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mercoledì 23 luglio 2025

UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)

ELOGIO DELLA CADUTA 

Una figura malinconica dalle guance smagrite, avvolta in una coperta variopinta, segue un gruppo eterogeneo di animali: un leone, un coniglio, un lupo, un tucano, un rospo. Quando li raggiunge porge loro una valigia trovata per strada, forse dimenticata proprio da qualcuno di loro.  

© Issa Watanabe #logosedizioni



Un coccodrillo, un formichiere, un rinoceronte e una giraffa sono accampati in una radura. Pentole, coperte e fagotti giacciono ai loro piedi. Un senso di sospensione e di precarietà aleggia attorno ai corpi che cercano di riposare. Nel sonno, i volti sono contriti. Chi è sveglio guarda lontano, nell’oscurità che incombe. 
Tra la figura allampanata e un enorme orso bianco ha luogo una conversazione, qualcosa che pare una contrattazione, un mercanteggiare necessario che lega a doppia mandata il rischio e la salvezza, il tentativo e il fallimento. 
Poi, si arriva al mare. 

© Issa Watanabe #logosedizioni



La cosa più difficile per i grandi temi, ancor più quando sentiti come urgenti e attuali, è essere raccontati interi e vivi senza diventare dettami. È difficilissimo, specie quando gli interlocutori sono bambini, mantenere intatto il bisogno di dire senza dimenticare che l’ascolto, quello vero, non può essere forzato. Arduo, sempre, arrivare ai lettori senza che il grande tema venga colonizzato dall’opportunità, dall’ufficialità del messaggio, dall’opinione comune di ciò che va detto e sentito. Infine, rarissimo che il grande tema venga raccontato in modo sufficientemente ampio e poroso, affinché permanga, nell’ascoltatore, quella libertà di raccogliere in autonomia ciò che può ovvero: quella parte di messaggio che, per età, sensibilità ed esperienza di vita, egli può contenere. 
Issa Watanabe ha la misura e la sensibilità di porgere il racconto della migrazione forzata e della ferita – sentito come urgente, personale, intimo – senza dimenticare mai la presenza dell’ascoltatore, concependolo anzi nella sua interezza. L’illustratrice predispone tutto il meccanismo narrativo affinché chi si affaccia all’albo lo possa fare in modo libero, e lo fa allestendo una sorta di camera di scambio, dove il mistero non viene sacrificato e il messaggio rimane potente e cristallino, sospeso e a disposizione di una lettura personale.


Che Migranti sia un capolavoro non tocca certo a me dirlo. Il racconto del gruppo di animali che dopo essere partiti affrontano una traversata in mare e approdano – non tutti, non indenni – sulla desiderata sponda opposta è scarno ed essenziale. Diretto eppure sensibilissimo. Il proposito di raccontare ai bambini il fenomeno della migrazione forzata con i rischi, il dolore e la morte che essa comporta viene centrato al punto da poter essere fruito non solo da chi una migrazione non l’ha mai affrontata, ma anche da chi ha vissuto sulla propria pelle la terribile esperienza e cerca parole e immagini per concretizzare qualcosa che va al di là del raccontabile. 
Ma lo scavo fatto da Watanabe è ben più di questo. La questione dei migranti, emblematica e purificata, diventa il fenomeno macroscopico e visibile attraverso cui è possibile toccare, in quel modo specifico che accade nelle storie e negli albi, un moto interiore ed essenziale, arrivando a simboleggiare il processo vitale e sconvolgente del cambiamento e della crescita. Se questo rimane timido e sotteso in Migranti, emerge invece con precisa intenzionalità in Kintsugi.


Il titolo è già una dichiarazione di intenti, un chiaro riferimento alla tecnica giapponese di ricomporre i cocci del vasellame spezzato con l’oro. La pratica del kintsugi fa della ferita e della guarigione una occasione di esperienza, compattando in un atto di riparazione dall’esito estetico e poetico un percorso che, nella realtà, passa attraverso la fatica della caduta, della sopportazione e della ricostruzione. 
Un coniglio vestito di tutto punto si accosta a una tavola riccamente imbandita per bere una tazza di tè, quando un biancore di gesso irrompe tra i rami del suo commensale. Sconcertato dal cambiamento, il coniglio inciampa, perde fatalmente l’equilibrio, precipita in avanti senza rimedio fino a rovinare a terra; non per questo smette di cadere, anzi: oltrepassato il diaframma del suolo scende ancora più in basso, in cavità e antri sempre più misteriosi, in una oscurità senza rimedio che sembra annichilire ogni colore. E quando si arriva in fondo, ecco un altro confine, ecco l’acqua. Il coniglio si tuffa e con una lunghissima apnea affronta una discesa che richiede moltissimo coraggio e con questo si intenda la capacità di sostare nel disagio, nella scomodità, nell’incertezza dell’esito. 
Questo è forse il regalo di maggior caratura in questi due albi. 

