mercoledì 31 luglio 2024

FAMMI UNA DOMANDA!

A PIEDI NUDI NEL PRATO


Torna Marieke ten Berge con un nuovo libro che immediatamente si connette visivamente al bellissimo Nord, pubblicato nel 2021 e vincitore del premio Andersen 2022 come miglior libro di divulgazione. Rispetto a Nord cambiano due cose principalmente, e invece alcune si riconfermano. 
Cambia, ovviamente, lo scenario e con questo anche l'autrice dei testi. Resta invece, che in qualche modo rappresenta la forza di un libro del genere, l'impostazione e l'apparato iconografico. 
Eva Moraal ai testi e Marieke ten Berge alle illustrazioni sono accomunate da varie passioni: una su tutte l'osservazione della natura. Ma in questo libro a tenerle assieme è anche la zona di provenienza: entrambe infatti sono olandesi ed entrambe hanno una relazione piuttosto stretta con il polder. 


Nei Paesi Bassi - che non si chiamano così a caso - gli uomini (un po' come i castori) hanno imparato a costruirsi "la terra da soli", ossia hanno imparato a recuperare dall'acqua pezzi di terra che vengono usati per coltivare e in alcuni casi per costruirci sopra.
Nei Paesi Bassi, sono loro stesse a dichiararlo nella breve introduzione al libro, tutto è artificiale, persino i terreni che si incontrano fuori dai villaggi o dalle città. Con un complesso sistema di canalizzazioni, di dighe e di mulini a vento, le zone costiere, che sono a un livello inferiore rispetto a quello che raggiunge l'alta marea, sono state, per così dire, bonificate e strappate al mare, ossia rese asciutte e 'calpestabili'. Nel polder, tra paludi e acque basse, i nederlandesi coltivano e hanno anche costruito piccoli insediamenti. 
Questa è la ragione per cui il libro originale, edito da Lemniscaat, si intitola Polder e in italiano invece è diventato Tra mare e terra. Tutti i giovani lettori nei Paesi Bassi sanno cosa sia il polder, quelli italiani no! 
Il polder - e qui c'è l'altro aspetto interessante che tiene insieme la stragrande maggioranza dei volatili citati - è la loro pista di rullaggio verso i grandi viaggi migratori che li portano al caldo. 


La struttura vista nel suo libro precedente è perfettamente rispettata anche qui: trentacinque animali che si presentano, raccontando di sé abitudini, curiosità, pesi misure e aspetto. 
Come nel precedente, accanto ai dati che di più ci si aspetta in un libro del genere, si affiancano curiosità interessanti che possono catturare l'attenzione anche dei più piccoli. Ma non solo.
Alcuni tra gli animali citati credo che rappresentino una assoluta novità nel vocabolario e nell'immaginario animale che i bambini italiani hanno: il pettazzurro, il frullino, la sfinge della vite, il combattente, il tritone crestato o la pittima reale. Altri invece sono ormai acquisiti: penso al castoro, alle rondini (che, però, garriscono e non cinguettano...), al tasso, al riccio, al capriolo, e ai conigli e alle lepri. 


La cosa che succede, fin dalla prefazione e che anche in Nord aveva caratterizzato il tono del testo, è il continuo riferimento diretto al devastante ruolo e predominio che l'uomo, l'animale umano, esercita sull'ambiente e sugli habitat di queste creature. 
Già nella prefazione possiamo infatti leggere: 
Nei Paesi Bassi l'uomo viene al primo posto, rispetto agli altri animali (e altrove sarà diverso?). Il paese è organizzato per gli esseri umani. Ma è giusto che sia sempre così? Gli animali di questo libro hanno un bel po' di cose da dire a questo proposito... 
E su questo si possono cogliere, fior da fiore, notizie interessanti: il castoro per un lungo tempo era stato considerato quasi estinto perché dopo le pellicce, l'uomo gli ha dato la caccia per estrarre, dalle ghiandole perianali di maschi e femmine, il castoreo che poi finiva - ironia della sorte - in alcuni profumi costosi e famosi. Invece il povero frullino combatte una battaglia persa contro il piombo nell'acqua. Quale bambino non ha visto invece i ricci ridotti a frittata lungo le strada. E perché succede? Perché lontano dai centri abitati non riesce quasi più a trovare un posto tranquillo dove abitare. O ancora gli uccelli spatola finiscono spesso e volentieri nelle grandi eliche delle turbine eoliche e allora... 
Insomma, convivenza difficile anche se, invece, alcuni di loro, e penso all'airone cenerino, come da noi i gabbiani, hanno elaborato una buona tecnica per venire a mangiare comodamente pesce in città. 


Di questo libro però è ancora una volta l'illustrazione a essere oltremodo interessante. Le grandi tavole, che Marieke ten Berge dedica a ciascuno di loro, occupano uno spazio equivalente a quello assegnato al testo e pur essendo lontane dal disegno dal vero, di questo riescono a trasmettere comunque la potenza.
Ricordo sempre con grande piacere - e nella mia testa sono indelebili quelle immagini di ranocchie e di rami di ciliegio disegnati da attentissimi bambini - un libro che allietò la mia infanzia concepito con lo stesso criterio: ovvero un disegno che fosse fedele al soggetto rappresentato ma che non avesse alcuna pretesa o intento di essere mimetico. 


Il libro arrivava dalla mitica scuola di San Gersolè di Maria Maltoni. Ed era stato pubblicato da Einaudi perché Calvino lo aveva voluto, giustamente, a tutti costi, riconoscendone il grande valore,  non solo pedagogico, ma anche estetico. 
Questo scriveva, dei risultati di quella magnifica esperienza didattica, nella sua prefazione al libro: 
"Nei loro diari, scritti e disegnati, Maria Maltoni abituava i suoi scolari a raccontare ogni minimo fatto della vita campestre familiare e paesana di loro esperienza giornaliera; […] Certo, in questa scuoletta campagnola dalla quale è uscita una cronaca corale di tutto un paese, delle sue vendemmie e delle sue fienagioni, della sua vita collettiva e familiare, delle presenze vegetali e animali che lo circondano, una cronaca di parole e di figure e di colori come in un antico codice miniato, si è dato non solo uno degli esperimenti pedagogici più innovatori, ma una delle tracce più dirette e fresche e nuove che la vita dei nostri anni ha lasciato sulla carta." 
Ecco. Mi pare che Marieke ten Berge si muova esattamente in quella direzione. Produce, con quel suo segno cercato, inciso, e quindi scavato con lentezza e relativa precisione nel duro del linoleum, qualcosa di simile a un codice antico, che si costruisce necessariamente sull'osservazione diretta, sulla sapiente e paziente arte del saper cogliere di ogni soggetto, l'essenza.


