martedì 30 settembre 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

...TUTTO LO SPAZIO CHE C'È 

Blanche sceglie la danza come suo destino. Sceglie la scuola migliore che c’è, affronta la selezione e riesce a rompere il confine protettivo che i genitori hanno disegnato attorno a lei, teso tra il timore per l’estremo rigore richiesto dalla danza classica e l’accettazione della bruciante passione della figlia. Blanche approda al liceo coreutico di Marsiglia così, un po’ rigida ma senza dubbio rigorosa, per adempiere a un sogno che è anche un compito che si è autoassegnata.



Il romanzo inizia con una poesia, o meglio, con delle parole che, per come sono disposte, ricordano una poesia. Un lettore un po’ curioso e frettoloso come sono a volte io potrebbe a questo punto sospendere la lettura, sfogliare rapidamente il testo e scoprire che in effetti sì, il romanzo procede così: parole libere, che disegnano, che plasmano, tratteggiano, corrono dritte verso il margine per tornare a capo quando vogliono, una sopra l’altra e poi di nuovo in fila prima di spargersi nuovamente qui e là. Tuttavia, il fraseggio, l’accostamento di immagini, il susseguirsi di verbo, soggetto e oggetto non è troppo lontano dalla prosa. Poche le rime, molti i versi liberi che a una lettura silenziosa non assumono per forza un andamento ritmico e cadenzato. Eppure, il gioco dei pieni e dei vuoti, i numerosi a capo, la libertà… pare quasi che dal linguaggio poetico l’autrice abbia mutuato soprattutto la gestione dello spazio, della superficie, la possibilità di muoversi a piacimento tra i margini, stabilendo in questo modo un nesso profondo e significativo tra distribuzione del testo sulla pagina e la presenza di un corpo in movimento in un ambiente, aula, palco o marciapiede che sia. Caratteristica tutta, quest’ultima, dell’arte della danza. Scongiurato quindi l’accostamento che spesso viene fatto tra poesia ed elementi sonori della lingua, Balavoine spalanca il campo all’analogia più desueta ma altrettanto potente tra poesia e danza.
Sovrapponendo la narrazione che Blanche fa di sé a elementi testuali rilevabili con l’occhio ci si approssima alla grammatica dell’albo illustrato: le poesie come immagini, infatti, si susseguono raccontando non solo a parole la vicenda di una ragazza alle prese con la propria ambizione, con i propri limiti, con una scuola di danza che la sottopone alle dovute pressioni ma che le permette anche di conoscere meglio sé stessa e il mondo, dentro e fuori. 
Un testo giustificato al centro assomiglia a una ballerina che ruota in solitaria sul proprio asse per eseguire una piroetta. L’allineamento del capoverso lungo il margine sinistro ricorda la regolarità pedissequa degli esercizi alla sbarra, braccia e gambe libere di flettersi ed estendersi solo da un lato, mentre per rimanere dritto, si appoggia alla parete della sala prove. Oppure, un testo pieno, senza spazi, racconta il ritmo serrato e senza respiro di un’ossessione. 
Al liceo coreutico Blanche ha modo di mettere in pratica tutta la sua dedizione. L’estenuante e disorientante alternarsi di lezioni di classico e hip-hop, storia e anatomia mette alla prova la sua determinazione, il suo talento, la stessa idea di danza. Sarà però l’incontro con Ada a destabilizzarla davvero. Ada, che rappresenta tutto quello che Blanche non è: presenza, ardore, dinamismo. Imprevedibilità. Ada e Blanche intrecciano un’amicizia profonda e misteriosa di cui è difficile cogliere la sostanza a parole. Tuttavia, la disposizione dei versi arriva in aiuto, descrivendo quel qualcosa che manca alla definizione ma che ugualmente avviene nella storia…gli elementi della danza – una spaccata, un flow, una improvvisazione - ispirano la disposizione del testo poetico che diviene raffigurazione di uno stato d’animo non ancora pienamente alfabetizzato, e anticipano la verbalizzazione di pulsioni, desideri e sentimenti di cui Blanche, e noi con lei, non abbiamo piena consapevolezza. 
L’acquisizione più raffinata che è possibile fare è forse proprio questa, l’idea che il corpo possieda un’eloquenza primigenia e primitiva che precede la parola e passando attraverso l’occhio, la rende quasi superflua. Lo dice Blanche quando arriva a Marsiglia, lo sappiamo anche noi quando osserviamo i movimenti degli altri, lo si capisce leggendo il romanzo: non c’è sempre bisogno di nominare, definire, precisare, perché i corpi parlano per noi e a noi: non solo i corpi dei danzatori, ma anche il corpo del testo, soprattutto se svincolato dalle regole e giustificazioni proprie della prosa. 
Grumi di parole materializzano lungo il bordo del foglio i bisbigli delle chiacchiere in un corridoio, liste serrate ricordano gli esercizi ripetuti allo sfinimento per inculcare un movimento, spargimenti di sillabe sembrano visioni dall’alto di teste che si muovono su un palco. 
Quasi fossimo di fronte a uno strano ibrido a cavallo tra romanzo e albo si impara a farsi accompagnare nella storia di Blanche dalla superficie della pagina, con la stessa trepidazione di una ragazza che per la prima volta si muove al centro di una sala, quasi traducendo coreografie silenti in informazioni e contrappunti di vuoti e pieni, che integrano e completano quello che Blanche ancora non sa dire, ma che non per questo smette di provare: il primo amore, la mancanza feroce dell’approvazione di Ada, il desiderio bruciante di lasciarsi tutto alle spalle per compiere un passo ancora più grande e audace. 
E se uscire di casa è stato un gran jeté che richiede tutto il coraggio e la disponibilità muscolare di una ballerina in divenire, vincere un’audizione, accaparrarsi un palco e una carriera da professionista sarà un’avventura possibile solo per chi, in possesso di una tecnica superiore, sarà capace di liberarsi definitivamente da dettami e vincoli e paure per abbracciare l’intera gamma di possibilità di movimento e di vita. 
E così bruciamo è un romanzo di formazione scritto sulla pelle del testo e intendo: sulla parte visibile che, poeticamente, anticipa le vibrazioni messe in moto poi, in seconda battuta, dal significato esplicito delle parole che danzano sul foglio. Una rappresentazione impalpabile dell’adolescenza, età che non ha tempo per riflessioni e ponzamenti approfonditi, ma in cui si risponde, come in un passo a due, alle sollecitazioni per una sperimentazione libera di tutto lo spazio che c’è… 

Giorgia

“E così bruciamo” Lisa Balavoine, (traduzione di Eleonora Armaroli), 
Terre di Mezzo Editore 2025 

lunedì 29 settembre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

 

L'EPICA DELLA MARMOTTA

Lotte Pelomatto, Lena Frölander-Ulf (trad. Laura Cangemi) 
Iperborea 2025 


NARRATIVA ILLUSTRATA PER GRANDI (dai 9 anni) 