© Issa Watanabe #logosedizioni



Nelle interviste rilasciate dall’uscita di Migranti e reperibili in rete si capisce che Issa Watanabe ha un’altissima idea di infanzia e, in suo nome, rifiuta ogni banalizzazione. Le immagini che ha elaborato scaturiscono non tanto dalla diretta volontà di intrappolare nelle figure un messaggio chiaro, quanto dal bisogno di non voler arretrare di fronte ai fatti e allo stesso tempo di non deturpare la naturale propensione alla speranza. Tuttavia, è nell’integrità di affidarsi al proprio medium senza compromessi, nella scelta di affidarsi esclusivamente al disegno rinunciando alla parola che si sostanzia l’atto di fiducia rivoluzionaria e generativa - mi viene da dire quasi politica - che emerge dalle tavole, quando le si lascia parlare. 

© Issa Watanabe #logosedizioni



Il racconto di Watanabe può dire la speranza in quanto esso stesso è intriso di fiducia in ciò che deve ancora avvenire. Sta nel suo non volersi far imbrigliare, nella capacità di lasciare accadere le cose senza l’ansia della spiegazione, nella propensione ad arretrare per concedere spazio al lettore, assumendosi il rischio che qualcosa in questo scambio vada perduto. Nell'opera di Watanabe il messaggio stesso affronta la traversata che ogni pensiero azzarda dal momento in cui nasce, quando minuscolo e indefinito parte per essere formulato, trasformato, espresso e ascoltato. Possibilmente, compreso. 
Ogni pensiero, ogni idea, ogni parola, nel lungo percorso tra la sua comparsa e la sua espressione, affronta il rischio della censura, dello scoraggiamento, del silenziamento. Similmente al grande marlin pescato lontanissimo dalla costa dal proverbiale pescatore hemingwayano (ancora barche, ancora acqua) non è affatto detto che arrivi alla bocca, alla penna, alla carta intero; non per questo bisogna rinunciare.

© Issa Watanabe #logosedizioni

Dopo la contrizione per chi è perito nella traversata, il gruppo di animali si volge e, pur dolente, trova davanti a sé una radura fiorita. Dopo essere scampato alla profondità del mare, il coniglio risale in superficie e ritrova i pezzi con cui ricomporre nuovi oggetti, nuova realtà.

© Issa Watanabe #logosedizioni



L’atto stesso di pensare e parlare e creare è un atto di ricomposizione ed assemblamento che la lettura di questi albi celebra dal suo più radicale prodromo, che è la caduta, lo spezzarsi. Ed è forse qui che si sostanzia la necessità del nero delle illustrazioni, una oscurità che oltre a raccontare la disperazione veste efficacemente anche quel momento dell’esistenza in cui iniziano tutte le cose, l’oscurità che precede la luce, dove si affronta, senza certezza d’esito, la traversata prima dell’approdo. 

© Issa Watanabe #logosedizioni

Giorgia

“Migranti” Issa Watanabe, #logosedizioni 2020 
“Kintsugi” Issa Watanabe, #logosedizioni 2023 

lunedì 24 giugno 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

HEIDELBACH: UN FATTO PER I RAGAZZINI 

Marina, Nikolaus Heidelbach (trad. Valentina Vignoli) 
#Logosedizioni 2024 


ILLUSTRATI 

"L'abbiamo trovata in spiaggia mio fratello e io. 
L'abbiamo portata a casa. 
La mamma ha detto che poteva restare a vivere con noi. 
Le ho dato la mia camera e mi sono trasferito da mio fratello. 
L'abbiamo chiamata Marina." 

Marina è una ragazzina che per il momento non fa altro che annuire e scuotere il capo per dire sì o no. Non per questo resta esclusa dalle conversazioni casalinghe, anzi ascolta con attenzione e mangia di buon appetito, sopratutto il pesce. Piano piano comincia a parlare anche lei, poche parole isolate, ma fa rapidi progressi e quando un giorno, con il fratello minore, va al parco e un signore la prende in giro per il colore scuro della sua pelle lei gli addenta una coscia. Tocca scappare alla svelta. Marina fa il bagno con la porta chiusa, tutti i giorni. Un giorno ha cominciato a parlare come un fiume e non ha più smesso. Racconta cose magnifiche della sua vita nel mare: si chiama davvero Marina e suo padre è il re e sua madre la regina dei mari. Con le sue numerose sorelle viveva in castello magnifico con mille attrazioni. Ma poi un litigio con una delle sue sorelle principesse l'ha spinta a fuggire. Il fratello più grande alza gli occhi al cielo, la provoca e non le crede e, quando lei racconta quella che lui crede essere l'ennesima panzana, la offende dicendole che lei in mare non ci è mai stata... 

I libri di Heidelbach non sono mai facili (per i grandi, almeno). E neanche questo fa eccezione. Come sempre accade con le sue storie, la stratificazione di significati si presenta sempre molto impegnativa, a patto che la si voglia vedere e si desideri andare a vedere cosa c'è al di là di quel diffuso senso di inquietudine che gli adulti colgono e che caratterizza il poco testo e le immagini. Spesso, purtroppo, molti di loro, colti da questa vaga sensazione di disagio, si fanno spaventare e mettono giù il libro, dicendosi: naaa, non fa per me... figuriamoci per mio figlio... 
Questo è per dire che il sogno che Heidelbach in Italia sia un autore per tutti resta un sogno: una chimera. E chimera resta il fatto che capiti nelle mani giuste, quelle dei ragazzini. 

