lunedì 30 aprile 2018

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


DELLA VERITA' E DELLA NECESSITA'

Nina e Teo, Antonio Ventura, Alejandra Estrada (trad. Elena Cannelli)
Kalandraka 2018


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni)

"'Stai attento, Teo, se non mi ascolti non ti racconterò più nessuna storia.'
L'animale osservò la piccola con sguardo sorpreso. 'Sarà arrabbiata? Sembra di sì..., però non capisco perché mi stia dicendo questo.' Nina smise di guardare il gatto e tornò al suo libro. 'Allora l'orso raccolse con le sue grandi zampe anteriori la topolina...'"



Per terra una bambina, il suo gatto e un libro. Lei sfoglia, racconta, guarda, guarda ancora più da vicino, parlotta con il gatto. Si allontana, va a bere e poi ritorna. Il gatto si struscia, fa le fusa, le si siede davanti e l'ascolta e poi, sul più bello, scompare dalla sua vista, inghiottito da una poltrona. La bambina si interroga se sia davvero lui che fa capolino tra i banchi del pesce disegnati nel libro? Chissà...
Come fanno spesso i gatti, dal nulla, quando Nina è di nuovo sprofondata nella sua lettura, Teo riappare: si insinua nuovamente tra lei e il libro.


Come accade tra bambini e animali, anche in questo preciso contesto, sembra che i due abbiano molto da dirsi.

Di Nina e Teo la prima cosa che colpisce, come è giusto che sia, è la copertina. Poi arriva il nome dell'autore che è garanzia di qualità e stile.
Lo apri, lo sfogli e la seconda cosa che cattura lo sguardo e il tatto è il tipo di illustrazione e il tipo di libro: disegno monocromo dal vero a matita su carta uso mano.
Secondo elemento che accentua la sensazione di non avere sotto gli occhi un libro qualsiasi, ma un libro curato in ogni suo elemento.
A una lettura frettolosa, la prima è sempre così, non ci si accorge, se non in fondo, che tutto quello che si è letto e visto non è esclusivamente una storia affettuosa tra una bambina e il suo gatto.
Non è solo un bell'albo illustrato, ma è anche un regalo. O, per meglio dire, leggendo la dedica, si tratta di un omaggio a Gabrielle Vincent. E allora si ritorna indietro e con un occhio più consapevole, si scopre che il libro fra Teo e Nina e proprio uno dei libri della Vincent. 

 
A ben vedere, nelle pagine gialle si intravede l'orso e la topolina.
L'omaggio però non è solo alla sua arte, ma a tutti coloro che hanno amato le sue storie, i suoi disegni e a tutti quei bambini e bambine che hanno letto di Ernest e Célestine o a tutto coloro che si sono commossi per il suo cane solo sulla strada.
Con paragonabile virtuosismo Alejandra Estrada, in omaggio alla Vincent, ne 'cita' lo stile. Disegna con sole tre matite grasse, con un segno che ha il l'apparente indefinitezza del bozzetto e contemporaneamente la sicurezza della resa di volumi e spazio (e non solo quello della pagina), di corpi reali in movimento.
Ma altrettanto virtuoso e ossequioso nei confronti dell'illustratrice belga, appare il testo a tre voci creato da Ventura.
Come Gabrielle Vincent fece con la sua matita, senza neanche una parola, così anche Antonio Ventura racconta una storia al limite del silenzio, con suggestioni forti che non si chiudono mai in una sola risposta, ma lasciano aria intorno a tutto ciò che l'occhio vede. E in quell'aria si può generare pensiero. 
Cosa si potrebbe chiedere di più a un libro?


In una bella intervista di qualche anno fa Antonio Ventura, scrittore ed editore raffinato e colto, con una passione per la pittura, sosteneva che ogni libro per essere un buon libro deve essere il frutto costante di una ricerca da parte dell'autore verso verità e necessità. Mi pare che entrambe qui ci siano, tanto nelle parole quanto nel disegno: l'urgenza di entrambi gli autori di rendere omaggio a una grande artista, e al suo modo di raccontare; l'urgenza di farlo sotto forma di storia illustrata per i più piccoli. E la verità? È in quello splendido -perché così sapiente e consapevole- modo di disegnare bambini e gatti che dimostra Alejandra Estrada; ma anche in quel delicato modo di raccontare con poche parole l'infanzia e la gattitudine, rispettandone tutti i misteri che le rendono, entrambe, imperscrutabili.



Non è il primo libro in cui Ventura e Estrada si incontrano. Viene da pensare che li tenga insieme con così tanta armonia il loro modo di essere nel mondo. Tutti e due, con percorsi ed esiti diversi, hanno più volte dimostrato di aver bisogno di una sconfinata libertà di azione. Entrambi non sono capaci di accontentarsi di un unico mestiere, ma spaziano in molteplici direzioni. L'editoria, l'illustrazione, la scrittura, l'insegnamento, l'arte....