"Lotte apre gli occhi cautamente. Intorno a lei i massi scuri ruotano in una strana danza. In alto il sole lancia i suoi raggi appuntiti che le si conficcano nella testa dolorante. Sente i sassolini sotto la pelliccia della schiena. I massi si muovono sempre più piano, ma si rifiutano di fermarsi del tutto. Massi alti con ripide pareti lisce su tutti i lati. Come un orribile luogo sacrificale, un recinto di pietra per prigionieri disgraziati, pensa Lotte coprendosi il muso con le zampe. Forse mi sono spaccata la testa. Se è così, ben mi sta. 
'Pssst! Ehi, tu!' 
Lotte tira su la testa e si guarda intorno, ma non vede nessuno. 
'Ehi, marmotta. Mi serve aiuto'" 

Lotte è una marmotta giovane, che ha pensato di avere davanti la sua ultima estate da marmottina libera, ossia non ancora soggetta all'obbligo di dare una mano nei lavori di gestione della tana di famiglia. Quando suo fratello maggiore, Morris, partirà per il bosco come tutti i maschi adolescenti e adulti a lei toccherà aiutare la mamma. Lotte però è uno spirito libero e quando sente che le temute vipere hanno ulteriormente vessato la tribù delle marmotte, obbligandole a una ulteriore tassazione e una ulteriore riduzione della loro parte di pietraia, prende una decisione: la fuga. Si separa - a fatica e con un pugno sul naso - dal suo prudente e fedele amico Pigno, abbandona la tana e si avventura. Per caso origlia qualcosa di oscuro e intuisce che trame segrete si tessono ai vertici del governo militare delle vipere e altrettanto per caso si trova coinvolta in un gioco pericoloso pieno di serpenti e soprattutto quello che pensava non le sarebbe mai capitato, invece le accade! 
Questa è la storia molto avventurosa di una marmotta curiosa quanto coraggiosa che un giorno decide per la libertà, per poter combattere l'ingiustizia che tiene sotto scacco la sua gente, per poter superare il pregiudizio, indagare nel passato e magari anche ritrovare il suo papà. 

Il prologo di questo libro è un gancio fantastico. 
Va dritto su alcune verità incontrovertibili che sono legge in natura: è così e basta. 
Bene bene. 
Due indizi mi portano a capire che siamo in qualcosa di simile a una saga. Il primo indizio è la cartina che separa la storia dal potente prologo. L'ho imparato con l'esperienza: se c'è una mappa dei luoghi vuol dire che sarà utile al lettore per orientarsi in una storia complessa in cui i luoghi sono importanti. 
Il secondo indizio è diametralmente opposto: alludo all'ultima riga in cui si legge: 
Domani è un nuovo inizio. Domani inizia l'avventura.
A parte quella ripetizione che, vista la traduttrice, non credo sia una svista, parrebbe evidente che si è di fronte a una storia che non ha nessuna intenzione di finire. 
Bene. Siamo in una saga dal sapore fantasy? 
Non direi, almeno non in apparenza, anche se dello scontro tra bene e male si occupa, ma non c'è nessuna magia! 
Siamo in una saga epica. 
Nel senso che siamo in una storia dove un eroe - qui in realtà un'eroina in uno scenario molto femminile - combatte l'ingiustizia e i soprusi subiti dal suo popolo. Una saga epica in cui si scontrano due mondi, due popoli tra loro apparentemente incompatibili se non addirittura avversari: le marmotte tonde, femmine e grandi lavoratrici e i serpenti, le vipere, infide, sottili, bugiarde, assetate di potere e soprattutto velenose. 
In mezzo c'è Lotte che ha il coraggio di andare a vedere chi sia il suo avversario.
Ne ha bisogno, soprattutto per capire. Lotte, lontana da ogni pregiudizio, è una che sceglie di attraversare il confine. Per questo diventa, inevitabilmente, una predestinata a svolgere il ruolo di mediatrice: lei fugge da un mondo per finire dritta dritta nell'altro. Lo fa senza un preciso piano, che non sia quello di dimostrare al mondo la sua libertà conquistata. La cosa che ottiene è proprio quella di trasformarsi in anello di congiunzione, tra due mondi che fino a quel momento erano agli antipodi.
Quelle che sembravano sfere impermeabili, grazie a lei, non lo sono. 
Quelli che siamo abituati a tenere separati - il bene e il male - sono sempre molto più connessi di quanto possa sembrare.
E tutto questo è di agghiacciante attualità.
Tra le crudeli e spietate vipere c'è qualcuno che dirazza e dall'altra tra le prudenti e sottomesse marmotte c'è qualcuno che dirazza altrettanto. 
È quindi nelle cose che i due si incontrino e facciano strada assieme. 
E noi siamo lì con loro...

Carla

venerdì 26 settembre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

L'ELOGIO DELLA BUGIA 

Il bello di Kerstin, Helena Hedlund, Katarina Strömgård 
(trad. Samanta K. Milton Knowles) 
La Nuova Frontiera Junior 2025 



NARRATIVA ILLUSTRATA PER GRANDI (dai 9 anni) 

"Lotten la sta fissando e Kerstin lascia il tubo e sposta lo sguardo verso il foglio. È bianco e vuoto, non vi ha tracciato neanche una riga. Se fosse stata invisibile sarebbe stato un bell’autoritratto. Ma lei non è invisibile. È visibile quanto tutti gli altri, anzi, forse di più. La mamma dice che quando il sole le illumina i capelli, si vede da lontano un miglio." 

In classe, tutti devono disegnare il proprio autoritratto. Tutti saranno poi attaccati alla parete. Un bel modo per dire io ci sono... 
Il problema di Kerstin, ossia quello che le sta rallentando il lavoro, è la mancanza del pennarello giusto per colorare i suoi capelli che sono color oro. Lei lo sa, e anche la sua mamma glielo dice sempre... 
La maestra Lotten il pennarello oro non lo ha e cerca di convincerla che il colore dei suoi capelli è tra il rosso e l'arancio. Ma quando uno ha la fortuna di avere i capelli d'oro non ci rinuncia facilmente. 
Kerstin su questo ha le idee molto chiare e altrettanto chiaro che la sua amicizia esclusiva con Fatima proprio non decolla. Fatta di pura routine: tutti i pomeriggi viene invitata da lei per pettinare assieme un tappetto rosa e bello peloso e quando Fatima si stufa si alza e la lascia sola per andare a giocare con i suoi videogiochi. Non è proprio il massimo del divertimento per la povera Kerstin. Eppure non riesce a sottrarsi, forse anche per a star da soli potrebbe essere ancora peggio. Il tran tran quotidiano si interrompe all'improvviso quando Kerstin, grande collezionista di cose "d'oro", beh, quanto meno luccicanti, ivede e raccoglie da terra nel corridoio di scuola una fedina d'oro. Bel colpo, altro che vetrini scintillanti! 
Da questo momento in poi, o meglio, dal momento in cui capisce che l'anello appartiene alla sua maestra, decide di tacere per non doverlo restituire e soprattutto per non essere additata come una ladruncola. 
Come spesso accade nelle situazioni difficili, la strada si fa tortuosa e tutto quello che al principio sembrava una passeggiata adesso diventa un percorso a ostacoli, faticoso e complicato. 
Nella testa di Kerstin si accumulano pensieri foschi, qualche bugia, parecchi dubbi sull'amicizia, svariati momenti di solitudine e un certo numero di scelte considerate obbligate.
Questa è la storia di una bimbetta che con le sole sue due manine fatica a sciogliere i bei nodi in cui si è intrecciata la sua vita, ma quando le manine diventano quattro... tutto cambia e -magia! - tutto torna a posto! 

