Vi è un legame intrinseco tra le questioni legate alla narrazione e il nostro rapporto con lo spazio che ci circonda: può accadere di intravederlo muovendosi in profondità, scavando con andamento verticale nelle storie (vere o inventate che siano) ma anche ricercando una connessione più di superficie, quella che si sperimenta affrontandole come fossero territori in cui esplorare per orientarsi.
Prendiamo un trasloco, per esempio. Un’esperienza classicamente tra le più stressanti. Io del mio non ricordo tanto la fatica del cambiamento, quanto quella dovuta alla quantità di cose che, scomodate dai loro legittimi e silenziosi alloggiamenti, hanno sprigionato un’intollerabile quantità di quella impalpabile energia chiamata memoria. Non erano meri oggetti portatori di ricordi, ma accumulatori di cosmogonie legate a interi periodi di vita. In altre parole, radici denudate che mostravano in bella vista la loro intera estensione.
Lo strambo trasloco della magione Miller racconta di un filone d’argento, della miniera Minnie Moore e relativa fortuna, dell’amore tra Henry Miller e Annie. E poi c’è la costruzione della villetta, la morte del marito, i rovesci di fortuna. È solo quando Annie, in cerca di nuova prosperità per sé e il figlio, decide di spostare l’intera costruzione per trasferirla sei chilometri più in là, in un luogo più adatto al suo nuovo progetto di vita (un allevamento di maiali) che si entra nel vivo della faccenda. Traslocare una casa intera, infatti, è un ossimoro: pensare lo spostamento in un unico blocco di tutta la struttura, a partire dai muri, per passare alle stanze, ai mobili, i letti, gli armadi, i tavoli, le sedie richiede non solo ingegno e forza muscolare, ma anche un considerevole sforzo immaginativo.
Che il fatto sia dichiaratamente una storia vera è da annoverare non tanto nell’ambito di quella crisi nei confronti dell’immaginario e del fantastico che tanto viene lamentata di questi tempi. Tutto al contrario. Eggers si riallaccia alla tradizione usando uno stratagemma da vecchi cantastorie, che questo dovevano saper fare per lasciare a bocca aperta il proprio uditorio: conoscere una struttura intimamente, interamente, dalle fondamenta alla soffitta, esattamente come muratori competenti capaci di smuovere solo quello che deve essere smosso, per lasciare intero tutto il resto. Il trasloco della magione, con la numerazione puntuale di tutti i mattoni delle fondamenta, funziona benissimo come similitudine per raccontare come si trasferisce tutta intera una narrazione dalla propria testa a quella di chi ascolta.
Lo strambo trasloco della magione Miller, nelle mani di Dave Eggers, è contemporaneamente una storia vera, la sua (re)invenzione e anche una riflessione sul narrare e sulla scrittura. Soprattutto è una riflessione su quella vena preziosa e segretamente lucente che ci attraversa, fatta di memorie e credenze e mitologie sotterranee che stanno, silenti, stipate, in attesa. Un patrimonio grezzo, spesso inconscio o addirittura sconosciuto, che rende però possibile il travaso di interi ecosistemi narrativi. La questione della miniera – fatto vero – così come il viaggio in Europa (se non vero, sicuramente molto probabile e verosimile), ma ancora di più: il fatto della numerazione delle componenti delle fondamenta sono in questo senso eloquenti: è dalle profondità che parte ogni racconto, dal frantumarsi degli accadimenti e delle esperienze, dallo stratificarsi dei significati e dalla successiva ricomposizione.
Perché dal momento che esiste, poi, ogni storia va attraversata, in modo simile a come si attraversa il territorio vero, quello fisico, quello che ci circonda e che in primo luogo sperimentiamo come superficie rilevabile con gli sguardi, con distanze immaginate e vissute. Le analogie sono tali per cui spesso raccontare il fuori diventa intrinsecamente raccontare quello che accade dentro.
Prendiamo ad esempio un cow-boy. Immaginiamo che decida di seguire le orme del padre solo dopo averle verificate. Immaginiamolo così, alle prese con l’idea della mandria che dovrebbe gestire, ammansire e mungere, come da sempre fa la sua famiglia. Immaginiamolo come un punto circondato da un territorio che esiste, ma che lui vuole percorrere, vedere, rilevare e registrare in autonomia, prima ancora che esserne assorbito. Ecco Billy delle nuvole, il nuovo albo di Eva Offredo.