Entrambi, poco o affatto frequentati dall'editoria italiana, meriterebbero ben altra attenzione. In particolare Alejandra Estrada, mai pubblicata in Italia, pare abbia molto da dire sia nel campo dell'illustrazione, sia nel campo artistico più puro. Il suo percorso, guardando le opere d'arte che concepisce, attesta quanto sia labile, talvolta, il discrimine fra questi due codici espressivi; essi sono a tutti gli effetti campi di sperimentazione. E non è un caso che sempre più spesso si individuino punti di tangenza tra l'illustrazione e la pittura e che sempre di più la prima sia da considerare come imprescindibile fonte di ispirazione per la seconda. 

Carla 




venerdì 27 aprile 2018

UNO SGUARDO DAL PONTE (libri a confronto)


DI DONNE E LIBERTA’


Nella stagione delle biografie storiche e della riscoperta dei personaggi femminili che hanno segnato a vario titolo la storia, vorrei proporre un altro sguardo sulla questione di genere.
L’occasione è la ristampa de La parità a piccoli passi, di Carina Louart e Pénélope Paicheler, pubblicata nel 2008 dalla piccola e coraggiosa casa editrice Motta Junior, poi assorbita dal gruppo Giunti.
La collana A piccoli passi è un esempio eccellente di testi di divulgazione, tascabili, non troppo impegnativi, senza effetti speciali, con un linguaggio semplice, ma contenuti spesso complessi. Il declino della casa editrice che l’aveva tradotta dall’editore francese Actes-sud, ha portato anche all’oblio per questa collana, ora riproposta dall’editore fiorentino che ha acquisito Motta junior.


A dieci anni di distanza questo volumetto, dedicato alla parità di genere, mostra tutta la sua attualità; in poche pagine ripercorre i diversi aspetti delle discriminazioni operate nei confronti delle donne attraverso i secoli. Certo, come volume indirizzato a ragazzini e ragazzine fra la fine delle elementari e l’inizio delle medie, non può avere né profondità di analisi né grandi sfaccettature, ma, come dire, mette le cose un po’ in ordine. In primo luogo ripercorre le tappe dell’emancipazione femminile, in sostanza posta come esigenza dalla Rivoluzione Francese in poi. Nello stesso tempo evidenzia i numeri della discriminazione nei diversi ambiti, l’istruzione, il lavoro, i diritti politici. Ai quattro angoli del pianeta. Ci ricorda, così tanto per dirne una, che il diritto di voto delle donne è stato esercitato per la prima volta in Italia nel 1946, e che tuttora sono grandi le disparità in termini di presenza ai vertici dello Stato, delle grandi aziende, nella politica, ambito nel quale il nostro Paese è in un risibile ritardo.
Tutto questo che per noi, lettrici e lettori adulti, ha il sapore della retorica, dal punto di vista di chi comincia a costruire la propria vita può essere un’importante luce su una realtà diversa dalle dichiarazioni di formale parità. L’abbiamo detto molte volte, il pregiudizio passa spesso attraverso le apparenze rassicuranti della vita quotidiana. Dunque bene che le bambine sappiano che il loro successo nel conquistare la vita che desiderano è frutto di lotta, di costanza, di tenacia. E che con tutta probabilità, il riconoscimento del proprio lavoro sarà di gran lunga inferiore a quello di un pari grado maschio.
Fin qui dunque, i numeri e la storia delle discriminazioni basate sul sesso. Ma c’è un aspetto in particolare che mi preme sottolineare, perché tendiamo a dimenticarlo, trattandosi di forme di violenza diverse da quelle che ci testimoniano i fatti di cronaca. In molti paesi, il corpo delle donne è oggetto di scambio, è merce, è prezzo di guerra. Queste sono forme odiose di violenza di cui sono oggetto le bambine, le ragazze, le donne, nate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Lontane dagli occhi, lontane dal nostro cuore che pulsa a corrente alternata.


Di matrimoni combinati e spose bambine parla, ad esempio, l’albo illustrato di Paola Formica, pubblicato l’anno scorso da Carthusia. Cuore di tigre, un efficace silent book, racconta la storia di una sposa bambina, orrore fra i tanti orrori di cui è oggetto il corpo di una donna. Il cuore di tigre è la capacità, o la possibilità, di ribellarsi, di sottrarsi a un destino che sembra già scritto. Le immagini ci descrivono una madre che consegna la figlia a un vecchio, un uomo che acquisisce il potere di vita e di morte su quella bambina. Devo dire con raro equilibrio, questo albo riesce a trattare un tema difficile con delicatezza e la giusta dose di rabbia. Quanto tempo ancora ci vorrà perché queste pratiche, come molte altre che mutilano e offendono il corpo delle donne, finiscano? E quanto tempo ci vorrà prima che le guerre smettano di fare strazio dei corpi delle donne e dei bambini, che sono le prime vittime delle guerre moderne?