Sono figlia di un bugiardo. Non un bugiardo cattivo, ma di un magnifico inventore di panzane. 
Quindi fin da piccola ho fatto grandi riflessioni sull'argomento e le conclusioni a cui sono arrivata sono le seguenti: 
- mentire, nel proprio piccolo - per mitomania può essere SPASSOSO 
- mentire per salvarsi all'ultimo passo prima del burrone può essere NECESSARIO 
- mentire (o tacere) per poter essere lasciati soli a sbagliare in santa pace, SI FA 
- mentire per salvare qualcuno in pericolo, E' GIUSTO 
- mentire per approfittarsi della fiducia di un amico e farlo fesso, E' DISGUSTOSO! 
E a mia volta sono stata una bugiarda e anche un po' gazza ladra, come Kerstin e Gunnar. 
Capisco i piccoli ladri e i piccoli bugiardi perché io stessa ci sono passata, da normale bambina quale mi sono sempre considerata. Tanto basta. 
Chi non è d'accordo, almeno in parte, con la mia scala di valori, forse potrebbe fermarsi qui nel leggere e forse non apprezzerà neanche Il bello di Kerstin
Il bello di Kerstin è che è bugiarda e - inconsapevolmente - anche ladra. E si auto assolve e si macera il giusto. 
Il bello di Kerstin è che ha una bella confusione in testa e nell'anima, adesso come adesso. 
Il bello di Kerstin è il suo saper bene quale sia la teoria, ma nella pratica le capita di inciampare più e più volte. E non è la sola. 
Il bello di Kerstin è che sa fare squadra con chi è più in difficoltà di lei. 
Il bello di Kerstin è che si è andata a incastrare da sola in una situazione che con il passare del tempo le scoppia tra le mani e diventa sempre più complicato per lei uscirne illesa. Ma ci riesce con la complicità di un amico vero, un paio, anzi tre, bravi genitori e un buon piano! 
Il bello di Kerstin è che è meravigliosamente piena di difetti: nulla di incorreggibile, s'intende. Tuttavia, in questo suo ribollire emotivo fa tutti quegli errori "previsti dal codice" che la fanno essere "doppia" e che le permettono di essere accettata senza troppo sforzo dagli altri. Compresi alcuni adulti che, anche da grandi, continuano a inciampare, esattamente come lei, davanti a lei. 
Insomma, questi sono solo un po' dei belli della bambina Kerstin. 
Si riconoscono come belli perché sono maledettamente veri. 

Lo giuro sul mio onore 
Lo giuro sul mio dolore. 
Sul mio... odore 
Sul mio sudore. 
 Su tutti gli ore del mondo! 
Lo giuro! 
[op.cit. e applauso a Samanta K. Milyon Knowles] 

Chi è in cerca di un libro con bambini ben confezionati che facciano i buoni, che righino diritto, che siano esempio edificante per gli altri, lo lasci giù: Kerstin non è nulla di tutto questo.
Chi invece è in cerca di un libro abitato da bambini un po' difettosi, ossia che siano sia ombrosi sia luminosi, onesti e bugiardi, indifesi e robusti, affettuosi e opportunisti, lo legga. 
Subito! 

Carla

mercoledì 24 settembre 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

A VOLTE LA STRANEZZA E’ UN FENOMENO LOCALE 


È Florian, il protagonista dell’ultimo libro pubblicato da Camelozampa di Guus Kuijer, che pensa che la stranezza a volte sia un fenomeno locale: per esempio, dice, capita che stia per arrivare un temporale e invece si ferma in Belgio. 
Florian pensa a questa cosa della stranezza un giorno in cui un piccolo passero decide di posarsi sulla sua testa, a lui pare che la stranezza sia cosa solo sua, invece il libro trabocca di personaggi strani. 
Forse la stranezza è un fenomeno locale e interessa soprattutto l’incrocio della Charles Darwinstraat, dove vive la signora Raaphorst, una nonnina che condivide con Florian Nico, il passero che sta sulle loro teste.
Florian conosce la nonnina perché si chiede dove se ne vada Nico quando non sta con lui e lui se ne va sulla testa dell’anziana donna che ogni tanto scambia Florian per suo figlio. Dal momento in cui Nico decide di stare sulla testa di Florian, al bambino capitano tantissime cose, tra cui l’amore appassionato di Katja, una compagna di scuola di un anno più grande e di due spanne più alta. 
Ciò che accade, come spesso succede nei libri di Kuijer, è molto semplice: con lui non ci troviamo mai tanto in trame complicate, quanto piuttosto in profonde trame di relazione. Florian e Katja cercano di aiutare la sempre più svagata e solitaria nonnina, fin quando la situazione non degenera. 
Florian, via via che il libro avanza, si convince sempre più che la sua testa funzioni solo con Nico, senza di lui si sente perso, confuso. Il ragazzino ha dieci anni ed è esattamente all’inizio di quell’età di mezzo in cui usciti dall’infanzia si comincia ad attraversare il mondo adulto con orgoglio e paura. Certo gli adulti che lo circondano non sono molto rassicuranti: c’è, appunto, la nonnina di cui prendersi cura; c’è la maestra Petronella che lo rimprovera sempre per la sua aria svagata e i suoi infiniti sbadigli; ci sono i genitori di Florian che non fanno altro che battibeccare, per quanto lo facciano con ironia. 
A chi può affidarsi dunque Florian? 
Nico offre una strada. 
In realtà il piccolo passero è il primo, non l’unico, a offrire un’ala di salvezza. 
La mente di Florian attinge a tutto il mondo animale per raccontare ciò che sta succedendo, ma soprattutto per raccontare se stesso: dentro di sé ha degli elefanti che passano dall’essere rosa ed enormi quando sta con Katja, per poi tramutarsi in grigi e pesanti e immobili quando è preoccupato. Poi ci sono i conigli, nell’ultima meravigliosa metafora che utilizza per spiegare che gli animali si adattano al mondo che cambia, è così che dai conigli derivano le lepri e forse anche lui dovrebbe farlo quel salto di adattamento che un po’ lo spaventa. 
Anche Florian è un animaletto, che non sa bene cosa fare e perché, e cerca di agganciarsi a tutti i possibili appigli il mondo gli ponga di fronte. A volte si fa trascinare da Katja, che al contrario di lui, è attenta, presente, sul pezzo diremmo, che in un attimo trova soluzioni, che sa chi è. A volte soccombe alla maestra e decide di scappare, oppure cambia discorso quando i suoi cominciano a discutere. Nonostante ciò, Florian non demorde mai e continua nel libro il suo soliloquio a tentare di capirsi: 
“In mezzo al cortile, solo tra tutti quei bambini che giocavano, Florian capì che doveva inventarsi e che solo dopo sarebbe stato qualcuno”. 
Il nostro eroe dunque per inventarsi passa attraverso la solitudine, senza Nico, senza amici, e comincia a definirsi. 
Il libro si accompagna alle illustrazioni della bravissima Alessandra Lazzarin, che ci conducono tra i corpi dei protagonisti, ma soprattutto tra le loro posture, così aderenti all’idea che ci siamo fatti di questi personaggi strambi della Charles Darwinstraat. 
Sono da anni una grande estimatrice di Kuijer: penso abbia scritto e descritto l’infanzia in modo impeccabile, alternando il tono serio a quello buffo, addentrandosi come pochi altri nella mente di ragazzini e ragazzine.
Anche questo libro procede sui pensieri di Florian, con poche parti descrittive ma con uno sguardo tagliente e veloce sul mondo. Il dialogo la fa da padrone perché è proprio nell’altro, che sia un altro animale o umano, che i protagonisti di Kuijer trovano loro stessi. Il sorriso non vi lascia mai, nei suoi libri, così come la tenerezza, sentimento così poco di moda in questi tempi. 
Chiuderei con la frase del libro, adatto dai 10 anni in su,  che meglio sintetizza come mi sono sentita alla lettura di questo breve e intenso romanzo: 
“A volte qualcuno diceva qualcosa che ti faceva venire la pelle d’oca, non di fuori ma di dentro. La pelle d’oca al cuore.” 