© Nikolaus Heidelbach

Tuttavia potrebbe capitare che qui passi qualche adulto più coraggioso e più illuminato. Qualcuno che i rari libri di Heidelbach che valicano le Alpi li aspetta fremente. 
E allora a quel qualcuno si può parlare di Marina
Andiamo a vedere la superficie e la profondità di questa storia. 
In superficie c'è una storia con un 'gancio' più facile, e molto evidente: la bambina emigrata da accogliere. Sempre in superficie ci sono tutti gli elementi consueti delle molte altre storie analoghe: è sola, ha difficoltà a comunicare, ha tratti somatici inconfondibili, su di lei lo stigma di essere diversa. Poi, di fronte alla domanda regina, che è spesso dietro a storie così : è arrivata qui, cosa ci facciamo, adesso (L'isola di Armin Greder docet)? Heidelbach si tuffa e va giù giù. 
Lui, che è lontano mille miglia da ogni retorica, sceglie di raccontare qualcosa di diverso, qualcosa che conosce molto bene: la mette letteralmente nelle mani di due ragazzini, fratelli, che la maneggiano fin dal principio ed è così che noi la conosciamo. Attraverso la loro relazione reciproca tutto assume spessore e senso. Con tutto quello che ne consegue. 
Si contano sulle dita di una mano quegli autori che se ne impipano della spiegazione, dell'insegnamento, della morale, in nome di una lealtà nei confronti dell'infanzia: Heidelbach dimostra ancora una volta di saper raccontare la potenza dell'infanzia con una onestà sconcertante. Sconcertante per i grandi, ovviamente. 
Ecco, questa è la sanissima inquietudine che attraversa le sue storie. 
Così Marina diventa un fatto di ragazzini. E come tale va letto. 
I due bambini, come spesso fanno i bambini, vanno dritti al punto e non si curano più di tanto delle farraginosità in cui potrebbero incappare: la trovano e la portano a casa. La mamma dice che può restare. Arriva una poliziotta e la madre gli inventa qualche scusa e quella se ne va. 

© Nikolaus Heidelbach

E anche in questo Heidelbach si allinea a quel modo di leggere il mondo ed evita tutto quello che potrebbe solo appesantire il percorso verso il nocciolo della questione. 
Il più piccolo, il più bambino dei due, le fa spazio e soprattutto le crede (anche la madre dà a vedere di farlo, ma è tutt'altra cosa). 
Il fratello più grande, che purtroppo ha perso quella capacità di viaggiare sul crinale tra la realtà e l'immaginazione, tra il vero e il possibile, è l'ostacolo, il granello che inceppa il meccanismo... 
E Marina? Heidelbach come le dà vita? Con la stessa sensibilità profonda con cui ci ha raccontato i due fratelli tra loro e i due fratelli con lei. Non c'è una sola parola, o un solo gesto dei due fratelli, che un bambino vero non pronuncerebbe o non farebbe e quindi non riconoscerebbe come suo. L'ho detto fino allo sfinimento: Heidelbach è uno dei migliori narratori di infanzia (e di umanità tutta) che mi sia capitato di incrociare. E anche qui accade lo stesso.
 
© Nikolaus Heidelbach

Il bambino piccolo è tutto fede, il fratello maggiore è tutto disincanto. La madre è tutta cura. Il passante al parco è a suo modo un'icona, di una fetta di popolazione... 
E Marina, dunque? Qui Heidelbach va ancora più in profondità: ne dà un'immagine che tiene conto di un sacco di cose non dette. Cosa l'abbia spiaggiata il giorno in cui i due fratelli la incontrano, possiamo intuirlo - Heidelbach non lo dice di certo ma disegna una copertina e un frontespizio piuttosto eloquenti - di sicuro lei sta scappando da una realtà traumatica e sta cercando di costruirsi una nuova realtà, una nuova identità. E le uniche cose che ha per le mani sono le cose che la circondano. 

© Nikolaus Heidelbach

Forse il poster con la sirena che è sul suo letto rappresenta per lei un punto di partenza... Si tratta dell'unica via di scampo che è in grado di darsi per andare avanti. Ragion per cui i suoi racconti sembrano inverosimili, in quel loro essere specchio "sottomarino" del mondo terrestre che lei ora ha davanti: il regalo per il compleanno, i saldi nel centro commerciale Sirena, le litigate fra fratelli, i parchi, le piscine e gli ottovolanti compresi. Sembrano inverosimili, illogici e impossibili, nelle sue parole, ma sono invece quanto di più autentico e possibile ci possa essere. Rappresentano il desiderio di una ragazzina di inventarsi una verità alternativa, per rimuovere la verità fatta di dolore da cui è appena fuggita. 
Il finale: il finale è ancora più heidelbachiano di tutto il resto. Pieno di mistero, di cose non dette perché i lettori ci possano entrare per farci i conti. Un unico indizio lo dà nelle risposte dei due fratelli, fino all'ultimo quei due son diversi. 