Con molta tristezza, ma senza rassegnazione, vorrei dedicare queste righe alle ragazze del Rojava, le combattenti curde che stanno provando a portare la loro Liberazione nei territori sottratti all’Isis. Probabilmente destinate alla sconfitta. Sicuramente la dimostrazione che la libertà delle donne è la libertà di tutti.


Queste sono, dunque, letture impegnate per bambine e ragazze, ma anche bambini e ragazzi, che vogliano guardare il mondo con consapevolezza.


Eleonora

“La parità a piccoli passi”, C. Louart e P. Paicheler, Motta junior 2008, Giunti 2018
“Cuore di tigre”, P. Formica, Carthusia 2017


mercoledì 25 aprile 2018

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


IN BILICO SULLA MEZZALUNA

La ricetta della strafelicità, Matteo Razzini, Alessandro Ferraro
(trad. del testo in inglese Sylvia A. Notini)
Corsiero editore 2018


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 7 anni)

"L'estate era il periodo dell'anno che Michele amava di più, perché poteva passare molto tempo da solo con la nonna Isa: la sua gioia più grande era di vederle cucinare la strafelicità. La nonna la preparava seguendo una ricetta segretissima, che custodiva gelosamente tra le pagine di un quaderno a quadretti.


'Un pomo d'amore sopra al tagliere:
trita, sminuzza, poi stallo a sentire;
La voce suadente
induce al pianto
che infine fiorisce
e diventa incanto!'"

Comincia così la ricetta della strafelicità. Occorre pesare la gioia e il ricordo di un succo d'arancia, aggiungere il burro alla nebbia e, tra vulcani di farina che covano uova, tutto si mescola con il cielo azzurro. È una ricetta che mischia ingredienti comuni a ricordi, sensazioni, emozioni e odori. Ma come tutte le ricette per cui valga la pena, deve passare di mano in mano. La nonna lo sa bene e la custodisce fino al giorno in cui il signor Lafine, avvolto nel suo grande mantello, con quella testolina scheletrica, la porta via con sé. '...ma tu continua a cucinare la strafelicità'...
In un inseguimento che ha il sapore del sogno, Michele attraversa grandi spazi, incontra mille cuochi e una giovane donna che lo riporta al punto di partenza, la casa della nonna Isa e soprattutto al quaderno a quadretti. Nelle sue pagine però non è segnato nessun ingrediente: spetta a lui, che viene dopo, scriverla, la ricetta.
Ripercorrere con la mente i sapori, gli odori, i giochi e il tempo passato con lei guideranno la sua penna. E Michele, il bambino che era maldestro, oggi è un cuoco al suo primo giorno di lavoro. In tasca, la ricetta e una foto.

I libri, come molti altri manufatti, hanno bisogno di precisi ingredienti e di un po' di arte nel metterli assieme.
I buoni libri nascono da buone ricette e da buone materie prime. Hanno bisogno di un testo (non sempre), di figure (non sempre), di carta, di colore, di cura e attenzione e di un buon cuoco che li sappia dosare con sapienza. 


Prendendo in mano La ricetta della strafelicità, ancora prima di aprirlo, ci si accorge che c'è qualcosa che ha a che fare con l'equilibrio, ovvero con la labilità dello stesso: un braccio di stadera da cui pende un donnone in altalena entra da sinistra (da contrappeso in quarta di copertina c'è un ragazzino e una mongolfiera che regge il tutto). Unica nota a colori, a parte titolo ed editore, in un mare di grigio in cui caracollano bilance tra mucchietti di farina che nascondono tuorli per l'impasto.
Ecco, l'equilibro mi sembra una dote che una buona ricetta, così come un buon libro devono avere.
Se apriamo il libro, ancor prima del frontespizio, appare la pagina della dedica, a Gianni De Conno, allagata in un cielo di notte, con un ragazzino, di nuovo in bilico su un pomello di legno della mezzaluna. L'anomalia è che non sia una pagina bianca, come spesso succede. No, questa è la pagina della cura, ovvero quella che, forse, Alessandro Ferraro ha composto pensando ai cieli notturni di De Conno, oppure che l'editore ha voluto ricreare in vitro proprio qui per permettere a chi legge di fare un grande respiro silenzioso prima di oltrepassare la soglia che lo porti alla storia. 