Valentina 

“Florian” di Guus Kuijer, ill. di Alessandra Lazzarin, trad. Valentina Freschi, Camelozampa 2025 

lunedì 22 settembre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

LA LINEA È UN PUNTO CHE VA A CAMMINARE

Dove sei? Rime senza fissa dimora
, Gianluca Caporaso, Sergio Olivotti 
Salani 2025 


POESIA 

"Spazi e luoghi. 
All'inizio c'è lo spazio. Lo spazio è geometrico e silenzioso. Punti, linee, superfici. 
Lo spazio è sempre aperto. Come una casa senza porte. Ma è disabitato. Come certe piazze di De Chirico. 
Lo spazio è una vigilia che sogna di riempirsi di uomini, donne, bambini. Di vita. 
Lo spazio dorme. Come le parole nella pagina, come un palcoscenico prima che si apra il sipario. 
Lo spazio è un muto che aspetta il mutamento. 
Quindi arriva l'uomo e dentro vi mette il suo respiro, i suoi sogni, le sue paure, i suoi incontri, i suoi abbandoni. 
Quando arriva l'uomo lo spazio diventa luogo, la crisalide diventa farfalla." 

Sette sale che sono abitate dallo spirito di sette artisti diversi: Kandinskij, Vermeer, Hopper, Klee, Monet, Chagall, De Chirico. 
Ciascuno di loro, o meglio la loro arte, diventa guida ideale attraverso tipologie di spazi e di luoghi differenti. A Kandinskij il compito di aprire e in qualche modo di misurare lo spazio. Anche e forse quello della pagina e della scrittura: punto, linea e superficie. Sala piccola, dunque, ma necessaria. 
A Vermeer gli spazi della vita domestica: case, soffitte, stanze proibite. Ovviamente, ad Hopper il compito di condurci all'interno degli spazi pubblici: bar - chi meglio di lui? e poi chiese con campanili come matite e poi la scuola, raccontata alla lettera (!)


A Klee le strade e le piazze e i giardini. A Monet, l'aria aperta, boschi, fiumi. A Chagall, un doppio compito: lo spazio del cielo ma anche quello del Quartiere Sottosopra. E l'ultimo, la Sala De Chirico ospita rime sui paesaggi interiori. 
Cinquantadue componimenti poetici, tutte quartine rigorosamente in rima baciata, ossia aa bb... 

Catalogare, suddividere, ordinare sono attività che attirano la mia attenzione. 
E qui Gianluca Caporaso ha impostato tutto lo spazio per le sue poesie, secondo un'architettura molto organizzata. Ovviamente l'idea di rendere il percorso una sorta di passeggiata in un museo di pittori meravigliosi colpisce almeno altrettanto. 
Così come non può passare inosservato il fatto che tutto abbia un ritmo cadenzato. 
L'ultima cosa che colpisce è che per essere un libro di poesia c'è molto scritto in prosa: ben quattro pagine iniziali in cui si spiega per benino perché e come si sono formate le affinità elettive tra luoghi e pittori. Interessante legame, anche se forse Hopper avrebbe preferito condividere un po' dell'aria aperta -e della luce su cui tanto aveva lavorato- che invece è tutta di Monet... ma questo è un fatto di sensibilità personale e poco importa. 
Intorno a tutte queste rime che raccontano di porte da calcio e di giardini e di orizzonti c'è Sergio Olivotti in una veste abbastanza insolita.


Un passo indietro rispetto alle sue fantasmagorie da albo illustrato. Qui decide di chiudersi in una bellissima scala di grigi, adatta alla porosa carta Salani, decide di seguire anche lui il gioco dell'affinità elettiva con l'arte visuale, alludendo, citando e lasciando andare libero l'architetto che è in lui. Davvero interessante per quanto insolito. 


Così come Caporaso gioca con le parole, così Olivotti gioca con le forme, con i pieni e i vuoti che si incastrano, con le figure che si scompongono... 
E quale è la relazione che stabilisce tra testo e immagine? 
Deve temporaneamente dismettere i panni dell'illustratore di albi e deve giocarsi tutto con una sola figura. Si sostiene magari a un'unica parola del testo e poi da lì comincia a girarci intorno per costruire, dare forza e senso al suo disegno: un caso su tutti La capanna, un magico guscio. O ancora dà una sua personale lettura quando le rime vagabonde, senza fissa dimora, hanno accanto una donna-chiocciola. 
Come sempre accade, delle poesie non andrebbe detto niente: se non il suggerimento di leggerle - queste soprattutto ad alta voce - e godersele nelle loro rime così cadenzate. 
Ma almeno un paio, anzi tre, preferenze le devo segnalare: La scala verso il cielo. Storia di bambino curioso che non avendo elica o ala per andare a vedere nell'oltrecielo si costruì una scala. Mise in fila una scopa, una conca, un anello, una scarpa, una corda e un vitello. In realtà l'oltrecielo non lo vide mai, ma da lassù - con le gambe nel vuoto - poté scorgere il mondo. 


Mentre nel Quartiere sottosopra l'alba è alla sera, il cielo è verde e il prato è giallo. Gli uomini enormi hanno cuori come castagne, mentre i piccoli ce l'hanno che è infinito. Siccome lì va tutto alla rovescia: il cane migliore è un gatto e quando qualcuno rifiuta, urla Sììììì. 
Ultima, dedicata ai punti cardinali, per orientarsi internamente:

A nord del cuore si trova la gola 
rampa di lancio per ogni parola 
A sud del cuore si trova la pancia 
cupola, circolo, tondo d'arancia... 
A est e ovest ci sono i polmoni 
chi ha fame d'aria la mangia a bocconi 
chi si emoziona la prende a pezzetti 
chi sta volando la beve sui tetti... 