Billy delle nuvole ha la pretesa e l’ardire di voler conoscere prima di accogliere. Anche Offredo si aggancia a una storia vera (o almeno lei così dice): ha incontrato Billy, tanto tempo fa, e questo albo è la sua testimonianza. Invece di scavare però, lei decide di percorrere le tracce in superficie.
Billy abbandona il lazo e lo sostituisce con lo sguardo. Il movimento di questo utensile riassume efficacemente il funzionamento del nostro occhio in azione: l’energia del lancio, l’allontanamento dell’estremità e poi il ritorno, la deliberata volontà di afferrare qualcosa.
Diversamente dalla fune, poi, l’occhio torna sempre con qualche informazione: e allora ecco le immagini di Billy tornare e fissarsi sulla pagina come se questa fosse non solo la retina, ma quel posto speciale dove quello che vediamo si deposita. Ecco la Pampa correre a perdita d’occhio, gli armadilli e le civette e poi mangrovie, doline marine e fiordi e renne…
Pagina dopo pagina, paesaggio dopo paesaggio, pianta dopo pianta, roccia dopo roccia, ecco emergere – in Billy e in noi - una visione più ampia: le singole rilevazioni si approfondiscono e, accumulandosi si dispongono in mappe, le mappe diverse si aggregano in territorio, l’esplorazione narrata assume una consapevolezza spaziale più estesa, lo stupore attonito si traduce in indagine. L’esperienza viva si astrae, i passi si tramutano in rette, le soste si fanno simbolo. Il tesoro che Billy raccoglie camminando è impalpabile. È fatto di oggetti, di sguardi e sensazioni, sorrisi, suoni, versi di animali, temperature e luci.
E poi c’è la fatica, la frustrazione al cospetto della strabordante molteplicità, la meraviglia. Il caldo, il freddo, la terra sulle mani, le nuvole che viaggiano e, sopra, il cielo.
Se esiste uno scrigno per questo tipo di cose, ha la forma di un quaderno. Nelle pagine straripanti di appunti, nella seconda parte dell’albo, avviene una prima appropriazione della molteplicità incontrata camminando. Ecco far capolino il tempo, le date, la durata effettiva degli spostamenti e dei giorni. Ecco il riordinare, attraverso numeri ed elenchi, quella messe di informazioni e immagini e reperti raccolti sul sentiero, in forma sparsa, estemporanea, accidentale. Ecco il sedimentare del territorio nel racconto personale, una soglia imprescindibile per il passo successivo. Al ritorno del viaggio, la prima lettura del territorio viene integrata con un approfondimento documentato su flora e fauna delle parti del mondo attraversate.
Billy delle nuvole è un incontro faccia a faccia con il mondo naturale per scoprire come farne parte. Forse proprio per questo contiene diversi sguardi. Il primo è narrativo, certo, ma poi, per contenere tutto, si trasforma, suggerendo un metodo di raccolta da praticare nel quotidiano e infine ancora, offrendo un inquadramento di carattere divulgativo.
Questi due albi si parlano in modo sottile. Se il primo ragiona sulla profondità delle radici e sul trasferimento della memoria da una mente all’altra, il secondo si dispone come indagine geografica, di superficie, evocando inequivocabili analogie tra il camminare e il leggere. Entrambi però, prendono un punto nello spazio, un luogo conosciuto e familiare, e lo correlano a uno poco distante, in cui non siamo ancora stati: si apre davanti ai nostri occhi una distanza che vuole essere conosciuta.
Che chiama, come una promessa.
È una storia. È un territorio. Soprattutto: è una casa.
Giorgia
“Lo strambo trasloco della magione Miller”, Dave Eggers, Julia Sardà, (traduzione di Giulia Rizzo) L’ippocampo 2024
“Billy delle nuvole”, Eva Offredo, (traduzione di Martina Arecco), Quinto Quarto 2025











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