E per questo resta indimenticabile allo sguardo.

Carla

"Tra mare e terra" M. ten Berge, E. Moraal, trad. O. Amagliani, Edizioni Clichy 2024

lunedì 29 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LESSICO FAMIGLIARE 

Quattro sorelle. Enid, Malika Ferdjoukh (trad. Chiara Carminati) 
Pension Lepic 2021 


NARRATIVA PER GRANDI (dagli 11 anni) 

"Per legge, zia Lucrezia era la loro tutrice, insieme a Charlie. Era stata una decisione del giudice, alla morte dei loro genitori: aveva ritenuto che fosse una responsabilità troppo pesante da addossare solo alla sorella maggiore. In pratica, questo si traduceva in un assegno di zia Lucrezia una volta al mese e in una sua visita una volta ogni morte di papa. Una soluzione che andava bene a tutti. 
Quando Geneviève riattaccò, dopo numerosi ringraziamenti, scoppiarono tutte in una risata che sembrava un nitrito. Era, però, una risata forzata. Troppo esagerata per essere gioiosa, troppo forte per non nascondere un dolore più forte ancora." 

Le cinque sorelle Verdelaine, orfane dei genitori persi in un incidente d'auto diciannove mesi prima, vivono tutte insieme nella loro casa di famiglia, Vill'Hervé, un grande edificio isolato, a un passo da una falesia sull'Atlantico. 
Charlie, all'anagrafe Charlotte, ha ventitré anni ed è l'unica ad avere un lavoro presso un laboratorio farmaceutico. Ed è anche l'unica ad avere un fidanzato, Basile 29 anni, medico timido. Geneviève, per quanto i suoi impegni glielo permettono, dà il suo grande contributo nella gestione della casa, mentre le altre Hortense, quindici anni, Bettina tredici e Enid, appena nove passano le loro giornate tra la scuola, le amiche e i primi innamoramenti, la lettura e scrittura, gli scoiattoli e i pipistrelli. 
Sebbene diversissime tra loro per indole, tutte loro hanno un segreto che le accomuna: tutte chiacchierano con i fantasmi dei genitori. Poche battute ogni tanto, quando loro gli compaiono davanti... 
Questa è la loro magnifica storia che ruota inevitabilmente intorno a quelle potenti quattro mura che sono il loro baluardo di appartenenza: sono casa. 
Questa è la storia di cinque caratteri principali e vari comprimari, il loro lessico famigliare, le loro relazioni interpersonali. Qui basti sapere che è un vero piacere fare la loro conoscenza. 

Nel 2003 Malika Ferdjoukh racconta una porzione della loro vita, dedicando il titolo dei 4 volumi in sequenza a ciascuna di loro: Enid, Hortense, Bettina e, ultima, Genèvieve. Per ognuna di loro una stagione (alla quinta sorella nessuna mezza stagione). 
A turno, capita che la sorella nel titolo si trovi quindi sotto una luce leggermente più intensa delle altre, ma è roba di poco. Come sarebbe anche nella vita vera, le cinque Verdelaine costituiscono un gruppo inscindibile, sotto molti punti di vista. Charlie è l'unica a non avere un volume che porti il suo nome, ma c'è sempre. Fortunatamente per loro e per noi. 
Ad arrivare in Italia i quattro romanzi impiegano quasi vent'anni, infatti Pension Lepic li pubblica tra il 2021 e il 2022, credendoci moltissimo. 
Cerca una traduzione che gli renda merito, e la trova nella penna felice di Chiara Carminati. E un bravo illustratore che fa centro con le quattro copertine. Al suo amato mare non rinuncia ma lo mette solo in quarta: davanti mette sempre lei, la Vill'Hervé, in quattro stagioni diverse, appunto. 
Luca Tagliafico molto saggiamente la considera come fulcro narrativo delle quattro storie. Tutto passa attraverso quelle porte, finestre e scale... 
A riscuotere successo, a giudicare dai timbri dei prestiti in biblioteca, parrebbe sopratutto Enid che ha la fortuna di essere la prima a comparire sulla scena editoriale. 
Le ragioni di Pension Lepic sono molto condivisibili. 
La prima: Malika Ferdjoukh, nonstante abbia scritto cose sempre molto convincenti, finora in Italia non aveva trovato un editore che l'avesse trattata come un personale fiore all'occhiello da mostrare nel catalogo dei titoli pubblicati. Pension Lepic decide di farlo. 
La seconda: la letteratura d'Oltralpe, Lepic scommette su quella francese, almeno la narrativa per i ragazzi, sta qualche passetto avanti rispetto alla nostra, che si districa tra alcuni grandi talenti ed eccellenze, ma anche tra tanto artigianato, talvolta un po' mediocre. 
La terza, invece, ha a che fare con questa storia in particolare. L'idea che una prospettiva del genere - un romanzo che racconti la storia di fratelli/sorelle orfani e soli al mondo - sia un plot vincente. Peraltro ne sono prova provata tanti altri fulgidi esempi. E forse Lepic questo lo sa.
Alcuni dei questi esempi, per certi versi, stupiscono per sovrapponibilità. 
in verità, quando uscì Quattro sorelle.Enid tutti pensarono alle sorelle March della Alcott. Facile, direi quasi banale, il confronto. 
Ma, a ben vedere, c'è ben di più che irrobustisce l'idea di partenza dei quattro romanzi della Ferdjoukh. 
Primo fra tutti, l'indimenticabile Oh, Boy! Anche lì (nel 2000) famiglia azzerata già in partenza e questi piccoli fratelli che al momento di chiaro hanno solo l'intento di non voler essere separati e cercano di fare squadra. La penna felicissima della Murail fece il resto. 
E, a onor del vero, va detto che le due scritture, quella di Murail e quella di Ferdjoukh (il discorso sulla narrativa d'Oltralpe non era dettato da una malcelata esterofilia), si assomigliano parecchio, in quel loro saper essere comiche e commoventi a distanza di poche battute. 
Entrambe sanno essere lievi nel racconto dei fatti e profondissime nelle riflessioni che nascono nelle teste dei loro personaggi. Entrambe sanno stare in silenzio, quando non c'è alcun bisogno di spiegare, entrambe sospendono i loro giudizi e non danno soluzioni. Entrambe sanno dare spessore ai loro personaggi attraverso la famosa regola: Don't tell, show. Infatti entrambe sono eccellenti creatrici di trame e costruttrici di intrecci. 
Orfanezza, fratelli o sorelle, la casa come perno: mi vengono in mente grandi romanzi: Nove braccia spalancate (ed. originale 2004), Hotel Grande A (ed. originale 2014), come pure La casa di Pine Island (ed. originale 2020), quest'ultimo con somiglianze belle forti, anche se non il migliore di Polly Horvath.
Fino a qui le affinità. Ma esistono anche due caratteri che mi paiono del tutto originali, e spettano alla sola Malika Ferdjoukh. 
Il primo: lei è una grande amante dei fantasmi. E l'argomento le è così congeniale che quando può ce ne infila qualcuno...
In Quattro sorelle. Enid  ce ne sono vari, ma i migliori sono quelli di mamma e papà. Malika Ferdjoukh ha saputo giocare, e rendere assolutamente normale, a tratti anche divertente, la relazione tra questi genitori e le loro figlie. Bella chiave per sdrammatizzare. La loro presenza 'fantasmatica', i brevi dialoghi e incontri con le figlie (nessuna delle cinque lo confessa alle altre e quindi pensa di essere l'unica a ricevere le loro visite) e genitori sono righe di pura bellezza. 
Leggere per credere. 
E secondo carattere peculiare: la sua abilità sottile nel non voler troppo definire un preciso momento storico in cui ambientare la storia. 
A tratti, davvero sembra di essere in un romanzo dell'Ottocento (complice anche il formato?) con personaggi che potrebbero essere ottocenteschi, che si muovono in un contesto che a tratti lo potrebbe essere e poi entrano in scena oggetti o situazioni che riattualizzano il tutto al contemporaneo. Ma questa sapiente nebbiolina da brughiera e da falesia che avvolge tutto ha il merito di rendere ancora più universali personaggi e storia in sé. 
Di nuovo, leggere per credere. 