 Carla








venerdì 19 settembre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

COME RICONOSCERE UNA BUONA IDEA

Come riconoscere una forchetta e molti altri oggetti di casa
Silvia Borando (a cura di) 
Minibombo 2025 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 5 anni) 

"Come riconoscere una forchetta? 
Facile! 
Ha i denti; porta il cibo alla bocca; di solito è di colore grigio. 
Come riconoscere, invece, una caffettiera? 
Molto facile! 
Ha un beccuccio; fischia tutte le mattine; spesso è accanto ai biscotti." 

La scoperta di molti oggetti di uso comune attraverso i diversi ambienti della casa. 
Dalla cucina, dove impariamo a riconoscere la forchetta e la caffettiera e infine il frigorifero, si passa al bagno dove conosciamo lo spazzolino, lo specchio e naturalmente la sgusciante e viscida saponetta. 
Poi si prosegue per la camera dove si dorme e poi per quella dove si sta: il salotto. 
Per ognuna di queste, ci sono tre oggetti che la "abitano". E per ognuno di loro tre indizi per imparare a riconoscerlo. Dalla sveglia che ogni mattina si spegne, lì sul comodino al tappeto, non importa se col pelo corto o lungo, di certo con la sua immancabile frangia... 

Detto così, questo libro potrebbe essere ben poca cosa. 
Una pagina dedicata all'oggetto di cui si dà la definizione e poi la sua immagine - contestualizzata - nella pagina successiva e per concludere l'intero ambiente, ossia cucina salotto ecc ecc in cui tutti insieme i tre oggetti, insieme a molti altri, stanno lì a fare bella mostra di sé. 


Ma non è affatto così. 
Non è un libro per piccolissimi in cui accanto all'oggetto citato c'è di norma una sua immagine fotografata oppure molto ben disegnata... 
Non è un libro in cui gli oggetti siano così numerosi che lo si possa considerare un imagier... 
Non è un libro costruito per imparare a scrivere dette parole: da forchetta a quadro, troppo esiguo il loro numero, quindi non è neanche un abecedario. 
Ma allora che cos'è?
Si tratta di un libro esilarante, pur nella sua veste di libro non-fiction! Addirittura, per confermare che non si tratta di una storia ma di un libro pieno di informazioni, l'autrice preferisce citarsi come curatrice... 
C'era da aspettarselo da Silvia Borando. 
Di rado le sue idee passano inosservate e di norma sono buone e cattivelle allo stesso tempo. E questa non fa eccezione. 
La chiave per capire come funziona veramente il libro, la si capisce dalla seconda definizione in poi, a patto che si voglia ribaltare il punto di vista. 
Mi spiego, senza spiegare troppo, per non mandare a zampe all'aria la sorpresa nel leggerlo. 


Il cambio di prospettiva lo si deve mettere in essere a partire dalla definizione. 
Per esempio, la forchetta è vero che ha i denti (in realtà i colti li chiamano rebbi), è anche vero che porta il cibo alla bocca (forse sarebbe più corretto dire che serve per portare il cibo alla bocca, ma salterebbe tutto!) ed è anche vero che di solito il suo colore è il grigio, essendo di metallo. 
Ma Silvia Borando si deve essere anche chiesta se questa definizione non sarebbe stata calzante anche per qualche altra cosa... E così è nato il gioco. 
A questo punto, concepire il testo di questo libro si è rivelato un vero e proprio gioco di cesello lessicale, una sorta di zigzag tra i doppi sensi, i doppi significati e cose così. 
Il resto è stata tutta discesa, perché raffigurare "la cosa" che con la forchetta condivide la definizione e contestualizzarla in un ambiente tipico da forchette, genera la risata.  Perché non credo di svelare molto, dicendo che l'essere "fuori luogo" è davvero molto evidente. 
In totale il libro si compone (4 stanze e 3 oggetti per stanza) quindi di una dozzina di scherzi ossia di colpi di scena, ossia di capriole di senso, che sfruttano al meglio il giro di pagina per creare il giusto tempo per il rullare di tamburi nella suspense. 
Che si tratti effettivamente di un libro per piccoli non so dire. 


O meglio, i piccoli si divertiranno comunque dei colpi di scena, ma i più grandi - e penso a bambini tra i nove e i dieci anni, ma anche liceali, che si scelgono oggetti di uso comune e, guardandoli con attenzione, ne individuino dei caratteri che possono essere condivisi da molte altre cose... 
Per esempio un bambino potrebbe dare indicazioni su come riconoscere il forno in una cucina? 
Sì che potrebbe, magari con l'aiuto della sorella alle soglie della maturità: il forno lo riconosci perché ha una bocca grande, se intorno è caldo dà il meglio di sé, quindi è consigliabile non metterci una mano dentro... 
Provare per credere, ma non con il forno! 

Carla

mercoledì 17 settembre 2025

FUORI DAL GUSCIO (libri giovani che cresceranno)

LAGGIÚ, OVVERO PRENDERE UNA DIREZIONE


“Ogni eroe ha una storia [...] 
Tutti vogliamo vedere un eroe. 
Dargli una pacca sulla spalla, stringergli la mano e dirgli quanto è stato in gamba, quanto gli siamo grati. Vogliamo che sia coraggioso, ma non vogliamo sentire quanto quel coraggio gli è costato. Non vogliamo sapere che sotto tutto quel coraggio c’è la paura, profonda e fredda come il fiume Watauga dopo il primo disgelo di primavera. Non vogliamo sentire la sua storia. O, comunque, non la sua storia vera. Preferiamo raccontare una storia nostra. 
Era così quando i soldati partivano per la guerra e poi tornavano a casa. E fu così anche per Jack.” 