Carla

lunedì 8 aprile 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

DI STORIE E DI PANE 

Misha. Io, i miei tre fratelli e un coniglio
Edward Van de Vendel, Anoush Elman, Annet Schaap 
(trad. Laura Pignatti) 
Sinnos 2024 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dagli 8 anni) 

"Quando c’è da risolvere qualcosa, papà dice sempre: 'Lasciamo che Hamayun sia la nostra bocca'. Hamayun spiegò perché eravamo lì, e la ragazza disse: 'Certo che abbiamo dei coniglietti. Sono qui dietro. Venite, ma fate attenzione... uno alla volta...'. 
La seguimmo tutti quanti pian piano, in un ambiente stretto nel quale si sentiva odore di pelliccia calda. La ragazza disse: 'Qui ci sono diversi coni...'. Ma io guardai e puntai il dito ed esclamai: 'QUELLO!' . Era un coniglietto nano. Appena eravamo entrati nel negozio, lui si era sollevato sulle zampe posteriori. Sembrava che pensasse: 'Ehi!'. E anch’io pensai: 'Ehi!'. Ma subito dopo pensai 'Sìììì!', perché anche il coniglietto nano pensò: 'Sìììì!'. 
Lo potevo vedere e sentire nella mia testa. E un’altra cosa che sentii nella mia testa era il suo nome. 
Lo comprammo, e io lo presi in braccio, Hamayun pagò, e quando fummo fuori dissi ai miei fratelli: 'Misha'. 'Si chiama così?', domandarono. 'Sì', dissi io. 
E loro dissero: 'Oh'". 

Roya, la bambina che non piange mai, e i suoi tre fratelli più grandi sono in un negozio di animali perché il desiderio della piccola di casa per festeggiare l'arrivo in un appartamento tutto loro è quella di avere un animale da compagnia: un coniglio, piccolo e bianco. 
Così Misha arriva a casa. 


La bambina è la sua custode, ma in verità tutti in casa se ne prendono cura e lo considerano uno di famiglia. Hamayun per esempio è maestro di carezze e insegna agli altri che a Misha non piace essere toccato intorno alla bocca, mentre Navid cerca senza successo di insegnargli a battere il cinque. Alla mamma invece, in segno di affetto, Misha fa pipì sulla pancia e con Bashir si rifiuta di fare il bagno. Con il papà, invece, sgranocchia insalata fresca, perché a lui le carote non piacciono proprio. 
Questa è la storia di una famiglia fuggita dall'Afghanistan che, arrivata in Olanda, dopo un lungo viaggio pericoloso durato sei mesi, dopo le tante richieste e gli altrettanto numerosi rifiuti da parte del governo, dopo essere passata per diversi centri di accoglienza e aver vissuto nell'assoluta incertezza e precarietà, dopo essersi spostata mille volte da un luogo all'altro, ora finalmente, dopo cinque anni di attesa, ha ottenuto il diritto di cittadinanza e può pensare ai giorni che verranno con la giusta tranquillità. E piangere, finalmente. 

Ci sono tre cose preliminari da dire: la prima è che Van de Vendel sa scrivere con una sua grazia inconfondibile (candidato all'H.C. Andersen 2024), che Anoush Elman ha una storia davvero importante da raccontare, che Annet Schaap non poteva fare meglio di come ha fatto nel dare aspetto agli 8 personaggi della storia (una famiglia di 6 persone, 1 coniglio nano e 1 vecchietta sospettosa). 


Forse ce n'è anche una quarta che va detta: questa storia cresce lenta, un po' come una pagnotta in forno: ha sempre del miracoloso guardare dal vetro e vedere che si dora e che il lievito sta facendo il suo lavoro. 
Anche in questa storia c'è una spinta interna che non si vede a occhio nudo, un lievito invisibile almeno fino 40 pagine dalla fine, che agisce in sordina e ti consegna qualcosa d'altro da ciò che era in partenza. Cos'era in partenza? Una storia vera e scomoda che sta lì per muovere le coscienze. 
La storia di una famiglia afghana scappata dalla propria terra e approdata in Olanda. Poi c'è la non risposta dell'Olanda, un silenzio che dura 5 anni, in cui la famiglia afghana subisce l'ingiustizia di essere un corpo estraneo in un paese straniero che non vuole prendersene cura. Poi c'è la soluzione: ossia un diritto di cittadinanza e finalmente la sensazione di trovarsi in sicurezza per queste persone. 
Tutto questo è il punto di partenza, che ha il merito di essere una storia vera: quella di Anoush Elman e della sua famiglia. 
Il lievito di questa storia sta proprio in questo suo essere vera e capace di diventare tangibile. 