Carla 

Noterella al margine. Complice forse il tipo di lavoro che faccio, complice una mia attenzione maggiore quando si parla di cibo, sono inciampata in quella che a me parrebbe essere una bella svista. Ho verificato anche nell'edizione francese ed effettivamente compare fin dall'originale... Ma a quanto pare, tutti quelli che a vario titolo hanno lavorato sul testo, e quelli che l'hanno letto, non l'hanno notata o hanno preferito soprassedere...
Per me può anche partire un contest: tra pag. 66 a pag, 70, è lì.

venerdì 26 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

DI COMICITÀ IRONIA SATIRA E DI UN GATTO

Papà ha perso la testa, André Bouchard, Quentin Blake (trad. Fabio Regattin) 
#Logosedizioni 2024 



ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Dovemmo arrenderci all'evidenza: la testa di papà era introvabile. 
 Era strano non saper dove guardare quando parlavamo con lui. 
Inoltre, ci dicevamo, prima o poi avremmo dovuto spiegare alla gente che papà aveva perso la testa e che non riuscivamo proprio a trovarla. 
La mamma si disperava pensando a quel che avrebbero detto: 'Che moglie negligente, non sa nemmeno dove si trova la testa del marito! Figurarsi i calzini dei figli, allora!'" 
Così io e mio fratello decidemmo di fabbricare una testa per papà." 

La testa è sparita un giorno, così, senza nessun preavviso. Non è che non l'abbiano cercata ovunque. Persino nei posti dove mai e poi mai sarebbe riuscita a entrare. Ma tant'è. Niente testa. Gli effetti collaterali di questa curiosa circostanza sono molteplici. 
Il primo: una certa goffaggine nel movimento per casa. 

© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa 


Al prezioso e orrendo soprammobile rotto, al padre viene ingiunto di starsene seduto e, pur senza orecchie, lui obbedisce alla voce tonante della moglie. 
Il secondo, nessun rimprovero per marachelle fatte: occhio non vede... 
Il terzo, una certa condiscendenza a fare tutto quello che gli viene richiesto, senza poter protestare. 
Il quarto: nessun russamento notturno. 
In fin dei conti, quasi solo vantaggi e una serie di occasioni propizie e redditizie che balenano alla mente fervida dei due figli. La forza dell'abitudine fa il resto. Andare in ufficio ogni mattina (magari al volante è meglio ci sia mamma), andare a fare jogging al parco. Cose così. 
Dal punto di vista estetico e più meramente pratico, i due bambini realizzano una capoccia in cartapesta, in modo che il mondo non percepisca poi troppo questo cambiamento. E come spesso avviene, anche alle persone coinvolte in questa storia, la forza dell'abitudine e certo spirito innato all'adattamento, fa il resto e ritorna il solito tran tran. 
E se un giorno, così come se n'è andata, la testa tornasse? 

La scintilla che accende le storie di Bouchard è sempre molto luminosa e questa forse lo è ancora più di altre: partire da un assurdo assoluto, da un paradosso, impensabile purché comprensibile, quindi stravolgere o meglio capovolgere la realtà in un colpo solo, quindi rimettersi in piedi e riguardare tutto da un punto di vista consueto che però a questo punto assume i toni del grottesco e del comico. 
Cosa ne deriva? Umorismo allo stato puro. E, sotto sotto, un bel po' di ironia. 
L'umorismo è lì, sotto gli occhi di tutti: decapitare un padre e un marito e renderlo diverso, innocuo, condiscendente, manipolabile fa ridere. 
Ma Bouchard fa un passetto in più. 
Questo umorismo che a tratti si fa comico, anche grazie ai disegni di Blake, viene potenziato dallo sguardo costantemente ironico di Bouchard. 
Parlare in senso ironico significa in ultima analisi: dire una cosa e pensarne un'altra, ma facendolo capire... Dal vocabolario Treccani, "nell’uso com., la dissimulazione del proprio pensiero (e la corrispondente figura retorica) con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento"
Ecco quello che succede in una delle più esilaranti tra le storie di Bouchard, l'unica che è stata affidata a un altro illustratore...e che illustratore! 

© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Certamente una storia che è nelle corde di Blake (credo che se Sir Blake non ne avesse riconosciuta la qualità e, da parte sua, la possibilità di renderla al meglio o addirittura di potenziarla, avrebbe gentilmente declinato l'invito. Credo) 
Allora. Se andiamo a vedere nel dettaglio quali sono gli snodi tra comicità e ironia di questa storia individuiamo anche i punti che a Blake offrono agganci molto solidi. 
La breve frase iniziale, quindici parole in tutto, è in grado di ribaltare la realtà e far partire per un viaggio che si preannuncia parecchio interessante. E, inevitabilmente, comico. 
Che questo succeda nella prima pagina, quindi in quella di destra, che necessariamente prevede la sospensione del giro, è elemento ulteriore di grande attesa. Blake asseconda il ribaltamento di Bouchard e disegna, tra due ragazzini, i figli piuttosto preoccupati del protagonista acefalo, proprio lui, meravigliosamente inespressivo, in gilet e cravatta. Si ride. 
Già dalla pagina successiva, Bouchard fa tornare tutto nella norma, a parte l'anomalia di partenza. E lo stesso fa Blake che disegna un uomo acefalo che dà una manata sul prezioso quanto brutto soprammobile e una moglie rossa di rabbia per quel che vede accadere davanti ai propri occhi - quindi disegna quello che il testo racconta, ma si prende lo sfizio di mettere un gatto che, guadagnatosi in silenzio il frontespizio, anche in seguito, continuerà a essere muto testimone atterrito, colpito, pestato, schiacciato, calciato, aspirato e addormentato ecc. ecc.
 
© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Ed ecco che il testo qui si fa ironico e il disegno invece è comico. 
Altro grande snodo di divertimento, che pende tra la comicità di alcune situazioni e l'ironia del testo, si genera nella minuziosa fase di ricerca, dove Blake deve accelerare con i disegni a punteggiare il testo che si fa incalzante.


© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


Per non parlare del seguito che riguarda la costruzione di una nuova testa che tolga d'impaccio i bambini che così sapranno dove guardare quando parlano al padre e la loro madre che non dovrà subire lo stigma di parenti e conoscenti... La faccia di Blake è comica, le ragioni della sua costruzione sono ironia pura. Blake accelera un altro po' e quindi, girata pagina, rallenta di nuovo e si gode la bellezza di quella testa rotonda e meravigliosa che nella sua unica espressione sorridente e poco poco beota si rivela massimamente buffa, comica appunto, nelle diverse situazioni, perché in tutte sa essere è del tutto fuori luogo. 
A questo punto Bouchard salta il fosso e parte con le sue consuete esagerazioni, i suoi paradossi. 
E lo fa in un lungo elenco di valutazioni tra i tanti pro e l'unico contro che una situazione del genere produce sulle routine quotidiane di una famiglia. 
E Blake invece che fa? Gli va dietro e si diverte, si diverte si diverte.... 

Carla 

Noterella al margine. Va da sé che, anche se "distratti" dall'universo di Blake, non debbono sfuggire le molte frecciatine satiriche che Bouchard lancia qui e là. Come se fossero una sua sigla irrinunciabile nelle sue storie. Il perbenismo della madre, certe sue sottili rivalse nei confronti di un marito evidentemente non sempre molto collaborativo o premuroso o affettuoso in un recente passato... e via andare, tacendo sul finale. 


© André Bouchard, Quentin Blake, Papà ha perso la testa


I suoi bambini invece sono, come peraltro anche quelli di Blake, maestri di pragmatismo e capaci di andare sempre dritti al punto. 
Beati loro!

mercoledì 24 luglio 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

L’OROLOGIO DAVANTI AGLI OCCHI 


Lo scopo dell’arte è spostare impercettibilmente la terra sotto i piedi delle persone. Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica sono il modo in cui facciamo le cose. L’arte è il motivo per cui le facciamo. 
Oliver Jeffers 

Una volta una persona a cui devo molte cose mi ha fatto capire un concetto difficile in un modo semplice: mentre parlavamo ha preso il piccolo orologio analogico che era appoggiato al tavolo, me l’ha messo a due centimetri dagli occhi e mi ha chiesto le ore. Non le vedo, ho risposto. E lui mi ha detto è questo che intendo quando dico che per capire le cose che ci riguardano, dobbiamo fare almeno due passi indietro. Se siamo troppo vicini, diventiamo ciechi. 
Questo episodio è stato il primo pensiero che mi è nato dopo la lettura di Intanto sulla terra… Alla ricerca del nostro posto nel tempo e nello spazio di Oliver Jeffers. 
La storia che racconta Jeffers è apparentemente semplice: un padre chiama i propri figli, devono andare, salutano la mamma, salgono in auto, escono dalla città. La voce narrante però non è quella di nessuno dei tre personaggi rappresentati, pare una voce che da tempo, da ben prima che il libro sia iniziato, stia riflettendo sull’agire umano. 
 Questo è l’incipit del testo: 
“In tutto il cosmo 
questo posto nel nostro sistema solare 
è il posto dove tutte le persone vivono 
da che siamo umani.” 
Tant’è vero che a un certo punto la voce narrante propone ai tre una deviazione dal loro percorso e il padre, nel frattempo irritato dalla litigiosità di fratello e sorella, accetta subito.
 

Il narratore chiede loro di indossare il casco spaziale: direzione la Luna, 400 mila chilometri dalla Terra, un anno di viaggio, come dice la voce, calcolando una velocità media tipicamente automobilista di 60 km orari. 
E in questa parte esplode il colpo di genio di Jeffers: man mano che i nostri tre procedono nel loro viaggio e tanto più tempo ci mettono, tanto più indietro nel tempo storico va il nostro narratore. Come può essere mi chiedete. Ehi, ma questo è un albo illustrato, tutto può essere ed esserlo in modo immediato: per andare sul pianeta Venere ci si mettono 78 anni (sempre viaggiando in auto a 60 km orari), cosa accadeva 78 anni fa sulla Terra? Era la metà del Novecento e l’intero pianeta combatteva una grandissima guerra. Se volete andare su Mercurio in auto, dovete calcolare 150 anni: cosa succedeva 150 anni fa sulla Terra? Un piccolo gruppo di nazioni si divideva un continente intero, era l’epoca del colonialismo. 


E così di pianeta in pianeta, mentre i nostri tre protagonisti avanzano, o meglio si allontanano dalla Terra, tanto più il narratore indietreggia nel tempo storico, raccontando i conflitti che hanno caratterizzato la nostra storia umana. Cosa sta facendo Jeffers? 
Beh, a me verrebbe da dire che sta allontanando l’orologio dagli occhi. 