Comunque sia andata, la cura e l'attenzione sono lì, palpabili, nella carta uso mano che ti senti tra le dita, nei colori pastosi e tenui, nelle ombre ripassate a tratteggio. Nella legatura cucita. Stiamo entrando in un libro di altri tempi, in cui il tempo per la cura del dettaglio è valore in sé. Continua il gioco di equilibri che Ferraro immagina per il testo di Matteo Razzini, a sua volta oscillante tra prosa e poesia. Anche il bambino Michele, d'altronde, è uno che rovescia ogni cosa, non ne combina mai una per dritto. Nulla, o ben poco, in questo libro è perfettamente dritto. L'instabilità è nei castelli di oggetti che Ferraro gli fa costruire e nella corsa verso la pagina che segue. Tutto oscilla, tutto si muove e va avanti. A questo si aggiunge lo stupore per gli oggetti, i moltissimi oggetti, messi in scena: diventano grandi, si personificano e si animano, camminano anche loro e vanno.



Cambia sempre la visuale, lo spazio tra testo e immagine: spesso tavole a piena pagina in cui Ferraro inventa un mondo tra la metafisica e il surrealismo, e, mi pare, ricordi un maestro di molti, Tullio Pericoli. Si sovvertono le proporzioni, si apprezzano i panorami aperti verso un grande orizzonte, si gode l'invenzione che fa viaggiare sull'acqua padelle come piroscafi, che trasforma i cuochi in Pulcinella giganti dalle maschere nere naso-beccute.


E su tutto si diffonde l'aroma del caffè appena fatto. Mentre questo accade davanti al nostro sguardo, il testo va avanti a raccontare, quasi si potrebbe dire, a cantare tanto la voce deve rimanere alta nella lettura. Questo è il merito di Matteo Razzini: quello di immaginare un testo nella sua oralità e di riportarlo, qui con una qual sapienza, sulla pagina scritta. A lui vanno anche riconosciuti due altri meriti: di aver saputo mescolare cose anche molto diverse e di aver dato un 'tono sempre in bilico' alla storia che passa per il sogno, l'assurdo, l'emotività e che nei disegni trova una meravigliosa quanto originale interpretazione.

Carla

Noterella al margine. Del tutto inspiegabilmente, Matteo Razzini ripone in me grande fiducia e stima. In nome di questa responsabilità, devo ammettere che nel testo, a mio personalissimo parere, ci sono sei righe di troppo: come al solito, le ultime. Per la precisione sole ventitré parole che sono lì a spiegare tutto ma proprio tutto e a rimettere in ordine ciò che era rimasto, meravigliosamente, in sospeso.

lunedì 23 aprile 2018

FAMMI UNA DOMANDA!


YAYOI O DELL’INFINITO

 La collana che l’editore Fatatrac pubblica in collaborazione con il MoMA di New York diventa ogni volta più bella, o almeno così a me pare. In questo volume, dedicato all’artista giapponese Yayoi Kusama, viene raggiunto un raro equilibrio fra un testo essenziale e molto chiaro e le immagini, che invadono la pagina, evocando quell’idea di infinito che l’artista giapponese ha sempre inseguito.
Yayoi è nata in Giappone ottantanove anni fa; la sua infanzia pareva destinarla a una vita ordinata di gentile ed elegante consorte di qualcuno, ma la piccola Yayoi aveva chiaro in mente quale dovesse essere il suo destino e per dare voce al suo prorompente e ossessivo talento si è presto trasferita a New York, dove, dopo anni di duro lavoro, la sua poliedrica arte ha preso forma; per poi tornare in Giappone, ormai aperto alla visionarietà provocatoria dell’artista.


L’arte di Yayoi vive di ripetizioni e questo non è che un modo di rappresentare l’infinito, come riproposizione ritmica di forme, pallini, linee, luci che si riverberano una nell’altra senza interruzione. Nelle belle illustrazioni di Ellen Weinstein si rende bene l’idea di questa infinita matrice che trascende il limite di una tela e invade l’ambiente circostante conquistando la tridimensionalità; così come in Infinity Mirrored Room è la luce a riflettersi in un gioco di specchi contrapposti che ne moltiplicano la presenza nello spazio. L’artista giapponese non ha disdegnato la collaborazione con importanti maison di alta moda e si capisce anche perché: nel suo mondo a pallini ogni cosa è pervasa e trascesa nella ripetizione delle forme.
 

Certo, è difficile rendere un’opera d’arte, che chiede il grande respiro di spazi che vanno agiti dallo spettatore, in una pagina stampata. Ma la suggestione c’è tutta, così come il sintetico testo di Sarah Suzuki riesce a contestualizzare un progetto creativo originale.
Questo è uno di quei libri di divulgazione artistica che maggiormente mi ha convinto, nelle produzioni più recenti: proprio perché l’arte contemporanea è così difficile da spiegare, per renderne la complessità dietro l’apparente semplicità, mi sembra efficace far parlare le immagini attraverso la storia dell’artista, il suo percorso creativo. Ogni bambina e bambino può immedesimarsi nell’universo ossessivo di Yayoi, nella sua ricerca estenuante di una rappresentazione impossibile, portare l’infinito in uno spazio finito.