Dimostra di avere una potenzialità - qui parliamo di strumenti letterari - che le dà modo di raggiungere una sua tridimensionalità, un suo spessore umano diverso dalla piattezza di quello che si sente raccontare in modo sempre più generico e che, appunto, livella tutte le singole storie di migranti in una unica grande narrazione che li contiene tutti ma che non è di nessuno in particolare. Insomma un racconto onnicomprensivo che nessuno ascolta più veramente. 
Il lievito che fa crescere questa storia e la fa diventare pane, non so quanto di vero e quanto di inventato ci sia, sta proprio i quei corpi veri (Annet Schaap, ritrattista d'eccezione) che si muovono attraverso spazio e tempo, nelle teste ragionanti e nelle anime di queste otto persone (ci metto anche il coniglio) e, in particolare, nei loro rapporti interpersonali.


Per capirci: sembra che partano come personaggi, mentre invece, cammin facendo, diventano persone a cui inevitabilmente ci si affeziona perché, a furia di sentirli e guardarli, sono oramai gente di famiglia anche per chi li ha 'solo' letti. 
Conquista quel loro modo naturale di fare squadra, di volersi bene - sarebbe stato ben complicato attraversare ciò che hanno attraversato, senza potervi ricorrere. Piace quella loro attitudine a dire sempre come stanno le cose, anche se difficili da raccontare. Piace il loro modo di saper vedere sempre il lato migliore delle circostanze. Si invidia quella loro attitudine a essere gentili - e non è vero che solo Hamayun lo sappia fare...  Quel loro innato rispetto reciproco... Si apprezza quel  naturale modo che hanno di lasciare spazio alle emozioni - proprie e degli altri - quando arrivano a galla. 


E anche, non ultimo, è tanto bello il loro modo di voler bene a un coniglio. 

Carla

lunedì 11 marzo 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

I BAMBINI FANNO

I migranti
, Marcelo Simonetti, Maria Girón 
(trad. Francesco Citarella, Tiziana Masoch, Ilide Carmignani - FUSP) 
Kalandraka 2023 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Nel momento stesso in cui la maestra Alicia ha detto che sarebbero arrivati due migranti, è suonata la campanella e siamo usciti di corsa dall'aula. 
Volevamo arrivare a casa il prima possibile. 
La nonna aveva preparato il risolatte e a noi piace un sacco. 
Potremmo mangiarlo tutti i giorni per tutta la vita. 
E facendo sempre il bis. 
Ma l'annuncio della maestra continuava a girarci in testa." 

Comincia così una sarabanda di ipotesi che i due fratelli mettono in gioco. Forse complice il risolatte, Pauli - la sorella golosa - pensa che migranti possa essere un dolce, ma il fratello replica che solo due non basterebbero mai per un'intera classe. Potrebbero essere degli animaletti, tipo dei ricci. Ma alla maestra Alicia non piacciono gli animali, quindi sarebbe piuttosto difficile supporre che i migranti siano ricci (!). La parola migranti potrebbe essere un gioco di parole? Insomma, quei due stanno brancolando nel buio. E poi davvero si fa buio e cominciano le supposizioni notturne e un po' spaventose riguardo alla grande questione: cosa si nasconde dietro la parola migranti? E se fossero spiriti maligni? Meglio lasciare una lucina accesa... 
La mattina successiva tutti i pensieri notturni si sono affastellati nella testa dei due fratelli, quindi il tragitto verso scuola è stato tetro e pensieroso. Silenzioso, anche con la mamma al volante che forse poteva essere l'ultima a chiarire loro le idee. 
Muti, tremanti e per mano varcano la soglia di scuola, convinti entrambi che se i migranti avessero voluto la guerra, guerra avrebbero avuto... 

Questo libro ha meritato una lunga meditazione.


Da una parte, una forte attrazione per i disegni di Maria Girón che mi pare sia una brava disegnatrice in generale, ma di infanzia in particolare. Con le sue matite ha sempre dato buona prova nel concepire il movimento dei corpi e in questo libro, non si risparmia gli scatti in velocità, le verticali di Pauli, la gare in bici, le risate, le facce spaventate, la pensosità notturna. 


Qui anche un bel gioco sottile tra copertina e quarta. Chi lo vuole capire, lo capisce... 
Dall'altra una grande domanda di fondo sulla questione che attraversa tutto il libro. Ma è davvero così come la mette Simonetti? La parola migranti è così oscura tra i ragazzini e le ragazzine? 
Fatto sta che in questo domandarsi si mette in moto il solito meccanismo che scatta di fronte a ogni interpretazione, che per forza di cose è quella di un'adulta. In sintesi, quanto riesce a fermarsi il pensiero adulto nel leggere un libro pensato per un pubblico diverso? Con questo non intendo scalfire in nessun modo la buona intenzione di Marcelo Simonetti, ma mi riferisco solo a un personalissimo dubbio che mi ha spinto ad andare a verificare sul campo - lo faccio oggi in una quinta con maestra compiacente - quanto effettivamente se pronuncio la parola migranti in una classe la lascio lì perplessa a cercare di indovinare di cosa si tratti. Ma forse la questione è solo un dettaglio, perché il merito di questo libro è altrove. 
Il libro, infatti, mette in campo anche un paio di riflessioni di altro tipo. 
La prima riguarda la naturale disposizione alla curiosità, all'avvicinamento e all'inclusione che hanno i bambini. Almeno i più piccoli. Almeno fino al momento in cui non viene insegnato loro che essere selettivi è la miglior cosa da fare. Prima di tutto, la paura! E poi la distanza.
I bambini, diceva un grande pediatra, sono creature economiche e pratiche. 
Credo intendesse dire che cercano di fare sempre la via più corta e più diretta per arrivare al punto. E di ogni cosa sanno cogliere subito l'aspetto concreto e fattuale. 