Tanto più ci si allontana tanto più si riesce a leggere la Storia in modo più completo e la Storia è anche (soprattutto?) una storia di conflitti. Tanto più vediamo la Terra come un unicum, tanto più la comprendiamo e comprendiamo che noi siamo tutti e uguali figli di quella palla schiacciata appesa nello spazio. Ok, fin qui ci siamo. 
Quanta complessità, quanto Jeffers. 
Elementi jeffersiani ne abbiamo tanti in questo albo: le relazioni in primis, con questo padre calvo (oh, ma che bella questa rappresentazione dei padri calvi, esistono! Entrano negli albi illustrati! Sempre grati a Jeffers che racconta anche quello che vede) e i due pargoli litigiosi; il tema del volare, del guardare in su, del cielo insomma (dal suo famosissimo Nei guai, in avanti le sue storie sono spesso lassù); il tema del viaggio pure. 
Ma. Ma qualcosa mi sfuggiva ancora. Né una prima lettura, né una seconda, né una terza, mi bastavano. Capivo che la complessità dell’albo andava ancora oltre (lassù!) e io volevo sapere. Sapete quando avete degli indizi che portano tutti da una parte per scoprire il colpevole, e poi qualche elemento qua e là che non si inserisce perfettamente nel vostro quadro? Ecco, io ero a quel punto. 
In esergo al libro c’è una frase di Jeffers: 
Gran parte dell’ispirazione per questo libro viene dai ripetuti tentativi di spiegare la storia e la geografia del conflitto in Irlanda del Nord a persone intelligenti – che non hanno mai saputo nulla di nessuna delle due e non se ne sono mai interessate – a un oceano di distanza.” 
Lui cerca di spiegare un conflitto irlandese (senza mai citarlo nella narrazione del libro), che potremmo definire piccolo se pensato nelle dinamiche storiche e mondiali, appunto aprendo lo sguardo, andando nello spazio a vedere come si vede da lassù. 
Ma il vero punto di svolta nella mia analisi del libro è arrivato per caso


In libreria è arrivato Begin Again - come siamo arrivati qui e dove potremmo andare - la nostra storia umana, finora, edito da Harper Collins (tutte le traduzioni al testo in inglese sono mie) e tra pochissimo pubblicato in italiano sempre da Zoolibri, dove alla fine Jeffers scrive una nota magnifica sulla sua poetica, sulla politica, sugli sguardi, sulla speranza, sull’immaginazione. 
In questo piccolo saggio (che spero verrà riproposto nella versione italiana del libro) Jeffers racconta di aver lasciato l’Irlanda del Nord nel 2007, per New York dove nessuno sapeva niente del conflitto irlandese. Lui non se ne capacitava, si arrabbiava ma soprattutto non capiva: forse il mio amico avrebbe detto che aveva l’orologio troppo attaccato agli occhi. Così ha cominciato ad allontanarsi e a capire che anche per gli stessi irlandesi quel conflitto era diventato qualcosa di diverso, era un uno contro uno. Ma se si allarga lo sguardo, se l’orologio si allontana, si capisce che la storia dell’umanità intera è costellata da questi scontri e si capisce che si può agire, per esempio attraverso l’arte: 
“Possiamo rielaborare il nostro contesto e la nostra motivazione per guardare le cose come se facessero parte di una narrazione diversa e più produttiva. 
Possiamo scegliere di dare un senso agli eventi per essere governati da cose diverse dalla paura o dall'odio, dalla rabbia o dall'indifferenza. Possiamo cambiare la nostra storia.” 
Chi sa meglio di un autore che le storie – e la Storia – si possono cambiare? 
Chi sa meglio di un autore di libri per bambini che tutto cambia e che bisogna spiegarlo per bene agli adulti? Ve lo ricordate il libro di Jeffers Come vola un pinguino? Il pinguino contro tutte le leggi di natura cerca di volare (ancora il volo, è proprio un vizio!), ecco io penso che ora quel pinguino abbia imparato a farlo. 

Valentina

"Intanto sulla terra… alla ricerca del nostro posto nel tempo e nello spazio, una visione cosmica sui conflitti con Oliver Jeffers",  Zoolibri 2024

lunedì 22 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

POCHE PAROLE, CONTATE E MISURATE

Bambina senza alleati - Poesie, Cristina Bellemo, Sara Dalla Pozza 
AnimaMundi Edizioni 2024 


POESIA ILLUSTRATA

"Tu ne fai 
una questione 
di statura chissà che la sorte 
non sia troppo avara 
e regali ancora 
qualche centimetro 
come nelle fiabe domandi 
allo specchio 
o al fondo
dei pantaloni alla
matita scarabocchiata
sul muro 
e io qui in silenzio ti guardo
e imparo 
quanto sarà difficile 
essere alla tua altezza." 

Come in molti libri di versi, diversi sono i percorsi che si possono intraprendere e i panorami che si possono manifestare agli occhi di chi legge. Ognuno, nei silenzi della poesia, ha agio di partire, esplorare e trovare il proprio. 
Qui mi pare di averne individuati alcuni, che vanno in direzioni anche lontane, che portano a scenari mutevoli ma che hanno un medesimo punto di partenza e anche di arrivo: Cristina Bellemo. 
Mi pare di vedere la sua infanzia, ci sono i suoi figli, c'è il suo essere madre, il suo quotidiano, la sua generosità, la sua fede, la sua scrittura. Ma inevitabilmente ci sono anche io dentro che suono: la mia infanzia, i miei figli, il mio essere madre. 
In altre parole, c'è lei che scrive e io che leggo dentro quella Bambina senza alleati
Tra i diversi, ne scelgo tre che forse sono quelli che più giustificano il parlare di un libro così, qui. Come se ce ne fosse bisogno... 
Il primo: un grande e un piccolo. 