Una storia complessa e parecchio avvincente quella raccontata in prima persona da Danny che ha 13 anni nel 1943 e vive a Foggy Gap. Ci troviamo in una piccola cittadina sul fiume Watauga, al confine coi boschi, nel Nord Carolina. 
Gli Stati Uniti sono nel pieno della seconda guerra mondiale. 
Danny è un adolescente attento che si fa interrogare dagli eventi. 
E gli eventi sono due: la guerra e Jack Bailey. 
La guerra arriva a Danny con la retorica nazionale sull’eroismo nei “campi di battaglia della democrazia”, gli appuntamenti radiofonici con le “chiacchierate al caminetto” di Roosevelt, le prime sussurrate notizie sui lager nazisti. Ma anche con il razionamento dei viveri, l’orto di guerra nel giardino di casa, la raccolta dei metalli per gli armamenti, qualche papà o fratello che si arruola, e qualcuno che già non torna, qualcuno che diserta. 
E poi c’è Jack: il suo migliore ed eroico amico, che però nasconde una storia difficile e una scomparsa misteriosa… compreso l’enigma di un posto chiamato Yonder. 
Il racconto parte da un prologo che apre già a una domanda: che cos’è un eroe? 
Forse quel ragazzo, Jack Bailey, di pochi anni più grande di lui, che quel giorno di qualche anno prima aveva salvato a nuoto le gemelle Coombs dal diluvio che fece esondare il fiume Watauga? L’unico ad avere il coraggio di tuffarsi mentre tutti gli altri del paese restavano immobili? Quel giorno, ci dice Danny, “tutti eravamo d’accordo sul fatto principale: Jack Bailey era un eroe. Nessuno però si soffermò a riflettere su cosa fossimo noi.”
La paura e il coraggio. 
Possiamo dire che è tutta qui la questione nella quale, insieme a Danny, ci imbattiamo attraversando questa storia, che comincia un venerdì di giugno del 1943, e comincia con la misteriosa scomparsa di Jack Bailey. A partire da quel venerdì, Danny cercherà di risolvere quel mistero e in sette giorni porterà avanti una vera e propria investigazione da detective story. 
Ma lasciamo momentaneamente da parte la trama per soffermarci sulla struttura del racconto. 
C’è un prologo in cui Danny ci parla da un tempo presente, quando tutto è già accaduto da un pezzo, poi ci sono i capitoli che narrano i giorni alla ricerca di Jack (da quel venerdì al successivo giovedì del giugno ‘43), e poi ci sono i capitoli -stampati su carta grigia - che intervallano i precedenti, e che raccontano singoli fatti pregressi. Una struttura narrativa ben studiata, costruita su diverse linee temporali che si richiamano e si collegano agganciandosi l’una con l’altra con precisi richiami (al modico prezzo di un leggero stordimento temporale per chi legge). 
Grazie a questo intreccio dei tempi del racconto accadono contemporaneamente due cose. 
La prima: chi legge ha modo di conoscere fatti e antefatti della vicenda narrata procedendo con informazioni aggiuntive che i continui flashback forniscono di volta in volta. 
La seconda: con questo flusso di pensieri e di eventi, con questo andare costantemente tra prima e ora, Danny pare proprio impegnato a stendere ponti tra due sponde che improvvisamente si aprono sotto i suoi piedi, due rive che sembrano allontanarsi sempre più: l’infanzia (prima) e l’adolescenza (l’ora). Grazie a questo andirivieni, Danny può mettere insieme i pezzi di una nuova consapevolezza come se quei flashback fornissero anche a lui delle informazioni aggiuntive su se stesso e sul mondo. Un fitto lavoro interiore che, sulle tracce dell’eroe scomparso, lo porta a cercare risposte a domande che non si era mai posto prima, a fare i conti con la propria paura, con la lealtà, con le violenze nascoste, con le apparenze, coi pregiudizi. Danny scopre che la guerra è dovunque, sui campi di battaglia, ma anche nel suo Paese (Foggy Gap come gli Stati Uniti d’America) ancora invischiato nella segregazione razziale, nella paura che diventa complicità di chi sa e non dice, nella prepotenza dei potenti. O semplicemente nell’indifferenza condivisa, come quel giorno delle gemelle Coombs e del diluvio che se le stava portando via. 
E così Danny, che già conosceva la paura, scoprirà il (suo) coraggio. 
Qualche passaggio didascalico di tanto in tanto (soprattutto nel finale) non toglierà il piacere della lettura di questa storia ben raccontata, con un adolescente attento che abbandona l’infanzia aprendo gli occhi sul mondo. 
Ma Yonder? A Danny gliene aveva parlato Jack, e a Jack lo raccontava spesso sua madre. 
Yonder – raccontava – è “una città perfetta […]. Dove non hanno mai neppure sentito parlare della guerra. Con una tavolata che si stende sulla via principale, così lunga che non riesci a vedere da un capo all’altro. Tutti mangiano insieme. Nelle notti fredde accendono fuochi e la città intera si siede al tavolo a cantare canzoni e raccontare storie. E quando fa caldo, dormono tutti su amache tirate fra gli alberi”. Yonder, in inglese, “laggiù”. Una direzione, un’indicazione verso un luogo dove non siamo ancora, una lunga tavolata ancora da imbandire. 

Patrizia 

 “Yonder. Per sognare un mondo senza guerra”, Ali Standish, trad. di Anna Carbone, Mondadori 2025 


lunedì 15 settembre 2025

LA BORSETTA DELLA SIRENA (libri per incantare)

CUCÙ. Con le storie nascono i fiori

La scuola degli animali
, María José Ferrada, Issa Watanabe 
(trad. Marta Rota Núñez) 
Topipittori 2025 


ILLUSTRATI PER PICCOLI (dai 4 anni) 

"Per una settimana, la bambina ha fatto quel che si fa con i semi appena comprati: piantarli, annaffiarli, raccontargli qualche storia. Ed è successo che dalla terra sono spuntati dei germogli da cui, dopo un'altra settimana di acqua e di storie, sono spuntati dei fiori. 
La cosa normale sarebbe stata che, a quel punto, dalla casa in cui abita la bambina uscisse la nonna e dicesse: 'Che bei fiori, li metterò in un vaso'. Ma non è andata così, ed è giunta la notte." 

Sotto il castagno sono riuniti la farfalla, il colibrì e il coniglio. 
Sono lì per discutere assieme di un fatto strano: quello della semina della bambina. Con loro c'è pure il gallo che è arrivato al castagno con un altro intento, ovvero discutere del fatto che la volpe il giovedì arrivi a scuola volando. In verità spetterebbe a lui volare, perché dotato di piume e alette. Ma questa è un'altra storia che a coniglio, colibrì e farfalla non interessa al momento. Loro sono lì per capire cosa sia veramente accaduto con i semi piantati dalla bambina. Lei li ha presi al negozio del signor González pagandoli cento soldi immaginari, poi è tornata a casa e poi ancora è andata nell'orto e li ha piantati. Fin qui tutti concordano. Su quello che è successo dopo, invece, non c'è chiarezza: c'è chi dice - il coniglio - che i germogli siano diventati così alti che quando hanno toccato il cielo sono spuntati dei frutti luminosi, che lassù sono restati. C'è chi sostiene invece - il gallo - che siano stati i fiori a staccarsi e, una volta in cielo, siano rimasti splendenti e immobili. Farfalla e colibrì non concordano con nessuno dei due. Loro pensano che, per la sua proverbiale distrazione, il signor González non abbia dato alla bambina veri semi, ma bei bottoni bianchi. 
Il tempo passa e tra loro non c'è accordo, ma poi quando arriva l'ora di rincasare, ognuno di loro torna sui propri passi. 
La bambina, che ha sentito tutto, guarda dalla finestra e nel cielo blu scuro vede le stelle, una dopo l'altra accendersi. Lei sa che succede da sempre, però ogni volta sembra incredibile... ve'? 

A me di Ferrada incantano le poesie. E di Watanabe, i colori. 
Bene: qui Ferrada scrive brevi racconti e Watanabe disegna in un bianco e nero che farebbe venir voglia a chiunque di prendere in mano le proprie matitine per colorare i suoi animaletti. E non è detto che non accada.