Yayoi Kusama. Da qui all’infinito è un libro prezioso, polivalente, adatto a spiegare, ma anche a proporre attività; lo consiglio caldamente agli appassionati/e di arte, piccoli/e o grandi/e che siano.

Eleonora

“Yayoi Kusama. Da qui all’infinito”, S. Suzuki e E. Weinstein, Fatatrac 2018


domenica 22 aprile 2018


LIEVEMENTE DIVERSA

I compleanni tondi hanno a mio avviso un fascino particolare e quello dei sessant'anni non è cosa che ti capita due volte nella vita.
Non può e non deve passare inosservato, un giorno così.
Se l'ignavia da parte dei familiari lo ha reso un giorno qualunque è compito degli amici e delle amiche provvedere e renderlo lievemente diverso.
Ed eccoci qua, a tramare con la libraia accogliente per organizzare gli inviti di una piccola ma proprio piccola festa a sorpresa. Nella notte preparare panini con il salame (come nelle feste dei bambini) e una torta lievemente diversa, la chiffon cake, secondo la ricetta australiana di Zoe. Consiglio di leggere l'intero post perché è un capolavoro di abnegazione in cucina. Alta 12 cm senza neanche un granello di lievito.

Ingredienti per una chiffon cake da 20 cm di diametro

per l'impasto (tutti gli ingredienti devono essere a temperatura ambiente)
100 gr di rossi d'uovo (circa 6)
50 gr di olio di semi di girasole
100 gr di latte
120 gr di farina 00
1/4 di cucchiaino di sale fino
per gli albumi (rigorosamente devono essere a temperatura ambiente)
210 gr di albumi (circa 6)
100 gr di zucchero


Preriscaldare il forno in modalità statica a 160°
In una ciotola mettere i rossi con l'olio e miscelarli molto bene con la frusta, quindi aggiungere nell'ordine il latte, la farina setacciata, il sale. Mescolare molto bene fino a che l'impasto si presenti liscio e lievemente montato.
A questo punto dedicarsi alle chiare che devono essere montate a neve fermissima con grande attenzione. Usare le fruste elettriche alla velocità più bassa, ovvero 1 per 10 minuti (non uno di meno) quindi aggiungere lo zucchero poco per volta e continuare a montare a velocità 2, fino a che non si crea il famoso 'baffo', ovvero un altro paio di minuti.
Poco per volta e molto lentamente incorporare all'impasto con i tuorli le chiare montate a neve, girando dall'alto in basso. Rompere sempre con molta delicatezza i possibili grumi di albume gonfio. L'operazione può durare almeno 5 minuti.
Versare l'impasto nella tortiera da chiffon cake che NON va unta o foderata.
Dare un paio di colpetti alla tortiera perche l'impasto si disponga con omogeneità. Con uno steccone da spiedino rompere eventuali bolle d'aria in superficie e sul fondo.
Informare la tortiera nel ripiano più basso e cuocere per un'ora tonda. Quindi abbassare la temperatura a 140° e cuocere almeno per un altro quarto d'ora abbondante, contollando che la superficie (che dovrebbe essersi gonfiata e spaccata come un soufflé) non brunisca troppo. Fare la prova stecchino e se esce asciutto, togliere la tortiera dal forno, farla cadere sul ripiano da un'altezza di 10 cm. per assestarne l'interno. Capovolgere la tortiera e lasciare freddare per almeno 6 ore. La torta non dovrebbe staccarsi dalle pareti della tortiera.
Una volta passato questo lunghissimo tempo, rimettere la torta in posizione eretta e con un coltello dalla lama sottile e lunga (ideale quello da prosciutto) tagliare intorno in modo che si stacchi dai bordi, quindi rigirare nuovamente la torta e staccarla dal fondo con il medesimo procedimento.
Per la glassa, vedete la ricetta dalla prima chiffon cake.
a questo punto non vi resta che comprare le candeline....

 Carla

venerdì 20 aprile 2018

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


ALLA FINE DELLA FIERA

La grande ruota, Christine Beigel, Magali Le Huche 
(trad. Tommaso Gurrieri)
Edizioni Clichy, 2018


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni)

"'D'accordo pollastra! Se terrò aperta la mia ruota fino alla fine della fiera, tu e i tuoi amici rimarrete lì ad ammirarmi fino alla fine della vostra vita di piccoli miserabili mostriciattoli!' 'E se non ce la fai?' Che domanda stupida!' 'La fiera dura una settimana... sette gio...' Ce la farò!'"

La sfida è stata lanciata ed è stata anche raccolta. 


