
L'Albertina sa come si costruiscono le storie. Vero, l'amico di suo fratello Vittorio che dalla montagna non è più sceso, glielo ha spiegato.
Prima bisogna raccontare il prima, poi bisogna raccontare un po' dei personaggi e poi si può partire con l'adesso. E adesso è adesso.
Lei, dodici anni, è appena scappata dalla fredda e misera casa dove vive con le sue sorelle più piccole, la sua sorella maggiore, la Marcella, che arriva solo alla sera perché è a servizio, e con il suo fratellino piccolo, Cecchino, e la sua mamma e il suo papà. Sono poveri, ma molto poveri: poco da mangiare e poca legna per scaldarsi, tanto che la notte ci si deve vestire col cappotto per prendere sonno. L'Albertina, ancora lattante, era stata portata dalla nonna che l'ha allevata con amore e latte di capra. E l'Albertina con lei è cresciuta felice, ma adesso la nonna è morta e lei ha dovuto lasciare la casa sulla collina e tornare in paese da mamma e papà.
Solo di rado può andare dalla sua madrina, che invece la copre di premure e di cose buone da mangiare. Quando anche quella mattina sua mamma è uscita di casa per andare a mettere in croce due soldi, e le ha affidato le sorelle e il piccolo Cecchino, i mestieri da fare e gli scapini da lavorare a maglia, lei non ce l'ha fatta più: ha buttato in terra lana e ferri, ha infilato la porta e di è diretta verso il campanile dove ha intenzione di nascondersi, per lasciar passare la notte per poi fuggire indisturbata e non vista, al sorgere del sole, prima che il borgo si svegli.
Vuole andare in città dove forse troverà un lavoro presso una qualsiasi signora ricca che la accoglierà come una figlia e la riempirà di affetto e attenzioni.
Questo è il principio della storia dell'Albertina, che un giorno perderà la voce: un racconto che dura il tempo di una Quaresima molto piovosa e dove, complice la nebbia, ciò che accade non è affatto come sembra.
Come un vestito che ti dimentichi di avere e lasci appeso per anni in un armadio, pare, credo, mi sembra di aver letto che questa storia abbia stazionato a lungo nel silenzio, al buio. Forse in un cassetto o forse in una cartella di un computer. E pare anche che, una volta riemersa, così come sarebbe capitato al vestito appeso e dimenticato, abbia avuto diversi interventi di adattamento per il suo debutto.
Una volta presa la sua forma attuale, accorciato un po' lì, allargato là in alto, la storia ha cominciato a viaggiare ed è andata - credo, forse, mi pare di ricordare leggendo qui e lì - da Davide Morosinotto che, complice tutta quella nebbia e pioggia e quel paesino sul fiume, complice quell'intrigo bello sodo che si dipana solo alla fine, quella lingua così scorrevole e felice, la apprezza.
Da lì a farla diventare libro, mi pare ci sia metta Book on a Tree e poi Emons.
E questo è il prima, credo, forse, mi pare.
Ma come ci insegna Vero ora dunque è il caso di dire due cose sui personaggi. Quelli del romanzo ma anche quelli fuori: prima fra tutte l'autrice.
Di professione bibliotecaria, ma anche scrittrice come seconda o terza professione, di sicuro esperta di letteratura e simpatica compagna di passeggiate cagliaritane, città che frequenta da anni perché spirito-guida con Bruno Tognolini del festival Tuttestorie.
Del suo spessore tutti quelli che la conoscono ne hanno netta la percezione, quindi forse ha più senso parlare dei personaggi che lei si è inventata per Mal di nebbia.
Perché sono proprio loro a dare forza ed energia a questa storia.
A renderla vera.
Ben inteso non rappresentano l'unico pregio del libro, ma di certo uno di quelli che più mi hanno colpito. A ben vedere sono i legami, le relazioni che li tengono insieme che irrobustiscono una storia che ha l'intento di spaziare tra un po' di generi differenti. È un po' un romanzo in cui la Storia è importante e parla di sé, è un po' anche fiaba nel meraviglioso che alimenta le leggende e le credenze che attraversano quel paese e l'immaginario dei suoi abitanti, è un po' anche giallo per il grande mistero che lo attraversa e, infine, sembra avere anche un po' il passo di un romanzo di fine Ottocento-primi Novecento, con quel mondo contadino fatto di tanta fatica e pochi affetti.
Ribadire il fatto che per scrivere buone storie bisogna averne lette tante, mi pare quasi ridondante, visto chi l'ha scritta. Ma credo che questo sia un caso di specie.
Lo stesso si potrebbe dire per la robustezza dell'impianto.
Anche in questo caso, la cosa che colpisce è la consapevolezza - peraltro esplicitata in una sorta di meta racconto - di quali siano le norme del ben raccontare.
Nicoletta Gramantieri affida a Vero, uno dei miei personaggi preferiti, il ragionamento teorico sulle regole della buona scrittura. E l'Albertina che di lui si fida, lo segue e poi, se non proprio distratti, lo imparano anche i lettori e verificano che il "come" si scrive è già una buona metà del valore di un libro.
Dunque, la galleria dei personaggi, da Minghinì il matto del paese, cui quasi nessuno crede, che ha una sua lingua incomprensibile, la Fosca che attraversa silenziosa e scura il paese avvolto nell'umidità e che ha un odore addosso che vien su sulla pagina, le ricamatrici intorno alla Iolanda, tra le poche sorridenti e per questo invise da chi ne invidia l'allegria in tempi cupi. E Giusto, il macellaio, sorta di aruspice fuori tempo massimo. E poi Cecchino, fantolino febbricitante, e la Marcella in cerca di amore e Vittorio in cerca di riscatto... Bene, tutti loro costituiscono il contesto allargato intorno a cui si intrecciano invece i rapporti umani stretti stretti tra l'Albertina, la sua nonna, la sua mamma, la sua Madrina, e poi Celso e poi Vero.
Tutti loro son lì un po' autentici e un po' no, ma con il preciso intento di porgere una mano gentile al lettore per farlo entrare nella storia e poi accompagnarlo affettuosamente attraverso tutti i passaggi anche quelli più impervi. Dove i rumori, gli odori, il tempo è tutto piuttosto vero.
E per questo, un' unica accortezza, prima di entrarci: un cappello di panno, un pastrano e scarponi impermeabili, perché lì dentro piove sempre. O quasi.
Carla
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