In questi racconti, sette e brevi, mi pare si ritrovi tanto della poesia che mi aveva incantato: lì erano cose e mobili di una casa, qui una piccola comunità di animali che abitano tutti vicino in un paese, il loro (due umani, almeno: la bambina, forse una nonna, e il signor González) dove ci sono alcune case, un sentiero, un fiume, un grande tiglio (ma anche altri alberi) e degli orti. 
Situazione ideale per far partire qualsiasi storia. E infatti. 
Tutto nasce da un dato di realtà, ben riconoscibile da ogni bambino lettore, e mentre lui è lì che si adagia tra le cose conosciute, María José Ferrada lo prende per mano e se lo porta in giro e gli fa vedere l'incredibile come se nulla fosse. 
Nella Scuola degli animali, per esempio, si studia matematica (2 fiori + 3 fiori = 5 fiori), oppure scienze e si impara che alberi, trifogli o fiori - non fa differenza - tutti sono sostenuti dalle loro radici... Nella scuola degli animali tutti i giorni, si esce alle 10 per fare ricreazione e mangiare la merenda, ma poi un giorno a settimana - è il giovedì - accade l'imponderabile: la volpe arriva in classe volando. Nella stessa scuola si studia Futuro e ognuno degli animali che la frequenta ha il suo momento per raccontare alla classe cosa farà da grande... il gatto farà l'autobus, quello delle sette del mattino, mentre il gufo sarà una torcia, per salutare come si deve la notte. 
Questa è la piccola meraviglia che accade a ogni nuova frase: non poter prevedere neanche un po' la direzione che le sue piccole storie prenderanno. 
Bello così, farsi portare un po' qui un po' là: celebrare la Festa della Grande Cipolla, andar dietro alle oche che hanno scoperto un sentiero che comincia alla fine del ponte e si inerpica su fino alla luna, un sentiero di aria pieno di stelle. Necessaria sarà la scala.


Cucù! Lo stupore per l'inaspettato è la molla che ha messo in moto tutto; in ognuno dei piccoli racconti trova forme diverse: dal cilindro, o forse dovrei dire dal cerchio in fondo all'armadio, non escono solo conigli... e dai cavolfiori di cartone escono invece agnellini, ma fanno cucù anche oche, galli, volpi e bambine con questo passo saltellante e incerto attraversano il libro per intero. 


E noi lì a guardare, imbambolati! 
Non riesco a pensare ad altro scopo nello scriverlo, che far sgranare gli occhi e spalancar bocca e orecchie di chi lo legge (o se lo fa leggere). Che poi è cosa buona e giusta che una storia dovrebbe fare, oltre a far nascere i fiori.

Carla

venerdì 12 settembre 2025

OLTRE IL CONFINE (libri dall'estero)

L'ALTRO TALLEC: LA VENDETTA! 

Le cose che sto imparando e mettendo in fila su Olivier Tallec sono molte. 
Nei suoi libri ci sono delle costanti che lo rendono riconoscibile quanto unico e per questo amabile. 
A parte il fatto che abbiamo potuto seguire il suo segno, del quale abbiamo apprezzato l'evoluzione dal suo primo esordio italiano con Bi sognerà fino ad arrivare all'ultimo i Tre sassi... 
A parte il fatto che lo abbiamo visto crescere anche come autore, e quindi 'sganciarsi' dalle parole e dalle storie di altri per andare a scrivere le proprie, fermo restando che in coppia con alcuni autori - da Nadine Brun-Cosme a Laurent Rivelaygue - è in perfetta sintonia sempre... 
A parte il fatto che abbiamo imparato ad apprezzare la sua rara capacità di raccontare pregi e difetti dell'umanità - il più delle volte sotto mentite spoglie - attraverso impercettibili ma efficacissimi dettagli espressivi: dagli occhi sgranati alle sopracciglia inarcate, alla postura delle spalle e delle ginocchia... 


A parte il fatto che abbiamo capito quanto gli piaccia disegnare animali graficamente confacenti, lo scoiattolo, il lupo dal muso lungo, il fungo così tondeggiante... 


A parte il fatto che abbiamo capito quanto ami disegnare e dipingere i boschi: rari nelle sue storie i contesti urbani... 
A parte il fatto che abbiamo apprezzato che lentamente ma inesorabilmente nelle sue storie ha potuto dare grande sfogo al suo senso dell'umorismo, che va dal comico verso una sana e robusta ironia che talvolta sfocia nel sarcasmo, senza il quale adesso credo faticherebbe a sentirsi appieno soddisfatto del suo lavoro....


A parte il fatto che - almeno in tutte le storie di cui firma anche il testo - si apprezza la sua sospensione di giudizi e di morale e, più in generale, di soluzioni preconfezionate... 
A parte il fatto che di Tallec abbiamo imparato ad apprezzare il suo modo di guardare (e quindi di costruire) i suoi protagonisti, in un miscuglio, molto umano, tra affetto e cinismo... 
A parte il fatto che di Tallec apprezziamo il suo coraggio a non tirarsi indietro di fronte a questioni 'spinose' da sottoporre ai bambini, forte del fatto che a loro si può dire tutto a patto che lo si faccia con cura e leggerezza (esce a giorni Sta dormendo?
A parte il fatto che tutto questo non è poco, credo vada aggiunta un'altra costante che con l'idea che i bambini vanno trattati come persone, ha parecchio a che fare. 


Tallec non ce la fa proprio a non essere "universale": non ci sono libri, tra quelli pubblicati per l'infanzia, che non parli anche ai grandi. Come è giusto che sia. 
Le ragioni per cui questo accade nei libri dei migliori dipendono dal fatto che dato che hanno una bella testa non riescono a non considerare un bambino come qualcuno che valga di meno di un adulto? O forse vale il contrario? Inverti i fattori, ma il prodotto non cambia! 
Tallec è tra loro, almeno per me, e quindi ha un posto nel mio pantheon. 
Tallec, ovviamente, in alcune circostanze, come gli altri grandi ha deciso di rivolgersi a un pubblico prevalentemente adulto: lo fa dei giornali, dalle riviste francesi ed è un Tallec che colpisce con un unico proiettile: in una vignetta si gioca tutto. 


In Italia questa produzione è difficile intercettarla, a meno che non si sia sulle sue tracce come un segugio, per preparare un incontro di formazione in previsione del suo arrivo a Cagliari al Festival Tuttestorie. 
A Cagliari si parlerà e circolerà il suo scoiattolo p-ossessivo, i suoi alberi tuttofare, i suoi bambinetti e le sue bambinette con le grandi teste e piccoli corpi, ma i suoi tre libri (che nella mia bibliografia sono segnati in neretto come DA GRANDI) raccontano un Tallec che ha appoggiato da qualche parte la "cura" di cui si parlava prima, per andare a intercettare tutti quegli adulti profondamente crudeli - me compresa - che per anni hanno letto i suoi libri per bambini, accontentandosi della sua bonomia...