Esasperati dalla vanità e dalla superbia del pavone e stanchi di essere dileggiati tutto il giorno, i suoi tre vicini di tana - la gallina che non sa far le uova tonde, la lumaca che sbava e la puzzola (o donnola che sia) che puzza - si organizzano e la provocano nel suo punto debole: la sua meravigliosa ruota di piume. Mentre il pavone è tutto intento a sfoggiarla, la gallina suggerisce ai suoi compari un'idea. Una buona idea: in paese c'è la fiera, dove una meravigliosa ruota di lunapark fa mostra di sé, facendo luce e musica tutto il giorno e tutta la notte e, soprattutto, non chiudendosi mai. Il paragone, seppure assurdo, è lì a disposizione. Ruota contro ruota. Il pavone, tronfio, si mette in competizione con il suo avversario meccanico, con la certezza di avere già in pugno la vittoria.


A onor del merito va detto che la sua tenacia lo rende tonico fin quasi all'ultimo. A un palmo dalla vittoria, la ruota di piume è ancora tutta aperta a far sfoggio di sé, tanto che i suoi tre vicini, dubitando sia stata una buona idea provocarlo così, temono il peggio e si votano a santa margherita. Se il pavone terrà la sua ruota aperta fino alla fine della fiera, lui avrà il diritto di prendersi gioco di loro per il resto della vita. Tuttavia, in qualsiasi gara sono gli ultimi istanti quelli che fanno la differenza e che richiedono il massimo dell'impegno e tanto sudore...

Costruito esclusivamente sul dialogo, questo libro ha due principali punti di forza. Il primo è proprio il ritmo della narrazione, così tanto vicina al fumetto, da adottarne spesso e volentieri anche i grandi ballon. Ma se un fumetto letto a voce alta si sbriciola nelle orecchie di chi ascolta, qui accade esattamente l'opposto. Un sapiente dosaggio ed equilibrio nei dialoghi serrati, ma anche e spesso ellittici, rendono La grande ruota un libro molto adatto e piacevole alla lettura condivisa. Giocato tutto sul contrasto tra un pavone vanesio e tre bestioline in cerca di riscatto sociale, il libro diventa terreno fertile per un' interpretazione psicologica dei personaggi. E la voce potrebbe andargli dietro... 


E camminando proprio in questa direzione, si arriva al suo secondo grande merito. Il disegno nelle mani di Magali Le Huche. Qualsiasi cosa lei illustri, fosse anche l'elenco del telefono, si riempie di così tanta ironia, da risultare inevitabilmente divertente. E' un'arte rara quella di insinuarsi negli spazi muti del testo e di riempirli di tanto altro.
Il gioco di sguardi è una delle sue armi migliori, per cui anche gli occhi di una lumaca piccoli piccoli sono in grado di indirizzare il tono di voce e farlo diventare esausto, così come lo sguardo tagliente della gallina diventa una meravigliosa smentita della sua proverbiale stupidità. La puzzola/donnola (sono cugine anche in natura) nel suo sorriso costante e nel suo sguardo sempre un po' troppo pieno di stupore, sembra incarnare il ruolo del 'gregario' a vita. Un babbeo buono. E poi c'è il pavone che comunica non solo con gli occhi, ma anche e di più con le sue piume che diventano barometro del suo umore. Il tocco magistrale però sta in quella toilette da camerino che si intravede in un paio di tavole e che rappresenta meglio di ogni firma in copertina, la cifra della Le Huche.


Nonostante il finale pacificatorio, non proprio all'altezza del tono generale della storia, sarebbe più utile non tanto cadere nel 'trappolone' del Leitmotiv della vanità punita, quanto piuttosto andare a spigolare con i piccoli lettori su una questione apparentemente marginale. Cosa ne sarebbe della vanità del pavone se non ci fossero i suoi tre vicini di tana?

Carla


Noterella al margine. Desidero formalmente dedicare qui un pensiero a quel pavone che ieri intorno alle 20.30 si aggirava per i vialetti di villa borghese. Nel suo progetto di esplorazione del mondo dell'aldilà (inteso come al di là della recinzione) che lo aveva allontanato dai più sicuri vialetti dell'attiguo bioparco, il poveretto, viste persone e auto in movimento, si pentiva amaramente della scelta e goffamente tentava di recuperare la strada di casa, stampandosi sull'inferriata e precipitando rovinosamente nell'erba alta che, per incuria del servizio giardini della capitale, pietosamente copriva la sua vergogna.

mercoledì 18 aprile 2018

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)