Con tutte le diverse declinazioni che tale rapporto reciproco può generare: appartenersi, riconoscersi eppure essere diversi. E anche quel constatare che mai si perde, o mai si dovrebbe perdere per un adulto l'essere stato bambino. Un po' come a voler chiudere il cerchio, tornare a quando tutto è cominciato. 
Io avrei deciso di partire da Tu ne fai perché mi pare tanto trasparente e lieve quanto solida come un paradigma. 
Mi pare possa cogliersi lo sguardo di un grande, pieno di tenerezza nei confronti di chi sta crescendo, e di un piccolo che di quella crescita ora ne percepisce solo una questione di statura. 
E ancora racconta di uno sguardo adulto pieno di rispetto e fiducia nei confronti del piccolo. Ne constata  un'altra grandezza, e lo fa giocando con il senso metaforico della parola altezza... 
E ancora in Benedizione si ritrova quella spinta fiduciosa che ogni genitore dovrebbe saper dare ai propri figli, mai dimenticando il senso - anche quello più propriamente laico - che c'è dietro ogni benedizione, augurio di vederli partire per una strada scelta. 
Ancora in Te l'avevo detto, c'è il ribadire che piccoli e grandi hanno modi di stare al mondo diversi. Adulti che siete qui, non dimenticatelo mai! 
E ancora. A proposito di grandi alle prese coi piccoli È andata così segna una sorta di punto di partenza: l'inizio di un percorso di maternità cui si affianca quello di una paternità, dal respiro di sollievo fino alla prima doccia, tornata a casa dall'ospedale. Qui tutto si vede, tutto si sente, tutto diventa sensazione: dal dolore dei punti che tirano, camminando, al bagno riscaldato, all'asciugamano sul termosifone, la paura di morire che si lava via e che conferma che quello è amore che non può finire. 
Il secondo percorso ha a che fare ancora con Cristina Bellemo, ossia con il suo essere quel che è. 

Saper abitare 
la sfocatura 
senza premura 
di essere 
scoperta. 

Beh, accidenti, che grande consapevolezza e che grandi occhi visionari per raccontarsi! E che potenza in questa sintesi. Un'immagine che nel suo essere sfocata ha il merito di diventare universale. Tutti la possono intuire e, volendo, anche riconoscere, se si ha avuto la fortuna di incontrarla almeno una volta.


Anche qui passa tutto attraverso poche parole, contate e misurate, che però, come una ricamatrice sapiente, lei sa tenere insieme, grazie a punti serrati e filo colorato (Silvia Vecchini nella sua nota finale segue questo filo).
Così come la matita lieve di Sara Dalla Pozza, talmente lieve che i versi del retro della pagina emergono come filigrana, la immagina con ago e filo a cucire parole, lei effettivamente ricama sulla pagina il suo amore per la lentezza, il suo desiderio di stare nell'incertezza del suo profilo, la sua ritrosia a mettersi in prima fila. 
Ma a ben vedere quante altre molteplici letture si potrebbero dare di questi pochi versi? Quanti possono riconoscere parti di sé? 
E se fosse invece la timida affermazione di un'adolescente (leggere mi chiudo per averne forse conferma?) 
L'ultimo tratto di strada tra i suoi versi riguarda lo scrivere poesia, che qui è davvero ricamare. 


Una su tutte, Cane che abbaia
Il variegato elenco di suoni che Cristina Bellemo mette in ordine sparso (purché suonino) magicamente diventa due cose: una storia di un giorno (il martedì?) e una vera e propria colonna sonora che la poeta vuole - o deve - considerare... 
Qui i versi finali:... 
Accadono qui 
le parole 
si tenga conto 
per favore 
dell'influenza
 sulle trame e sulle scritture 
le colonne sonore 
non sono certo questione 
di secondaria importanza 
nella formazione 
 dell'autore 
il silenzio il rumore. 

Ecco fatto, un bel libro di poesia.

Carla

venerdì 19 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

ALBERI

Bella Bambina dai Capelli Turchini
, Adolfo Córdova, David Álvarez 
(trad. Federico Taibi)
#Logosedizioni 2024 


ILLUSTRATI PER MEDI (dai 9 anni) 

La Bella Bambina dai Capelli Turchini apre gli occhi per la prima volta. È distesa su un pascolo. Ode un pianto. Si alza e lo trova. Non è l'erba a piangere, ma un neonato. La rugiada si è già asciugata sulla sua fronte e il suo corpo risplende violaceo. Lei lo culla, lui smette di piangere. Cerca la madre, il padre, la casa. Niente. Non c'è nessuno. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

La bambina è una fata, è nata insieme al pianto del bambino e deve prendersi cura di lui sempre, affinché non si affacci agli abissi, non scivoli nel fiume, non mangi le bacche scarlatte. 

Ma così non andrà: i lupi in agguato nell'erba divorano lei e il bambino. Ma il vento ritesse i suoi frammenti e la trasforma in lupa, il pelo turchino. Dal sangue del bambino lei fa nascere un ginepro. E riparte inquieta fino al prossimo bambino, un altro figlio abbandonato, ma un freccia di un cacciatore la trova e lei muore ancora una volta. Ma il bimbo ora è larice. 
Il vento la tesse ancora una volta, un picchio imperiale che di turchino ha la corona sul capo. 
Di bambino in bambino la fata si trasforma, e trasforma lei stessa i piccoli che incontra in alberi. 
Questa è la sua grande magia. 
Fino al giorno in cui chiede agli spiriti di poter vendicare la cattiveria dei grandi verso i bambini... 
Dai genitori che li abbandonano nel bosco fitto, fino a quelli che organizzano grandi eserciti per farsi la guerra: lei li sfiora e il suo grande potere lascia al suo passaggio boschi spuntati dal nulla. 
Ma un giorno la Bella Bambina conoscerà Lorenzino, con lui parrebbe tutto diverso... 

Campanellini risuonano distintamente: dal titolo, all'incontro con Lorenzino tutto porta in una unica direzione. Pinocchio. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini



Sul percorso che Adolfo Córdova fa per raccogliere i singoli frammenti e poi ricomporli tutti in una magnifica storia che in qualche modo si cuce a quella del burattino di legno non si dirà una sola parola. Mentre invece mi parrebbe interessante notare lo sguardo e l'incedere visionario che tanto chi scrive, quanto chi illustra condividono. 
E ancora. Mi parrebbe degno di attenzione il senso più profondo di questa storia che parrebbe la prima di una serie, stando a quanto si legge a racconto finito: 
 "Questa collana è un omaggio a tutti i personaggi dimenticati che non si affacciano ai pozzi dei desideri, non trovano tesori, né mordono mele avvelenate. Sono i personaggi secondari, nati dalla penna di grandi autori che hanno creato per loro momenti fugaci così autentici da far nascere in me il desiderio di prolungarne l'incanto." 
Ricordo molto bene quando David Almond spiegò ai suoi lettori che Mina, la ragazzina Mina, comprimaria dentro Skellig, fosse stata per lui - quasi suo malgrado - una tale rivelazione da pensare di dedicarle un libro tutto suo in cui è protagonista assoluta. E così è andata. E, accanto a Skellig, si è aggiunto un altro gioiello che è, appunto, La storia di Mina
La logica mi pare sostanzialmente la stessa. Con un distinguo che però non è da poco. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