I libri in questione sono usciti a distanza di due anni gli uni dagli altri: 2014, 2016, 2018 e sono tutti pubblicati da Rue de Sèvres. In due su tre si ringrazia Laurent Ryvelaugue (il suo compare nella serie a fumetto dei Cosachi) e in tre su tre viene ringraziata Joy Sorman (lui ha illustrato il suo Blob, l'animal le plus laid du monde nel 2015). 
La costante che li tiene insieme come perle - è il caso di dirlo - su uno stesso filo è la sua spietatezza: è satirico, beffardo, politicamente scorretto, 


ironico, sarcastico e spesso anche sanguinario e un cincino blasfemo... 
Tale mancanza di pietà viene sparsa come lo zucchero a velo su un pandoro, ce n'è un po' per tutti.
 

Tallec è lì che ne versa manciate, pagina dopo pagina, e si diverte un mondo e noi con lui, onestamente: si prende gioco delle convenzioni, del perbenismo, dei vizi, delle virtù, dell'infanzia, degli adulti, del senso comune, del moralismo, del conformismo, della moda, della religione... 
Ci si vede a Cagliari... 

Carla

Olivier Tallec, Bonne Journée, Rue de Sèvres 2014
Olivier Tallec, Bonne Continuation, Rue de Sèvres 2026
Olivier Tallec, Je reviens vers vous, Rue de Sèvres 2018

mercoledì 10 settembre 2025

FAMMI UNA DOMANDA!

FACCIAMO CHE IO ERO… 


Stare, andare, essere, cambiare. Ritornare. 
Paradigmi dell’esistenza che si pongono solo apparentemente agli antipodi. La semplificazione conduce sempre a ragionare in modo binario, la divisione permette la differenziazione e una più rapida ed immediata individuazione delle caratteristiche. Questo non conduce però necessariamente a una comprensione approfondita. 
La scienza si è sempre mossa secondo assi, in alcuni casi verticali, in altri orizzontali, generando una ricchezza di nozioni che si sono sommate alle precedenti elaborate sulla base di un criterio stabilito. 
Che cosa succede però quando le ragioni con cui abitualmente giudichiamo un essere vivente, o un organismo in generale, vengono sbaragliate, quando cioè non ci avviciniamo al nostro oggetto di osservazione giudicandolo secondo le consuete classificazioni, ma cercando qualcosa che possa accomunarlo agli altri, anziché differenziarlo? 
Per accogliere una lettura di questo tipo occorre che ci si muova non più su uno spazio, ma sul tempo. Non ragionando più, o meglio non esclusivamente, su quello che può essere descritto in modo definitivo, ma su quanto ha ragione d’essere in relazione a un prima e a un dopo
Così la classificazione per specie non costituisce più il punto di partenza e quello dell’habitat è solo un aspetto che ci consente di comprendere meglio ciò che la natura è in grado tutte le volte di inventare; il sapere comune attribuisce alla scienza una grande capacità di osservazione, calcolo e deduzione, raramente di invenzione. 
Eppure la bibliografia in materia di scienziati e storia della scienza degli ultimi anni ci ha abituato a considerare come elemento essenziale per il lavoro di uno scienziato la sua capacità di immaginare. Se ci limitiamo a ipotizzare soluzioni unicamente logiche, a scegliere cioè solo quello che conferma il paradigma appreso in quell’ambito di indagine, probabilmente non andremmo molto lontano. Solo ammettendo che le soluzioni possono essere di gran lunga più estroverse possiamo riconoscere come plausibile ciò che apparentemente non lo è. E questo è un grandissimo esercizio di pensiero, perché spinge ad elaborare ipotesi al di fuori di un orizzonte esclusivamente umano. 
Se prendiamo ad esempio le età di alcune specie, ci rendiamo conto che quella che noi giudichiamo una fase iniziale della vita, accostabile all’infanzia, in alcuni casi può avere una durata di gran lunga superiore a quella della così detta età adulta. E dunque lo stesso valore attribuito ai concetti di infanzia e maturità sarà messo in discussione, vista la notevole differenza di durata rispetto a quello che accade nella specie umana. Vale allora per tutti riconoscere nella prima fase della vita una crescita progressiva e una preparazione al completamento della fase conclusiva? 


La scelta del titolo credo non sia casuale: cambiare, e non per esempio cambiamenti o trasformazioni. Il verbo all’infinito potrebbe essere anche un invito rivolto a tutti i lettori e quindi contenere già in partenza una connotazione di valore, una sorta di let’s change! Quante possono essere le ragioni per cui si cambia? il libro le esplora tutte indicandoci per ognuna il nome scientifico preciso e soprattutto ragionando e mostrando come questa adottata sia una soluzione alla quale le specie sono pervenute dopo secoli di evoluzione. In pratica nessuna di queste rappresenta l’unica possibile, o quello che potremmo dire la migliore in assoluto, ma quella che ha consentito la sopravvivenza in un contesto naturale particolare. E soprattutto nessuna di queste appartiene in esclusiva a una specie, ma possiamo rintracciarla in tante e scoprire come ogni volta sia stata adeguata a una necessità differente.  


D’altro canto Darwin ci ha insegnato che non è l’individuo più forte che sopravvive, bensì quello che meglio degli altri è in grado di adattarsi. L’evoluzione è ancora sotto i nostri occhi e appartiene ad ogni specie, compresa la nostra! L’illusione dell’uomo probabilmente è tutta nella presunzione della scelta e nella convinzione che quella compiuta sia la migliore possibile.


Ciò che questo libro racconta e dimostra invece è che ogni cambiamento ha un costo e che il lungo tempo impiegato da ogni specie per metter a punto questo processo è servito in gran parte anche a renderlo più tollerabile. 
I cambiamenti sono di forma, di dimensione, di colore, di sesso, di luogo. La migrazione fa parte di questa casistica perché gli ambienti per primi sono soggetti a cambiamento e chi li abita deve adeguarsi, attrezzarsi, in alcuni casi spostarsi. 
A corredo di questi contenuti ci sono gli agili e quasi guizzanti disegni di Francesca Ballarini che bene si adattano ad illustrare proprio quello che non può restare fermo e immobile. Le sue tavole, che pure restituiscono una rappresentazione senza dubbio realistica, rivelano un certo gusto per il “non finito”, come schizzi veloci di una mano che non può indugiare a lungo sul soggetto. 


Sebbene l’uomo sia incluso tra le specie animali e sia stato ovviamente oggetto di evoluzioni e cambiamenti morfologici e funzionali, a lui il libro dedica le ultime pagine attribuendogli un tipo di mutazione differente da tutte le altre: quella culturale. Quella sola che consente di fatto di simulare, riprodurre, riformulare tutte le altre, di compiere quegli atti cioè che appartengono all’arte, alle religioni, alla scienza e non meno al gioco. 

Teodosia 

Cambiare. Trasformismi, metamorfosi, migrazioni nel regno animale di Federica Buglioni, illustrazioni di Francesca Ballarini, Topipittori 2025