In questo caso, la cosa che mi pare bella del testo I migranti è proprio questo sguardo. Si polverizza all'istante tutto quel pensare, immaginare, elucubrare nel momento che le fantasie smettono di essere tali e prendono corpo e trovano voce. Nonostante l'immaginare sia una pratica necessaria all'umanità intera - guai a non farlo dal primo all'ultimo respiro - tuttavia succede che quando un bambino si trova di fronte a fatti concreti, quello stesso bambino agisce, perché li può toccare. Non spegne l'immaginazione, ma smette di interrogarsi e preoccuparsi, almeno per un po'. 
E guarda, tocca e fa. 
La seconda riguarda il mondo degli adulti, che sono in larga misura assenti, dall'intera storia: a parte la nonna del risolatte e la madre che li accompagna a scuola: sono entrambe puramente strumentali. Ma ci sono anche altri adulti che si fanno notare, diciamo così, in trasparenza, ovvero appartengono a loro certe frasi del testo e sono quelli che non hanno mandato i propri figli a scuola per l'arrivo dei migranti. Lo stigma nei loro confronti da parte di Simonetti è chiaro. E credo che sia lì, in tutta la sua anche ostentata evidenza a collocare in posizione scomoda gli adulti e contemporaneamente a mettere un po' in allarme tutti quei bambini che invece nell'incontro conoscono e mettono via il pregiudizio, e soprattutto la paura.


E guardano toccano e fanno. 

Carla

venerdì 5 febbraio 2021

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA VOCAZIONE AD ACCOGLIERE
 
Storia di una valigia, Núria Parera, María Hergueta,
(trad. Sara Margherita Cavarero)
Beisler, 2021


NARRATIVA ILLUSTRATA PER MEDI (dai 9 anni)


"Magí sapeva tutto delle sue vacche. Se muggivano di tristezza, di fame o di gelosia. Sapeva - gli era sufficiente un colpo d'occhio - se il vitello appena nato sarebbe stato forte e sano. Quello su cui invece Magí non sapeva tanto fare era dire a sua figlia 'mi mancherai'. Maria si sarebbe sposata quella domenica e avrebbe lasciato la casa famigliare per andare a vivere con suo marito molto lontano. Troppo lontano. Ecco perché Magí le fece il più bel regalo del mondo: una valigia di pelle, confezionata con le sue stesse mani."


Questa valigia parte con Maria che va a lavorare in fabbrica come operaia tessitrice. La valigia finisce sotto il letto a conservare erbe medicinali e una manciata di terra portata via da casa. Il tempo di Maria, tra figli e fabbrica, è sempre meno e la bella valigia fatta dal padre viene dimenticata. 
 

Fino al giorno in cui lei la regala a Salvador che nel paese di Maria aveva portato una fantasmagoria: il cinema in piazza. Con Salvador la valigia si ferma quando si ferma la bicicletta. Tra i filari di uva lui trova l' amore e smette di girare con le sue proiezioni per occuparsi della vigna di Ángela. La valigia passa nelle mani di Joan il nipote di Ángela che scappa dalla guerra e cerca fortuna a Barcellona. 
Poi serve alla migliore amica di Joan, Violeta, in fuga dalla guerra civile, diretta in Francia...Poi la valigia diventa culla di una neonata, emigra con lei in America per scappare dalla persecuzione e poi diventa di nuovo valigia di quella bambina diventata ormai grande, una musicista pacifista. Poi in qualche modo la valigia torna verso casa per approdare a Ibiza e diventa la valigia di un fotoreporter. Abbandonata da Bru perché troppo vecchia, viene invece conservata da Lola proprio perché così vecchia. Il suo ultimo viaggio - chissà - lo fa verso Oriente e forse diventerà la valigia per contenere tutto ciò che possiede chi è costretto a scappare dalla povertà e dalla guerra, in cerca di una vita migliore. Le migrazioni non si possono fermare.


Il punto di vista è insolito e per questo è degno di interesse. Si tratta di pedinare, seguendo il destino di questo oggetto, i diversi passaggi di mano in mano, i viaggi, gli spostamenti, i diversi utilizzi che le persone ne hanno fatto. Una valigia, si sa, porta in sé un bel po' di simbolismi che anche in questo racconto vengono a galla. Se dovessimo riassumere i vari passaggi che questa valigia fa, potremmo dire che la sua funzione è quella di tenere assieme pezzi di vita e, in linea generale, conferma di volta in volta, a ogni successivo cambio di proprietario, la sua vocazione di contenitore accogliente e protettivo.
 