Qui  ci si muove tutti in un immaginario condiviso, quello delle fiabe, ovvero dei racconti della nostra infanzia. E questa circostanza permette a Adolfo Córdova e David Álvarez di volare ancora più liberamente. Tutti noi possediamo una mappa comune dello spazio di volo e quindi l'orientamento lo si recupera molto più facilmente. 
Dico questo perché la cosa che si percepisce qui è la grande libertà visionaria, che della fiaba mantiene il tono, ma si espande in direzioni che tanto ricordano anche visivamente il genere del fantastico puro, come pure la mitologia più classica, in fatto di metamorfosi, almeno.
Per questa ragione non credo di illudermi al pensare che i lettori più giovani godranno di questo continuo gioco di mutazioni, che anche visivamente richiedono occhio attento e poi grande stupore. Ma credo pure che anche i più grandi possano facilmente costruire dei bei nessi tra Ovidio e la Bella Bambina. 
Un altro punto interessante, almeno per quel che mi riguarda, deriva da una mia naturale attrazione 'professionale' verso le riscritture intelligenti di storie classiche. 
Il cambio di prospettiva oppure di registro o di tono a mio parere è foriero di sconfinamenti, quindi di novità, quindi di curiosità e attenzione e quindi di pensiero. 
A riprova di ciò, porto l'esempio di come quasi a ogni frase che Adolfo Córdova mette sulla pagina e a ogni disegno che su quella stessa pagina si espande e dilaga, è proprio il caso di dirlo, si accendano riferimenti e pensieri anche molto lontani dalla storia in sé. Evocatori. 

part. da ©Adolfo Córdova, David Álvarez 
Bella Bambina dai Capelli Turchini

Libro benefico. 

 Carla 

Noterella al margine. Sui disegni di David Álvarez andrebbe scritto un post a parte. Colpevolmente lasciato indietro e poi fagocitato dal resto è rimasto un altro libro che mi aveva colpito un bel po': La donna Uccello, uscito nel 2022. La promessa è quella di farlo tornare in superficie, questo libro, e dedicare a questo artista messicano almeno un po' di luce della tanta che meriterebbe.

mercoledì 17 luglio 2024

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

ROCAMBOLESCAMENTE CANE 


È raro che un libro che racconta di tossicodipendenze, di malattia e infine anche di morte, di abbandoni, di povertà e di violenze possa risultare così divertente. (A parte quelli di Marie-Aude Murail che in questo è Maestra). 
Con Vita da cani questo succede. Ed è solo merito di Basse, un cane “con la pancia cascante e gli occhi tristi, e una delle zampe posteriori zoppica un po”
Eccolo qui, Basse, parole sue. 
E poi manco si chiamerebbe Basse perché lui, come pare tutti i cani, si dà dei noni che cambia quando si stufa. Ora in effetti si chiamerebbe Reginald Birger El Nachos Bigdog IV…se solo gli umani certe cose le capissero… 
Comunque Basse (Reginald) è il nostro narratore: simpatico, super ironico, Amico con la a maiuscola, molto saggio, determinato, intelligente e coraggioso, con una imbarazzante debolezza per le coccole ben fatte, per i cuscini comodi e per la pizza quando avanza, ma capace di analizzare ogni situazione seguendo odori (anche la paura ha un odore) ed esperienza di vita, sempre pronto ad affrontare qualsivoglia complicazione. 
Le complicazioni in questa storia sono assai, anzi pare proprio che sulle complicazioni si regga tutta la vicenda. Sulle complicazioni e su Basse (Birger). Credibili o inverosimili, le complicazioni crescono insieme al racconto. 
Il fatto è che Basse (El Nachos) è il cane di un tossico, Kjell il tossico. E Kjell il tossico, per quanto simpatico, è pur sempre un tossico e dunque sta sempre nei guai: un furto, una fuga, una crisi di astinenza, un espediente, un’idea geniale per svoltare che poi tanto geniale non è. Basse (Bigdog IV) è sempre lì pronto a fronteggiare l’imprevisto perché pure quando pare andare tutto strabene, quando sembra rimettersi tutto in equilibrio e si fanno discorsi da adulti consapevoli e quasi sdolcinati, ecco che le cose si complicano nuovamente. 
Ma il vero imprevisto in questa storia è davvero peso: a Kjell e Basse capita uno di quei fatti della vita, di quelli che o abbandoni e ti distruggi per sempre, oppure prendi forza e vai. 
Dunque, una storia che racconta cose per cui ci si aspetterebbero lacrime e disperazione alle pagine pari e condanne e buoni consigli alle pagine dispari e invece gli ingredienti di questa storia sono ben altri: 
1) un quadrupede che è un Amico determinato e sapiente 
2) una voce narrante capace di portare la nostra immaginazione tra le ossa, i peli, il naso e le zampe di un cane. Vista e odorata da questa altezza, la vita può offrire diversi aspetti divertenti. 
3) un intreccio narrativo vivacissimo, a tratti iperbolico ed ecco che questa storia diventa davvero una bella storia. 
Arne Svingen è autore norvegese, molto letto e molto premiato in patria dove ha pubblicato più di 100 titoli, moltissimi per ragazzi. In Italia ne abbiamo visti arrivare tre: Macchia nel 2007 per Salani ma ormai è fuori catalogo, La ballata del naso rotto pubblicato nel 2019 da La Nuova Frontiera junior e ora Vita da cani per lo stesso editore. I due romanzi hanno evidenti punti di contatto: i guai, l’amicizia, le dipendenze, l’ironia. Entrambi sono ben calati in uno spaccato di società assolutamente reale. 
Come molti e molte di coloro che scrivono dal nord Europa, Arne Svingen sa raccontare le esperienze più dure della vita con una leggerezza che non toglie nulla né alla realtà né all’immaginazione. Anzi gli consente una schiettezza di sguardo che altri autori (quelli preoccupati di dare indicazioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato) non riuscirebbero a sostenere. 
Per lettori dagli 11 ai 13 anni: una realtà fatta di spacciatori vendicativi e di assistenti sociali troppo ingenue (o troppo sagge?), di fratelli sinceri e di ladri traditori, di bugie improvvisate e di verità che salvano, di madri alcolizzate e di un cane, Reginald Birger El Nachos Bigdog IV anche detto Basse, che è davvero molto molto simpatico. 
Un Amico. 