FRATELLI



Sembra una ragazzata qualsiasi, l’impresa architettata da Martin, insieme al fratellino Charlie, a un anno di distanza da una mitica vacanza in Cornovaglia.
Si tratta, in realtà, di una difficile impresa, con aspetti assai contraddittori. Vuole infatti ritornare, ovviamente di nascosto, a St Bernard's, la località turistica dove hanno passato le vacanze con la famiglia l’anno precedente.
E’ il protagonista, Martin, a raccontarci la storia in prima persona, descrivendo con precisione maniacale le tappe di questo viaggio, non troppo lungo, ma abbastanza complicato da mettere in crisi le capacità organizzative di un tredicenne.
Il ragazzino, dunque, si sveglia all’alba e senza dire niente a nessuno, comincia il viaggio in treno, che prevede diverse fermate e cambi, insomma una cosa complicata di per sé, soprattutto se si è dei fuggitivi. Si è ben preparato, nel suo zaino ci sono dei biscotti speciali e il quaderno per scrivere poesie, quello che gli ha suggerito un saggio professore.
Perché c’è bisogno di questo viaggio avventuroso e complicato? Perché la vacanza dell’anno precedente è stata davvero speciale: Charlie, il fratellino nato prematuro e di salute cagionevole, lì ha vissuto la sua avventura più bella, un delfino che ogni giorno, con l’alta marea, si ripresentava nel porto di St Bernard's.
Naturalmente la storia non è tutta qui: tutto il romanzo, L’Oceano quando non ci sei. Storia di due fratelli e dell’estate che cambiò la loro vita, di Mark Lowery, è disseminato di indizi, che man mano fanno crescere nel lettore qualche dubbio su Charlie, fratellino ciarliero, che si nasconde ogni volta che si presenta qualche altra persona.
L’estate del delfino è stata un’estate indimenticabile anche perché Charlie ha voluto tuffarsi per salvare quello splendido animale, rimasto impigliato in una rete di pescatori.
L’avrete capito, Martin sta viaggiando da solo e la scatola che porta nello zaino non contiene biscotti.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a un romanzo decisamente ed esplicitamente rivolto a un pubblico di ragazzini/e, che si incentra sul tema del lutto e degli affetti familiari: su quanto possa essere devastante il rinchiudersi ciascuno nel proprio dolore, perdendo di vista il bisogno di vicinanza dei più fragili. Quanto il dolore possa allontanare gli uni dagli altri. E quanto sia necessario saper ricominciare a vivere.
Qui, l’argomento è trattato con delicatezza, anche con ironia, nel ricostruire il rapporto fra i due fratelli. A parte un eccesso di enfasi nel capitolo finale, che segna il ricongiungimento della famiglia, lo stile di Lowery è misurato, riesce a far concentrare il lettore sulle vicissitudini del viaggio, distraendolo dai molti indizi di cui è disseminata la narrazione e che annunciano il colpo di scena. E’ un modo quasi ellittico, indiretto di affrontare un tema dal forte coinvolgimento emotivo, spingendo, per tutta la prima parte del romanzo, su registri ‘leggeri’, il viaggio, la bravata, il rapporto ambivalente fra i due fratelli.
E’ una lettura coinvolgente, non sempre convincente, adatta a lettrici e lettori a partire dagli undici anni.

Eleonora

“L’Oceano quando tu non ci sei. Storia di due fratelli e dell’estate che cambiò la loro vita”, M. Lowery”, De Agostini 2018


lunedì 16 aprile 2018

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)


I FIORI DELLA PICCOLA MURGIA

I fiori della piccola Ida, Hans Christian Andersen, Daniela Iride Murgia
Edizioni corsare 2018


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 7 anni)

"'Quando tutti dormono e fuori è buio, i fiori si svegliano e saltano allegramente dappertutto e ballano per un tempo che sembra eterno'. 'E può un bambino andare a questo ballo?' 'Certo!' replica lo studente. 'Tutti quei bambini che sono come piccole margherite e mughetti.' 'E dov'è che ballano i fiori?' chiede Ida."

La piccola Ida si interroga sul perché i fiori del suo mazzolino fino a ieri avevano le corolle alzate e ora invece hanno i petali avvizziti. 


Seduto sul divano, lo studente, al quale la bambina vuole molto bene perché ritaglia per lei figurine meravigliose di carta, le racconta che i fiori ballano nel castello estivo del re e della regina: sul trono si dispongono le rose e nella grande sala al loro cospetto ci sono violette, giacinti e crochi, tulipani e gigli gialli. E tutti ballano.
Ballano tutta la notte, continua il racconto, e Ida se lo vorrà, potrà vederli dalle grandi vetrate. Nonostante il Cancelliere, amico di famiglia, sostenga che ciò che lo studente ha appena raccontato siano tutte sciocchezze, la piccola Ida ha creduto a ogni parola. E se davvero i fiori il giorno seguente sono stanchi per aver danzato tanto a lungo, sarà gentile - pensa la bambina - dar loro un confortevole lettino: quello della sua bambola Sofie che viene momentaneamente relegata in un cassetto.
Arriva la notte e Ida va a letto, ma nel silenzio sente suonare una musica e di soppiatto, al buio, apre una porta e davanti agli occhi assiste a una grande meraviglia. Nel salotto di casa sua, a danzare non ci sono solo i suoi fiori, ma anche quelli del castello reale, appena arrivati: violacciocche garofani, campanule, bucaneve e pratoline. Con loro danzano anche la bambola Sofie, il pupazzo di cera e l'omino brucia incenso.
Tuttavia, alla luce del giorno seguente, a Ida non resta che constatare che i suoi fiori sono definitivamente appassiti. E' giusto che sia così e alla piccola non rimane che dare loro regale sepoltura con anche l'onore delle armi. Lei sa, in cuor suo, che a primavera tutti loro ricresceranno più belli che mai.