Su questa questione, la Parera costruisce anche qualcosa d'altro. La valigia non è solo simbolo del movimento nello spazio, ma diventa anche un vettore che attraversa il tempo. Per essere chiari, un lasso di tempo ben più lungo di quello che può essere il viaggio di una vita. In questo suo lunghissimo peregrinare lei è muta testimone di piccole o grandi porzioni di vita di successive persone, ma lo è anche della Storia quella con la maiuscola. In dettaglio, e qui si rende necessaria una mappa ragionata a fine libro dei singoli fatti storici che, per un pubblico di bambini e bambine italiane, non sono così immediati, almeno non quanto lo potrebbero essere per bambini e bambine spagnole. Infatti per i tre quarti del racconto è la storia e il contesto culturale della Spagna a fare da sfondo. 
 

Tuttavia si rivelano non poche le contingenze con quella che è la nostra storia italiana. La migrazione dalle campagne verso le fabbriche è stata fenomeno dell'intero continente. Lo stesso può dirsi riguardo a chi è fuggito dalla povertà, dalla guerra, dalla persecuzione razziale. Idem per il fenomeno della protesta pacifista.
Il destino della valigia, va da sé, si lega inesorabilmente non solo allo spostamento, ma al fenomeno della migrazione, ovvero dello spostamento per necessità. Da quella di Violeta che fugge dalla guerra e dalla persecuzione, fino a quella di Haya e Alì che aspettano in un campo profughi di Lesbo che anche per loro arrivi il momento di una vita dignitosa.
Se dal punto di vista dei testi, la cura non è sempre impeccabile, al contrario è molto ricercata l'impostazione grafica e i bei disegni  rigorosamente in B/N e rosso.
 

Salvo rare eccezioni, a ogni pagina con un testo che si esaurisce sempre in poche righe, corrisponde un'immagine a piena pagina, di norma sul piatto di destra in cui il rosso assume funzione narrativa esso stesso, punteggiando -  in una composizione molto controllata - il lato emotivo dell'immagine: le cuciture della valigia, i papaveri del campo, il sangue dei morti, la coperta della piccola, le unghie smaltate di Lola. E naturalmente, il cannocchiale di quel bambino a Lesbo che guarda il futuro, il suo meritato futuro, al di là del mare...
 
 
Carla

venerdì 14 dicembre 2018

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


MIGRANDO
 
Un viaggio diverso, Daniel H. Chambers, Federico Delicado
(trad. Elena Cannelli)
Kalandraka 2018


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 6 anni)

"Si misero in viaggio, ma cominciò a piovere e dovettero cercare rifugio.
Piovve per molti giorni, e mentre le oche aspettavano al riparo, gli umani ripresero il cammino, anche se sprofondavano nel fango."


È in questo momento che le loro rotte si incrociano. Le oche hanno il freddo alle spalle e stanno migrando verso sud, come ogni autunno. Gli umani hanno la guerra alle spalle e stanno andando verso nord. Due viaggi lunghi e pericolosi che hanno diverse cose che li tengono assieme. La prima è data dall'impellenza di partire. La seconda è la paura dei piccoli, da una parte la giovane oca alla sua prima esperienza di un volo così impegnativo, dall'altra i bambini che non vogliono lasciare la loro casa, i loro giocattoli e i loro amici.


La terza è data dal muoversi in gruppo. La quarta sta nella fatica. La quinta sono i pericoli in agguato. La sesta, il mare da attraversare.
Ma le due migrazioni per altrettante ragioni le si possono considerare inverse. Opposta è la direzione, opposte sono le tecniche di movimento: Magari poter avere le ali! Opposto il finale. Le oche hanno davanti ai loro occhi l'orizzonte sconfinato; quello degli uomini, di orizzonte, è sbarrato da filo spinato.

Per raccontare la realtà si possono scegliere due percorsi. Si può scegliere la metafora, il simbolo, oppure si possono inanellare i fatti così come sono. Chambers ha preso la terza via, ovvero racconta due realtà e le mette a confronto. Dalla loro relazione reciproca, da quel continuo richiamo dell'una nell'altra riesce a valicare la realtà stessa, conferendo ai termini della questione un valore universale e quindi simbolico.
Ed è proprio nel confronto tra il viaggio degli uccelli e quello delle persone che il lettore fa, pagina dopo pagina, che il dramma della fuga prende ancora più consistenza. 


Senza valicare quasi mai il confine della retorica, Chambers si aggrappa alla realtà delle cose con caparbietà e non si prende nessuno spazio per una propria interpretazione. Il suo scopo è raccontare con l'obiettività dell'osservatore esterno: mantiene in questo suo modo di procedere la necessaria lucidità per non cadere nella trappola della retorica che, visto l'argomento, è sempre in agguato.
A parte un paio di debolezze - Ma esiste un paese dove non ci sia la guerra? Queste sono le acque dove è nata la civiltà - il resto dei testi dimostra sufficiente rigore. 