Patrizia 

"Vita da cani", A. Svingen, trad. di Lucia Barni, La Nuova Frontiera 2024 

lunedì 15 luglio 2024

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

SE DI OGNI STRETTA SAPRETE FARE NODO...

Filo filo d'ombra
, Teresa Porcella Maria Giulia Berardi 
Sabìr editore 2024 


POESIA ILLUSTRATA 

"Gira gira l'ombra 
il piede e la sua orma 
il sole e la sua luce 
gira chi è felice! 

Comincia così questo piccolo grande libro di fotografia e di poesia. 
Fotografia e poesia sono due modi fratelli per leggere il mondo e restituirlo agli altri. 
Fotografa e poeta sono due voci sorelle per leggere il mondo e restituirlo agli altri.


Il primo è un girotondo di bambine, fotografato in bianco e nero, nel suo turbine: nulla è fermo, ovviamente neanche le ombre sul selciato. Di queste bambine con i capelli volanti le facce non si vedono, ma si percepisce con chiarezza la felicità che c'è in quel giro pazzo e veloce che stanno facendo e che le parole adesso hanno messo bianco su nero.
 

Segue una successiva foto in bianco e nero: fila di gambette di bambini che - e lo capiamo solo dalle ombre - si tengono per mano. In primo piano, un faccino sfuocato di chi è rimasto fuori dal gioco. Segue un piccolo capolavoro di finzione, con cui il testo gioca a vedere quel che non si vede: un gallo senza becco o un coniglio con tre orecchie... 

Queste sono le prime tre fotografie con versi legati da un filo sottile che danno vita a uno dei quattro tempi che scandiscono un racconto per poesia e immagini: le ombre in gioco; le ombre in cammino - tante bici e tanti gatti e un'età della scoperta; cuori di ombre, dove è l'amore solido a essere protagonista e infine ombre di ombre, dove i fili si tirano e diventano conclusioni. 
Quattro, combinazione, sono anche i fili di ciascuno dei protagonisti che hanno messo la propria arte nel creare questo oggetto. 
Il filo della fotografa, Maria Giulia Berardi, saggia osservatrice che ha dato il suo contributo più efficace, oltre a quello fotografico, nel lasciare che le cose scorressero e diventassero altro, qualcosa di più. 
Il filo della poeta, Teresa Porcella, che su quelle foto ha scritto perché foto così "a lei la fanno scrivere" (op.cit.) e che a testa bassa - come fa lei, sempre - è andata avanti fino a vedere che diventava libro. 

Che cosa buffa se i mondi facessero la muffa...

Il filo del grafico, Mauro Luccarini, una terza bella testa, che all'idea di poter ronzare intorno alle ombre si è dedicato molto volentieri, curandone una forma ideale. 
E in ultimo il filo dell'editore Sabìr che sulle scommesse e sui libri di ricerca ne ha fatto una sua scelta editoriale. 
E' buffo ma, chissà quanto consapevolmente, sono proprio alcuni versi di Filo filo d'ombra a trovare la sintesi - poetica - di tutto questo: 

"Se di ogni stretta 
 saprete fare nodo 
non ci sarà mai un gesto 
di cui non scatti il modo" 

Se di ogni stretta
saprete fare nodo...

Sono almeno tre le cose che direi importanti da notare. 
La prima, i due modi fratelli di raccontare. Sempre più spesso noto e penso che poesia e fotografia abbiano come matrice condivisa il tipo di sguardo sulle cose. 
Entrambe distillano, lavorano sul togliere, piuttosto che sull'aggiungere, entrambe hanno bisogno di un occhio attento ma anche un po' visionario, cioè entrambe hanno la facoltà di far concentrare l'attenzione di chi le "legge" su un punto, su un unico fuoco. Ma entrambe fanno vedere anche oltre, altro - come ogni forma d'arte fa. 
Entrambe lavorano sui dettagli, o per meglio dire, sulle cose che passano inosservate ai più. 
Entrambe lavorano sugli istanti. 
Entrambe, di foto in foto, di poesia in poesia, hanno solo un colpo in canna e quindi non possono permettersi di sparare a vanvera. 

Solo un matto 
può bersi l'ombra...

L'occhio visionario. Ecco in questo libro gli occhi visionari sono stati quattro e ognuno di loro ha fatto fare una capriola ulteriore a Filo filo d'ombra
Sono abbastanza sicura che la lettura poetica che Teresa Porcella ha fatto delle immagini di Maria Giulia Berardi, l'abbia stupita, ossia si sia meravigliata lei stessa delle cose che Porcella vedeva al di là della sua stessa foto. 
Lo stesso credo che Porcella si sia meravigliata del lavoro di Berardi e poi di quello di Luccarini, così tanto attento a ogni aspetto grafico. Così tanta roba da farla diventare una terza lingua del libro. E tutti noi continuiamo a stupirci nel vedere quanto "non si veda", ovvero non faccia ostentata mostra di sé, il buon lavoro di un grafico: c'è ed è potentissimo, ma ti avvolge impalpabile e non pesa nulla. 
E ultimo a stupirsi e a gioire sarà stato Sabìr nel vedere un libro così ben fatto ad arte... 
La seconda. Un po' ha a che fare con Luccarini, ma soprattutto con Porcella che è quella che ha visto più lontano e più in alto di tutti. Almeno al principio. La scelta delle immagini, una più  interessante dell'altra, il loro diventare sequenza e quindi narrazione, e la capacità di saper usare non solo la lingua delle parole, ma anche quella dei colori. Non dico di più, ma seguite il viola di un fondo che poi diventa il rosa di un vestitino che poi ridiventa il viola di un'anfora. E capirete cosa intendo. Finito il viola, seguite il filo rosso... 
La terza. Come tutti i libri fatti con cura e con testa, dove quindi sapienza e visione siano nelle giuste proporzioni, anche Filo filo d'ombra può essere finestra che si spalanca su ogni lettore, per mettere in comunicazione il suo dentro con il suo fuori. 


Libri così sarebbe bello vederli in azione tra le mani di ragazzini e ragazzine che hanno notato le loro "ombre" e quelle degli altri. 
Con tutto quello che questo può significare. 

Carla