Tra le prime cinque fiabe che Andersen vede pubblicate nel 1835, c'è I fiori della piccola Ida. La fiaba, con tutta evidenza non si lega alla tradizione popolare danese, ma è piuttosto il frutto della sua invenzione, o per meglio dire, trova l'ispirazione di partenza da un episodio realmente accaduto al giovane Andersen.
A contribuire alla definizione di un contesto tutto ottocentesco, a lui contemporaneo, compaiono lo studente, quel barbogio del Cancelliere, e i moltissimi oggetti citati, che erano arredo consueto della maggior parte delle case signorili. Ancora di più circoscrive l'ambito quell'allusione all'arte del ritaglio della carta di cui Andersen in prima persona era maestro. Di lui si racconta girasse sempre con un paio di forbici in tasca, con grave rischio di incolumità per i suoi vestiti e per le sue natiche e ancora oggi più di mille dei suoi magnifici ritagli sono conservati nel museo di Odense.


I fiori della piccola Ida, in questa bella traduzione libera di Daniela Iride Murgia, appartiene a uno dei filoni più fecondi e originali della grande produzione di Andersen: quello che racconta la poesia degli oggetti. Le anime, le vite silenziose e nascoste dell'ago da rammendo, del soldatino di stagno, della trottola e della vecchia palla di cuoio. Un mondo quotidiano, fatto di giocattoli, utensili, oggetti comuni che si animano: parlano, soffrono, vivono una loro esistenza che sfugge agli occhi dei più. Andersen, in questo caso rappresentato da uno studente, e con lui i bambini, in questo caso rappresentati dalla piccola Ida, immaginano che tutto ciò che 'abita' il mondo possa (e debba) vivere di vita propria: da una monetina a un pisello che, chiusi in una tasca o in un baccello, si sentono soffocare, ai fiori che ogni sera amano sfiorire ballando.
Devo dirlo, è il mio Andersen preferito questo, il più moderno, il più interessante, il più fecondo e originale. E anche il più libero.
La stessa fecondità, originalità e libertà che si leggono nella fiaba hanno un preciso riscontro nell'illustrazione. 


In un solco ben preciso che rende i libri della Murgia stranianti e per questo riconoscibili a grande distanza, non si può non notare che qui la cifra si arricchisce di un qualcosa che ha il tono dell'omaggio, del debito di riconoscenza. Su un tessuto 'lussureggiante' non necessariamente nordico con agavi, cactus e palmizi che spuntano ovunque il primo omaggio è al tema della fiaba: un albo di botanica.


Ma non basta: a questo si aggiunge quello diretto all'arte del ritaglio di Andersen, ma anche quello alla terra di Danimarca, dalle bandierine alle torri poligonali e alle guglie del castello di Kronborg. E, ancora, alle Fiandre. E più in dettaglio alla pittura fiamminga di botanica di matrice marreliana, in quel tulipano solitario, il semper Augustus, come pure nelle conchiglie e nei molti insetti che punteggiano le pagine, ma anche nelle tipiche facciate a gradoni di Bruges.


C'è anche molto altro, va da sé.


Daniela Iride Murgia complica, allude, mischia, confonde, nasconde e mette in luce cose sempre diverse con linguaggi espressivi altrettanto diversi. Dall'incisione ai pastelli, dalle silhouette ai tessuti e ai parati. Passa dalle complesse architetture di un bovindo all'incisione di facciate di palazzi medievali o rinascimentali, dalla luce radente che filtra da un vetro al giallo puro sull'intera pagina (che torna quando meno te lo aspetti), dal profilo di una carta tagliata, a una porta che allude al coperchio di uno scrigno.
E mentre fa tutto questo, lo sguardo -inconsapevole di un bambino- si nutre e, facendolo, si abitua alla complessità e al bello.



Carla

Noterella al margine. Detto tutto questo, potrebbero assumere senso anche i risguardi dove si legge in trasparenza, come su ogni pagina di quaderno di computisteria, una colonna per Avere e una colonna per Dare.