 
Qual è l'intento di un libro concepito così? Per prima cosa quello di suggerire a chi lo legge l'esercizio del confronto e della riflessione, ovvero quello di non offrire una soluzione scontata, ma al contrario di generare domande, aprire questioni sul significato del migrare.
Il secondo obiettivo sembra proprio quello di non voler smussare gli angoli e le contraddizioni che noi occidentali viviamo nei confronti di chi sta scappando per necessità.
I fatti sono lì a raccontare se stessi.
Non c'è molto altro ed è un bene che sia così.
Resta da augurarsi che insegnanti o genitori rispettino tanta obiettività di visione e non ci mettano troppo del loro per dare una interpretazione a tutto questo.
Lasciate che i bambini traggano le loro conclusioni. Solo così si costruiranno una coscienza. 


Nonostante una citazione degli 'stecchi' di Shaun Tan, il bravo Federico Delicado qui è distante dalle sue belle tavole 'surrealiste'. In questa circostanza si è imposto il realismo nelle immagini, sebbene non tutte siano allo stesso livello di compiutezza e qualità.
Abbandona anche la sua consueta paletta cromatica, accesa e vivace, per privilegiare una scelta di pochi colori, dai toni spenti.
Scelte del genere contribuisco a indirizzare verso una lettura simbolica della difficoltà e della fatica che la migrazione, il viaggio verso l'ignoto, porta con sé.
La tavola finale, se non interpreto male, è un grido forte, un j'accuse, che attraversa la Storia, andando al di là della storia raccontata, per comprendere invece tutta quell'umanità che dietro a un filo spinato si è annullata. 
Bravo.

Carla

martedì 4 agosto 2015

ECCEZION FATTA!


DEDICATO AI BAMBINI IN CAMMINO


La cronaca di questi ultimi mesi non ci ha risparmiato una rassegna di orrori che sembra veramente senza fine e senza limiti: dal bimbo palestinese morto nella casa incendiata dai coloni israeliani, che si contendono la terra con i palestinesi nel nome di un dio; ai morti sui barconi della disperazione, dal grande naufragio di quest'inverno allo stillicidio quotidiano, la cui cronaca, fra le righe, cita spesso bambini e adolescenti; ai bambini e alle bambine che in questi viaggi vengono separati dai genitori e di cui spesso si perdono le tracce; all'uso dei bambini e delle bambine come bombe umane, destinate a straziare il proprio e l'altrui corpo, secondo i dettami di neri califfati e jihadisti assetati di sangue.


Ce n'è per inorridire un po' ogni giorno, così per difesa, forse, o per impotenza, ogni giorno dimentichiamo qualcosa o qualcuno.
Così, in un giorno di memoria, come è il 2 agosto per tutti noi, dedico questa piccola recensione a tutti i bambini e le bambine che stanno scappando dalla guerra, dalla fame, dai soprusi; e la dedico anche alle nostre coscienze pigre, che s'indignano a giorni alterni, a seconda del messaggio mediatico cui sono state esposte.
Il libro di cui vi parlo è Akim corre, di Claude K. Dubois, illustratrice belga, pubblicato alla fine del 2014 da Babalibri. Il libro, un piccolo illustrato, è stato pubblicato nel 2012 da L'école des loisirs in collaborazione con Amnesty International.


Racconta di un bambino che vive la sua vita tranquilla in un anonimo villaggio, fino al giorno in cui questo viene bombardato. Nella confusione che ne deriva, case distrutte, morti, feriti, Akim perde il contatto con i suoi genitori e comincia a scappare insieme agli altri superstiti. Si rifugia in una casa, dove viene aiutato da una mamma con un bimbo piccolo; trova un piccolo giocattolo, un orsetto di pezza. Ma la consolazione dura poco, arrivano i soldati di un esercito occupante che lo prendono per andare in cerca di acqua nei pozzi; poi di nuovo la fuga, l'arrivo in un campo profughi, dove finalmente viene accolto e curato e dove ritrova la madre.


Storia semplice, esemplare, valida per tutte le guerre, che dilagano nel mondo e producono questa grande ondata migratoria che preme ai confini dell'algida Europa; quell'Europa che si considera culla di civiltà e che si barrica, disperatamente e inutilmente, dietro muri e divieti e regole che sono fatte per essere ignorate.
È un libro a tema, una storia che vale per tutte le storie non raccontate e che non conosceremo mai, le storie degli Akim palestinesi, siriani, sudanesi, curdi e così via.


Lo stile illustrativo ricorda moltissimo quello di Gabrielle Vincent: poco testo, a chiarire qualche passaggio, il resto è affidato al disegno, semplice, esplicativo, sui toni del grigio e dell'ocra, appena accennato.
Per chi avesse voglia di approfondire, ricordo il bel libro, curato da Dave Eggers, Erano solo ragazzi in cammino, la biografia di uno dei ragazzi che ce l'ha fatta, arrivando in America dal Sudan, Valentino Achac Deng.
Un modo per esprimere solidarietà è sostenere le organizzazioni umanitarie che, senza retorica e con molto sacrificio, accolgono, curano difendono.


Eleonora

“Akim corre”, C.K. Dubois, Babalibri 2014